“Tesoro… è
il nostro turno” dissi dolcemente a mia moglie, riscuotendola
dai suoi pensieri.“Andiamo…” la sua voce
era titubante, mentre negli occhi riuscivo a leggerle quella speranza
unita ad una fede incrollabile, che animava sempre il suo spirito in
queste circostanze.
Appena entrati il Dottor Castelli, noto ginecologo, ci fece segno di
accomodarci.
“Allora ragazzi, ho ricevuto i risultati delle vostre
analisi” disse prendendo una cartellina bianca da un cassetto
della scrivania.
Istintivamente allungai la mano verso mia moglie e trovai subito la
sua, me la strinse quasi fino a stritolarla, l’attesa e la
preoccupazione la stavano divorando.
“Da quello che leggo voi due non avete niente che non va,
siete sanissimi” il tono del dottore era conciliante.
“Allora perché non riesco a rimanere
incinta?” la sua voce era quasi una supplica,
affinché finisse il suo tormento interiore.
“Alice… a volte la natura umana ci riserva degli
enigmi a cui neanche noi medici sappiamo dare una risposta”
“Dottore, ma qualche rimedio ci dovrà pur
essere!”. Ero così stanco di vederla soffrire
“Marco, se la vostra voglia di essere genitori è
così ardente, potreste intraprendere la via
dell’adozione. Talvolta, avere rapporti meccanicamente, con
l’unico scopo di procreare, aumenta la tensione, il
nervosismo, e si ottiene l’effetto contrario. Riscoprite
un’intimità più spontanea, cercate di
star bene l’uno con l’altra”. Dalla sua
voce tranquilla emergeva la sua più totale comprensione.
“Crede che possa essere utile?” disse Alice con
voce flebile.
“Per altre coppie ha funzionato, perché non
tentare?” il dottore cercava in tutti modi di rassicurarci.
“Grazie del suo aiuto dottore, ci penseremo” volevo
portare Alice a casa al più presto, per permetterle di
riprendersi.
Ancora stretti per mano, uscimmo dal suo studio, ma mentre mi stavo
dirigendo verso l’uscita, mi sentii tirare la mano nella
direzione opposta.
“Marco dobbiamo andare a trovare tua sorella” mi
disse come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
“Domani, lei capirà…
tranquilla” Giulia non se la sarebbe presa, le avrei spiegato
dopo al telefono.
“Io voglio vederla, ne ho bisogno!” quando mi
guardava con quei suoi occhi verdi con riflessi castani, velati da
lacrime represse, poteva chiedermi qualsiasi cosa.
Ci dirigemmo verso il reparto maternità, ogni tanto
sbirciavo il suo viso, per cercare di capire cosa provasse, sapevo che
era stoica, ma era pur sempre un essere umano.
“Sto bene, non ti preoccupare” girò il
viso verso di me con un sorriso accecante, purtroppo per lei non era
molto brava a mentire mi chiedevo quanto le costasse tutto questo finto
buonumore.
Arrivati al nido trovammo subito la persona che cercavamo, era un
tenero batuffolo rosa con indosso una tutina azzurra, con ciuffi di
capelli neri di nome Antonio.
Ad Alice erano sempre piaciuti i bambini e loro non potevano fare a
meno di volerle bene. Era soprattutto la complicità che
aveva con loro a conquistarli, riusciva a insegnare loro
l’educazione giocando e raccontando storie bellissime. Era da
quando ci eravamo sposati che desideravamo un figlio, ma dopo dieci
anni la vita non voleva concederci questa gioia.
I suoi occhi luccicavano, sembrava di vedere una bambina golosa davanti
a una vetrina di dolciumi ben assortiti. Riuscivo a notare il suo
desiderio di prenderli in braccio, visto che li stava mangiando con gli
occhi.
“Non trovi che sia bellissimo?” la sua voce era
emozionata.
“Si è stupendo!” mentre vedevo
l’infermiera, prenderlo in braccio, mi domandavo come
facessero ad avere tanta dimestichezza, quei bambini per me esprimevano
soprattutto fragilità.
Quasi nello stesso momento puntammo verso la stanza di Giulia per
vedere le sue condizioni.
“Zia Aliceeeeeeeeeeeeeeeee!” un’ orda
formata da quattro ragazzini ci investì in pieno.
“Bambini come state?” aveva caldo sorriso per tutti
loro, sempre e in ogni circostanza.
“Bene!” risposero in coro.
“Carlo, perché non porti i bambini a prendere una
cioccolata?” disse Giulia al marito con una inflessione nella
voce, per fargli capire che voleva parlare con noi da sola.
“Certo cara, bambini andiamo” disse Carlo
rivolgendosi ai figli.
