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Autore: micht82    16/08/2010    0 recensioni
Una coppia entra in uno studio medico per avere risposte sul loro problema. Dalle risposte del medico cercheranno di ottenere ciò che cercano.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Tesoro… è il nostro turno” dissi dolcemente a mia moglie, riscuotendola dai suoi pensieri.“Andiamo…” la sua voce era titubante, mentre negli occhi riuscivo a leggerle quella speranza unita ad una fede incrollabile, che animava sempre il suo spirito in queste circostanze. Appena entrati il Dottor Castelli, noto ginecologo, ci fece segno di accomodarci. “Allora ragazzi, ho ricevuto i risultati delle vostre analisi” disse prendendo una cartellina bianca da un cassetto della scrivania. Istintivamente allungai la mano verso mia moglie e trovai subito la sua, me la strinse quasi fino a stritolarla, l’attesa e la preoccupazione la stavano divorando. “Da quello che leggo voi due non avete niente che non va, siete sanissimi” il tono del dottore era conciliante. “Allora perché non riesco a rimanere incinta?” la sua voce era quasi una supplica, affinché finisse il suo tormento interiore. “Alice… a volte la natura umana ci riserva degli enigmi a cui neanche noi medici sappiamo dare una risposta” “Dottore, ma qualche rimedio ci dovrà pur essere!”. Ero così stanco di vederla soffrire “Marco, se la vostra voglia di essere genitori è così ardente, potreste intraprendere la via dell’adozione. Talvolta, avere rapporti meccanicamente, con l’unico scopo di procreare, aumenta la tensione, il nervosismo, e si ottiene l’effetto contrario. Riscoprite un’intimità più spontanea, cercate di star bene l’uno con l’altra”. Dalla sua voce tranquilla emergeva la sua più totale comprensione. “Crede che possa essere utile?” disse Alice con voce flebile. “Per altre coppie ha funzionato, perché non tentare?” il dottore cercava in tutti modi di rassicurarci. “Grazie del suo aiuto dottore, ci penseremo” volevo portare Alice a casa al più presto, per permetterle di riprendersi. Ancora stretti per mano, uscimmo dal suo studio, ma mentre mi stavo dirigendo verso l’uscita, mi sentii tirare la mano nella direzione opposta. “Marco dobbiamo andare a trovare tua sorella” mi disse come se fosse la cosa più ovvia del mondo. “Domani, lei capirà… tranquilla” Giulia non se la sarebbe presa, le avrei spiegato dopo al telefono. “Io voglio vederla, ne ho bisogno!” quando mi guardava con quei suoi occhi verdi con riflessi castani, velati da lacrime represse, poteva chiedermi qualsiasi cosa. Ci dirigemmo verso il reparto maternità, ogni tanto sbirciavo il suo viso, per cercare di capire cosa provasse, sapevo che era stoica, ma era pur sempre un essere umano. “Sto bene, non ti preoccupare” girò il viso verso di me con un sorriso accecante, purtroppo per lei non era molto brava a mentire mi chiedevo quanto le costasse tutto questo finto buonumore. Arrivati al nido trovammo subito la persona che cercavamo, era un tenero batuffolo rosa con indosso una tutina azzurra, con ciuffi di capelli neri di nome Antonio. Ad Alice erano sempre piaciuti i bambini e loro non potevano fare a meno di volerle bene. Era soprattutto la complicità che aveva con loro a conquistarli, riusciva a insegnare loro l’educazione giocando e raccontando storie bellissime. Era da quando ci eravamo sposati che desideravamo un figlio, ma dopo dieci anni la vita non voleva concederci questa gioia. I suoi occhi luccicavano, sembrava di vedere una bambina golosa davanti a una vetrina di dolciumi ben assortiti. Riuscivo a notare il suo desiderio di prenderli in braccio, visto che li stava mangiando con gli occhi. “Non trovi che sia bellissimo?” la sua voce era emozionata. “Si è stupendo!” mentre vedevo l’infermiera, prenderlo in braccio, mi domandavo come facessero ad avere tanta dimestichezza, quei bambini per me esprimevano soprattutto fragilità. Quasi nello stesso momento puntammo verso la stanza di Giulia per vedere