“No! Vogliamo stare con la zia” le loro erano
lamentele sonore.
“Bambini, sarò ancora qui quando
tornerete” disse loro per rassicurarli.
“Promesso?” chiese il più grande.
“Promesso! Mano sul cuore” rispose lei poggiando la
mano destra sul cuore. Solo così accettarono, seppur
controvoglia, di lasciarla. “Dalle vostre facce deduco che ne
sapete quanto prima”
“Giulia, ci ha detto che siamo sanissimi, che possiamo
procreare ma non ci riusciamo purtroppo” la maschera di
felicità che si era messa Alice, stava per cadere.
“Marco, perché l’hai portata qui e a
pezzi, avrei capito” mi guardava come se fossi un
irresponsabile.
“Sai che non so dirle di no, voleva venire a
trovarti” cercai di difendermi.
“Allora sei anche masochista! Alice hai bisogno di andare a
casa e pensare ad altro, per il momento. Sai quanto mi
dispiace” le disse prendendole le mani.
“Lo so, ma non potevo non passare a trovare te, Carlo e i
miei adorati nipotini, penso che li saluterò e
andrò a casa” disse finalmente rassegnata.
Prima di varcare l’uscita incontrammo l’unica
persona che in quel momento Alice non avrebbe dovuto vedere,
perché mia madre era di un’
insensibilità più unica che rara.
“Giulia, cara! Come stai? Un altro nipotino! Tu si che sai
riempirmi di gioia” sapevo che l’avrebbe fatto di
nuovo, le piaceva rigirare il coltello nella piaga.
“Mamma… smettila!” le disse lei cercando
di farle capire l’orrore che nascondevano le sue parole.
Presi Alice per mano e mi incamminai deciso verso l’uscita,
non volevo che lanciasse altre frecciatine a mia moglie.
“Buongiorno signora, ci vedremo un’altra
volta” troppo gentile ed educata era stata Alice.
“Non la sopporto quando fa così!” dissi
furioso mentre attraversavamo il corridoio.
“Dobbiamo salutare i bambini”.
Li salutò ad uno a uno con la promessa che presto sarebbero
venuti a giocare a casa nostra.
Eravamo ormai all’uscita dell’ospedale, quando un
tornado dai lunghi capelli rossi ci corse incontro.
“Scusate, sono in ritardo ma sono stata trattenuta in
ufficio” parlava molto in fretta.
“Non ti preoccupare Sara, di sopra
troverai…” non fece neanche finire la frase ad
Alice che la stritolò in un abbraccio tra sorelle, si
conoscevano così bene che si capivano con uno sguardo.
“Mi dispiace sorellona, ne parliamo a casa?”.
Alice annuì con la testa, ormai era arrivata al limite,
sapevo che in macchina avrebbe dato libero sfogo alle lacrime che
continuava a tenersi dentro.
Per tre giorni non fece altro che piangere e stare a letto e questo era
in netto contrasto con la sua natura visto che era sempre stata una
donna sensibile, disposta a condividere con gli altri
l’immenso amore che provava per la vita.
Sara ed io, cercammo di aiutarla ad uscire dal suo stato di
depressione, parlandole dolcemente in un primo momento, ma non vedendo
una sua reazione, Sara cambiò metodo cercando di scuoterla
con parole più dure.
“Alice, sappiamo bene quanto questa notizia ti stia facendo
male, ma il tuo stato di depressione e apatia sta facendo preoccupare
tutte le persone che ti vogliono bene. Per favore torna a vivere, fallo
per noi” le ultime parole sembravano una supplica, Sara stava
facendo pressione su di lei, cercando di far leva su i suoi sensi di
colpa, mi sembrava una cosa ingiusta da fare, ma volevo che la
“vera” Alice tornasse da noi per illuminare le
nostre vite. Ero conscio del mio egoismo in quel momento,
però non riuscivo a sopportare di vederla ridotta in quello
stato.
Dopo qualche ora che Sara se ne era andata e mentre io ero in salotto
seduto a terminare un po’ di lavoro arretrato, la vidi
comparire sulla soglia intenta a venire verso di me con passo lento,
gli occhi arrossati per il troppo pianto e i capelli arruffati. Si
sedette sulle mie gambe, gettandomi le braccia al collo, poggiando la
testa sul mio petto.
“Mi dispiace avervi fatto preoccupare” la sua voce
era roca per via del pianto e per non aver parlato per tre giorni.
“Amore… non devi dispiacerti, sappiamo tutti quale
colpo hai ricevuto, però vederti
così…” non riuscivo a trovare le parole
per esprimere quello che avevo provato.
Vedendo che non riuscivo ad esprimere i miei sentimenti, mi venne in
soccorso baciandomi, era il suo modo di dirmi che aveva capito e che si
sarebbe sforzata di riprendersi per il suo bene e anche per il nostro.
Una sera, prima di andare a dormire, mentre entrambi stavamo leggendo
un libro, improvvisamente chiuse di scatto il suo libro e disse
“Ho deciso, voglio adottare un bambino”.
“Sei sicura?” dissi dolcemente.
“Ho riflettuto molto in questi giorni sulle parole del
dottore e ho capito che si può essere madre anche di un
figlio che non sia stato nove mesi dentro di te” non le avevo
mai visto tanta determinazione nello sguardo.
“Se è questo che vuoi nei prossimi giorni ne
parleremo con un assistente sociale” il mio tono era neutro.
All’improvviso Alice con una mossa rapidissima mise il libro
sul comodino e restando sempre sotto le coperte salì a
cavalcioni su di me.
“Sputa il rospo, che problema hai?” mi guardava
fisso con i suoi meravigliosi occhi.
“Il problema è sempre quello, mentre tu sarai una
madre perfetta, io sarò un padre incapace di crescerlo e
insegnargli qualcosa” ero serissimo.
“Non dire assurdità, non capisco perché
pensi questo, i tuoi nipoti ti adorano!” la sua voce era
diventata più dolce del miele.
“I nostri nipoti non ti farebbero mai un torto e quindi
fingono di volermi bene” avevo un tono distaccato.
“Tu credi che i bambini possano fingere di provare amore
verso qualcuno? Loro non ragionano così, vanno a istinto.
Prendi Roberto che ha quattordici anni, lui ti adora perché
lo tratti da pari a pari, lo capisci più dei genitori. Non
dico che saremmo dei perfetti genitori e che non ci sono persone
migliori di noi, ma sono consapevole che quel bambino starà
meglio con noi, rispetto a dove si trova adesso” le ultime
parole me le aveva dette a un centimetro dal mio viso, con il suo su
cui si stava formando un sorriso malizioso e complice.
“Ho idea che il lavoro più grosso
toccherà a te” impossibile trattenere una risata
di cuore, aveva il potere di farmi sorridere sempre anche quando ero
giù di morale.
“Tesoro… ma questo è normale, hai mai
visto un uomo che si occupa maggiormente dei figli rispetto alla
madre?” disse sarcastica.
Spinto dall’impulso di quel momento la baciai teneramente,
più il bacio si prolungava più aumentava il mio
desiderio di lei, la strinsi forte a me e sentendo che anche il suo
corpo fremeva di eccitazione, facemmo l’amore non
più con l’unico scopo di avere un figlio, ma solo
per noi stessi per sentirci parte l’uno dell’altra.
Erano passati alcuni mesi e in quel periodo di tempo, tutto sembrava
essere tornato alla normalità. I nipoti passavano
più tempo da noi che nella loro casa, ogni notte la
passavamo gioendo della nostra felicità ritrovata ed
evitavamo con cura mia madre, ma un giorno che eravamo a casa di Sara,
Alice ci svenne sotto gli occhi. La paura che provammo fu grande e
nonostante le sue rassicurazioni, appena si fu ripresa, decidemmo di
portarla in ospedale per degli accertamenti.
Quando il medico finì di visitarla, ordinò
immediatamente delle analisi del sangue, perché voleva
essere sicuro che la sua intuizione fosse giusta, rassicurandoci
comunque che non c’era niente di cui preoccuparsi.
Anche se il medico ci aveva tranquillizzato, continuavo ad essere
preoccupato, perciò attendevo l’esito delle
analisi con impazienza forse più di Alice che era serena,
come se già sapesse che il risultato delle analisi non
avrebbe dato nessuna cattiva notizia.
Il giorno della verità arrivò presto. Verso le
nove di quel mattino, entrammo nello studio del Dottor Palombo, che era
il nostro medico curante da molto tempo, per conoscere la diagnosi.
Dopo averci fatto accomodare, ci fece un grande sorriso ed
esordì dicendo “Posso annunciarvi che presto,
circa nove mesi, la vostra famiglia si
allargherà”.
“Ne è sicuro?” chiesi ancora stupito
dalla notizia.
“Più che sicuro! Le analisi non mentono”
conoscendoci da molto tempo sapeva quanto ci tenevamo ad avere un
figlio.
Mi voltai immediatamente verso Alice e vidi che il suo viso era
diventato di pietra, sembrava scioccata, ma gli occhi erano umidi e una
lacrima solitaria cominciò a scendergli sulla guancia.