le sue condizioni. “Zia Aliceeeeeeeeeeeeeeeee!” un’ orda formata da quattro ragazzini ci investì in pieno. “Bambini come state?” aveva caldo sorriso per tutti loro, sempre e in ogni circostanza. “Bene!” risposero in coro. “Carlo, perché non porti i bambini a prendere una cioccolata?” disse Giulia al marito con una inflessione nella voce, per fargli capire che voleva parlare con noi da sola. “Certo cara, bambini andiamo” disse Carlo rivolgendosi ai figli. “No! Vogliamo stare con la zia” le loro erano lamentele sonore. “Bambini, sarò ancora qui quando tornerete” disse loro per rassicurarli. “Promesso?” chiese il più grande. “Promesso! Mano sul cuore” rispose lei poggiando la mano destra sul cuore. Solo così accettarono, seppur controvoglia, di lasciarla. “Dalle vostre facce deduco che ne sapete quanto prima” “Giulia, ci ha detto che siamo sanissimi, che possiamo procreare ma non ci riusciamo purtroppo” la maschera di felicità che si era messa Alice, stava per cadere. “Marco, perché l’hai portata qui e a pezzi, avrei capito” mi guardava come se fossi un irresponsabile. “Sai che non so dirle di no, voleva venire a trovarti” cercai di difendermi. “Allora sei anche masochista! Alice hai bisogno di andare a casa e pensare ad altro, per il momento. Sai quanto mi dispiace” le disse prendendole le mani. “Lo so, ma non potevo non passare a trovare te, Carlo e i miei adorati nipotini, penso che li saluterò e andrò a casa” disse finalmente rassegnata. Prima di varcare l’uscita incontrammo l’unica persona che in quel momento Alice non avrebbe dovuto vedere, perché mia madre era di un’ insensibilità più unica che rara. “Giulia, cara! Come stai? Un altro nipotino! Tu si che sai riempirmi di gioia” sapevo che l’avrebbe fatto di nuovo, le piaceva rigirare il coltello nella piaga. “Mamma… smettila!” le disse lei cercando di farle capire l’orrore che nascondevano le sue parole. Presi Alice per mano e mi incamminai deciso verso l’uscita, non volevo che lanciasse altre frecciatine a mia moglie. “Buongiorno signora, ci vedremo un’altra volta” troppo gentile ed educata era stata Alice. “Non la sopporto quando fa così!” dissi furioso mentre attraversavamo il corridoio. “Dobbiamo salutare i bambini”. Li salutò ad uno a uno con la promessa che presto sarebbero venuti a giocare a casa nostra. Eravamo ormai all’uscita dell’ospedale, quando un tornado dai lunghi capelli rossi ci corse incontro. “Scusate, sono in ritardo ma sono stata trattenuta in ufficio” parlava molto in fretta. “Non ti preoccupare Sara, di sopra troverai…” non fece neanche finire la frase ad Alice che la stritolò in un abbraccio tra sorelle, si conoscevano così bene che si capivano con uno sguardo. “Mi dispiace sorellona, ne parliamo a casa?”. Alice annuì con la testa, ormai era arrivata al limite, sapevo che in macchina avrebbe dato libero sfogo alle lacrime che continuava a tenersi dentro. Per tre giorni non fece altro che piangere e stare a letto e questo era in netto contrasto con la sua natura visto che era sempre stata una donna sensibile, disposta a condividere con gli altri l’immenso amore che provava per la vita. Sara ed io, cercammo di aiutarla ad uscire dal suo stato di depressione, parlandole dolcemente in un primo momento, ma non vedendo una sua reazione, Sara cambiò metodo cercando di scuoterla con parole più dure. “Alice, sappiamo bene quanto questa notizia ti stia facendo male, ma il tuo stato di depressione e apatia sta facendo preoccupare tutte le persone che ti vogliono bene. Per favore torna a vivere, fallo per noi” le ultime parole sembravano una supplica, Sara stava facendo pressione su di lei, cercando di far leva su i suoi sensi di colpa, mi sembrava una cosa ingiusta da fare, ma volevo che la “vera” Alice tornasse da noi per illuminare le nostre vite. Ero conscio del mio egoismo in quel momento, però non riuscivo a sopportare di vederla ridotta in quello stato. Dopo qualche ora che Sara se ne era andata e mentre io ero in salotto seduto a terminare un po’ di lavoro arretrato, la vidi comparire sulla soglia intenta a venire verso di me con passo lento, gli occhi arrossati per il troppo pianto e i capelli arruffati. Si sedette sulle mie gambe, gettandomi le braccia al collo, poggiando la testa sul mio petto. “Mi dispiace avervi fatto preoccupare” la sua voce era roca per via del pianto e per non aver parlato per tre giorni. “Amore… non devi dispiacerti, sappiamo tutti quale colpo hai ricevuto, però vederti così…” non riuscivo a trovare le parole per esprimere quello che avevo provato. Vedendo che non riuscivo ad esprimere i miei sentimenti, mi venne in soccorso baciandomi, era il suo modo di dirmi che aveva capito e che si sarebbe sforzata di riprendersi per il suo bene e anche per il nostro. Una sera, prima di andare a dormire, mentre entrambi stavamo leggendo un libro, improvvisamente chiuse di scatto il suo libro e disse “Ho deciso, voglio adottare un bambino”. “Sei sicura?” dissi dolcemente. “Ho riflettuto molto in questi giorni sulle parole del dottore e ho capito che si può essere madre anche di un figlio che non sia stato nove mesi dentro di te” non le avevo mai visto tanta determinazione nello sguardo. “Se è questo che vuoi nei prossimi giorni ne parleremo con un assistente sociale” il mio tono era neutro. All’improvviso Alice con una mossa rapidissima mise il libro sul comodino e restando sempre sotto le coperte salì a cavalcioni su di me. “Sputa il rospo, che problema hai?” mi guardava fisso con i suoi meravigliosi occhi. “Il problema è sempre quello, mentre tu sarai una madre perfetta, io sarò un padre incapace di crescerlo e insegnargli qualcosa” ero serissimo. “Non dire assurdità, non capisco perché pensi questo, i tuoi nipoti ti adorano!” la sua voce era diventata più dolce del miele. “I nostri nipoti non ti farebbero mai un torto e quindi fingono di volermi bene” avevo un tono distaccato. “Tu credi che i bambini possano fingere di provare amore verso qualcuno? Loro non ragionano così, vanno a istinto. Prendi Roberto che ha quattordici anni, lui ti adora perché lo tratti da pari a pari, lo capisci più dei genitori. Non dico che saremmo dei perfetti genitori e che non ci sono persone migliori di noi, ma sono consapevole che quel bambino starà meglio con noi, rispetto a dove si trova adesso” le ultime parole me le aveva dette a un centimetro dal mio viso, con il suo su cui si stava formando un sorriso malizioso e complice. “Ho idea che il lavoro più grosso toccherà a te” impossibile trattenere una risata di cuore, aveva il potere di farmi sorridere sempre anche quando ero giù di morale. “Tesoro… ma questo è normale, hai mai visto un uomo che si occupa maggiormente dei figli rispetto alla madre?” disse sarcastica. Spinto dall’impulso di quel momento la baciai teneramente, più il bacio si prolungava più aumentava il mio desiderio di lei, la strinsi forte a me e sentendo che anche il suo corpo fremeva di eccitazione, facemmo l’amore non più con l’unico scopo di avere un figlio, ma solo per noi stessi per sentirci parte l’uno dell’altra. Erano passati alcuni mesi e in quel periodo di tempo, tutto sembrava essere tornato alla normalità. I nipoti passavano più tempo da noi che nella loro casa, ogni notte la passavamo gioendo della nostra felicità ritrovata ed evitavamo con cura mia madre, ma un giorno che eravamo a casa di Sara, Alice ci svenne sotto gli occhi. La paura che provammo fu grande e nonostante le sue rassicurazioni, appena si fu ripresa, decidemmo di portarla in ospedale per degli accertamenti. Quando il medico finì di visitarla, ordinò immediatamente delle analisi del sangue, perché voleva essere sicuro che la sua intuizione fosse giusta, rassicurandoci comunque che non c’era niente di cui preoccuparsi. Anche se il medico ci aveva tranquillizzato, continuavo ad essere preoccupato, perciò attendevo l’esito delle analisi con impazienza forse più di Alice che era serena, come se già sapesse che il risultato delle analisi non avrebbe dato nessuna cattiva notizia. Il giorno della verità arrivò presto. Verso le nove di quel mattino, entrammo nello studio del Dottor Palombo, che era il nostro medico curante da molto tempo, per conoscere la diagnosi. Dopo averci fatto accomodare, ci fece un grande sorriso ed esordì dicendo “Posso annunciarvi che presto, circa nove mesi, la vostra famiglia si allargherà”. “Ne è sicuro?” chiesi ancora stupito dalla notizia. “Più che sicuro! Le analisi non mentono” conoscendoci da molto tempo sapeva quanto ci tenevamo ad avere un figlio. Mi voltai immediatamente verso Alice e vidi che il suo viso era diventato di pietra, sembrava scioccata, ma gli occhi erano umidi e una lacrima solitaria cominciò a scendergli sulla guancia. Mettendomi davanti a lei, gliela asciugai con il pollice e quando finalmente tornò in sé, mi sorrise e mi abbracciò stretto. Rimanemmo così alcuni minuti gioendo della notizia che aspettavamo fin da quando c’eravamo sposati, finché non ci liberammo dell’abbraccio per ringraziare il dottore e uscire dallo studio, sempre con un enorme sorriso sul viso. Era bastata un’ora affinché tutti i nostri parenti fossero a conoscenza della notizia. Sara venne immediatamente a casa nostra, per gioire con noi. Mi accorsi solo allora di come ci si può sentire felici quando quello che speri si avvera. Il volto di Alice irradiava allegria come un sole nascente. Con il passare dei mesi, nulla riusciva ad intaccare la sua felicità, nonostante dovesse sottoporsi a esami ecografie e analisi e aveva le nausee. Entrati nel nono mese, nemmeno il pancione enorme ed il fatto che non riuscisse a scorgere i piedi doloranti smorzarono la sua gioia, ed il mal di schiena terribile non faceva che darle la certezza che mancasse oramai poco. La notte del cinque maggio sul finire della gestazione mi sentii stringere e una voce preoccupata che mi diceva “Ci siamo, ho le contrazioni!”. La valigia era stata preparata prima, per questa evenienza, e ci precipitammo in ospedale il più in fretta possibile, mentre io ero agitato e teso, lei riusciva a rimanere concentrata. Una volta arrivati le infermiere l’aiutarono a prepararsi alla visita del ginecologo, in quel momento mi ricordai che dovevo avvisare almeno i parenti stretti, se non volevo essere perseguitato a morte per questa dimenticanza. Dopo alcune ore di contrazioni le si ruppero le acque e fu preparata per la sala operatoria. Eravamo io, Sara e Giulia fuori in sala d’aspetto ad attendere la nascita della creatura. In quella situazione di attesa, mi venne in mente il giorno della prima ecografia. Alice era eccitatissima all’idea di vedere per la prima volta il nostro bambino. Quando sullo schermo apparvero le prime immagini vedevo solo forme indistinte. Neanche con l’aiuto della dottoressa riuscivo a capirci qualcosa, l’unica cosa che avevo capito e che stava bene ed era questa la cosa più importante, che ci rese ebbri di gioia. Con le ecografie successive si riuscì a determinare che sarebbe stata una bambina, quando me lo dissero cominciai a provare ad immaginarmela, ovviamente era la copia in miniatura di Alice volevo che non prendesse niente di mio neanche il carattere, non avrebbe fatto altro che penalizzarla. “Allora il nome rimane quello? Non c’è speranza che cambiate idea?” chiese Giulia speranzosa, riscuotendomi dai miei pensieri. “Mi dispiace abbiamo scelto Isabella e quello rimane” dissi deciso. “Non capisco perché voglia darle il nome di nostra madre” la voce di Sara era perplessa. “Secondo me è un bel nome” volevo difendere la scelta di Alice, che io avevo condiviso, fino in fondo. Sara non ebbe modo di replicare, perché la porta della sala operatoria si aprì e ne uscì il ginecologo di turno, ci alzammo per riceverlo. “Il signor Delpiave?” aveva un tono molto serio e professionale. “Si, mi dica” stavo cominciando a sudare freddo. “Mi dispiace dirle che sua moglie è morta in seguito ad una emorragia interna che purtroppo non siamo riusciti a fermare, ma sua figlia sta bene e gode di ottima salute” disse continuando con il suo tono professionale. La mia mente si era bloccata sulle parole “sua moglie è morta” ero incapace di formulare pensieri coerenti. Mi ritrovai seduto, come imbambolato, su una sedia, mentre qualcuno cercava di parlarmi, ma la mia mente non riusciva a registrare i suoni che mi venivano quasi urlati. Mi ci vollero alcune ore per riavermi almeno un po’, in quei momenti continuavo a pensare a tutte le cose che avevo perso, perché lei era morta. Non c’era più. Mi aveva lasciato solo. Mi lasciavo trasportare come se fossi un automa, mi avevano portato nei giardini dell’ospedale, per cercare di farmi riprendere almeno un po’. Sentivo che vicino a me c’era una presenza, ma non avevo la forza di vederla veramente. Il dolore che provavo dentro mi aveva annientato, non c’era più niente. Una mano piccola e calda prese la mia e la strinse. “Marco… per favore riprenditi, da sola non posso farcela!” anche Sara era disperata, ma al contrario di me riusciva a vivere il suo grande dolore in modo più razionale, senza lasciarsi prendere dallo sconforto. “Non ho più nulla Sara… lei non c’è più” dissi le ultime parole con un grido, che mi permise di sfogarmi almeno un po’, lasciando scivolare sul mio viso calde lacrime. “Non è vero! Hai una famiglia che ti vuole bene, ma soprattutto una bambina da crescere” disse con la voce strozzata per l’emozioni tristi che stava vivendo. Ero così concentrato sulla morte di Alice, che non avevo più pensato che nostra figlia era nata e stava bene. “Dov’è adesso?” chiesi titubante. “E dentro, per adesso si sta occupando di tutto Giulia con Carlo, ma non possono farcela da soli, te la senti di entrare?” vedevo che neanche a lei la prospettiva piaceva molto, ma sapeva che dovevamo farlo. “Devo farcela” con uno sforzo immenso cercai di ritrovare un po’ di lucidità, anche se mi sembrava una cosa impossibile, ma dovevo farlo per lei, per l’amore di una vita, per Alice. Arrivati al reparto vidi mia sorella al telefono che discuteva unitamente. “Marco, avresti dovuto andare a casa, mi sarei occupata di tutto io” sempre troppo gentile Giulia. “Non posso addossare tutto sulle tue spalle, Alice è mia moglie, devo fare qualcosa anch’io per evitare di impazzire” avevo detto “è” invece di “era” non era semplice accettare la sua morte. “Vai da Isabella, ti sta aspettando” disse delicatamente. Sara mi prese la mano e mi accompagnò fino alla stanza che era stata di Alice, dopo qualche minuto arrivò l’infermiera con Isabella che dormiva nel suo lettino era bellissima, la cosa più bella che avessi mai visto e fui preso dal panico. “Come farò a crescerla senza di lei?” ero terrorizzato. “Che sciocchezze, c’è la farai benissimo e poi non dovrai fare tutto da solo, ci siamo io e Giulia che ti daremo una mano” “Ma non crescerà bene, non nel modo in cui l’avrebbe allevata Alice” non riuscivo a capacitarmi che non avrebbe potuto allevare la sua bambina. “Marco, non nego che Alice fosse bravissima con i bambini, ma lei aveva grandissima fiducia in te, continuava a dirmi che era contentissima che sua figlia avrebbe avuto un papà come te, perciò abbi fiducia in te stesso” “Lo pensava veramente? Non mi racconti bugie?” non ero convinto. “Questo è quello che pensava e che io condivido pienamente, perciò adesso prendi in braccio tua figlia e donale tutto l’amore che hai da offrirle” Sara era un tipetto piuttosto deciso, quando voleva. Andò alla culla di Isabella e con gesti decisi e cauti la prese tra le braccia per depositarla nelle mie. Le sensazioni che provai in quel momento furono tante, ma una sovrastava le altre: l’amore per mia figlia. Sapevo che i neonati nei primi giorni di vita, non vedono distintamente, ma quando lei aprì gli occhi sembrava che mi stesse osservando, fu in quel momento che le feci una promessa solenne, l’avrei allevata nel modo migliore possibile. Sperando che lo spirito di Alice ci proteggesse sempre.
   
 
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