Mettendomi davanti a lei, gliela asciugai con il pollice e quando
finalmente tornò in sé, mi sorrise e mi
abbracciò stretto.
Rimanemmo così alcuni minuti gioendo della notizia che
aspettavamo fin da quando c’eravamo sposati,
finché non ci liberammo dell’abbraccio per
ringraziare il dottore e uscire dallo studio, sempre con un enorme
sorriso sul viso.
Era bastata un’ora affinché tutti i nostri parenti
fossero a conoscenza della notizia.
Sara venne immediatamente a casa nostra, per gioire con noi. Mi accorsi
solo allora di come ci si può sentire felici quando quello
che speri si avvera. Il volto di Alice irradiava allegria come un sole
nascente.
Con il passare dei mesi, nulla riusciva ad intaccare la sua
felicità, nonostante dovesse sottoporsi a esami ecografie e
analisi e aveva le nausee. Entrati nel nono mese, nemmeno il pancione
enorme ed il fatto che non riuscisse a scorgere i piedi doloranti
smorzarono la sua gioia, ed il mal di schiena terribile non faceva che
darle la certezza che mancasse oramai poco. La notte del cinque maggio
sul finire della gestazione mi sentii stringere e una voce preoccupata
che mi diceva “Ci siamo, ho le contrazioni!”.
La valigia era stata preparata prima, per questa evenienza, e ci
precipitammo in ospedale il più in fretta possibile, mentre
io ero agitato e teso, lei riusciva a rimanere concentrata.
Una volta arrivati le infermiere l’aiutarono a prepararsi
alla visita del ginecologo, in quel momento mi ricordai che dovevo
avvisare almeno i parenti stretti, se non volevo essere perseguitato a
morte per questa dimenticanza.
Dopo alcune ore di contrazioni le si ruppero le acque e fu preparata
per la sala operatoria. Eravamo io, Sara e Giulia fuori in sala
d’aspetto ad attendere la nascita della creatura.
In quella situazione di attesa, mi venne in mente il giorno della prima
ecografia. Alice era eccitatissima all’idea di vedere per la
prima volta il nostro bambino. Quando sullo schermo apparvero le prime
immagini vedevo solo forme indistinte. Neanche con l’aiuto
della dottoressa riuscivo a capirci qualcosa, l’unica cosa
che avevo capito e che stava bene ed era questa la cosa più
importante, che ci rese ebbri di gioia.
Con le ecografie successive si riuscì a determinare che
sarebbe stata una bambina, quando me lo dissero cominciai a provare ad
immaginarmela, ovviamente era la copia in miniatura di Alice volevo che
non prendesse niente di mio neanche il carattere, non avrebbe fatto
altro che penalizzarla.
“Allora il nome rimane quello? Non c’è
speranza che cambiate idea?” chiese Giulia speranzosa,
riscuotendomi dai miei pensieri.
“Mi dispiace abbiamo scelto Isabella e quello
rimane” dissi deciso.
“Non capisco perché voglia darle il nome di nostra
madre” la voce di Sara era perplessa.
“Secondo me è un bel nome” volevo
difendere la scelta di Alice, che io avevo condiviso, fino in fondo.
Sara non ebbe modo di replicare, perché la porta della sala
operatoria si aprì e ne uscì il ginecologo di
turno, ci alzammo per riceverlo.
“Il signor Delpiave?” aveva un tono molto serio e
professionale.
“Si, mi dica” stavo cominciando a sudare freddo.
“Mi dispiace dirle che sua moglie è morta in
seguito ad una emorragia interna che purtroppo non siamo riusciti a
fermare, ma sua figlia sta bene e gode di ottima salute”
disse continuando con il suo tono professionale.
La mia mente si era bloccata sulle parole “sua moglie
è morta” ero incapace di formulare pensieri
coerenti.
Mi ritrovai seduto, come imbambolato, su una sedia, mentre qualcuno
cercava di parlarmi, ma la mia mente non riusciva a registrare i suoni
che mi venivano quasi urlati.
Mi ci vollero alcune ore per riavermi almeno un po’, in quei
momenti continuavo a pensare a tutte le cose che avevo perso,
perché lei era morta. Non c’era più. Mi
aveva lasciato solo.
Mi lasciavo trasportare come se fossi un automa, mi avevano portato nei
giardini dell’ospedale, per cercare di farmi riprendere
almeno un po’.
Sentivo che vicino a me c’era una presenza, ma non avevo la
forza di vederla veramente. Il dolore che provavo dentro mi aveva
annientato, non c’era più niente. Una mano piccola
e calda prese la mia e la strinse.
“Marco… per favore riprenditi, da sola non posso
farcela!” anche Sara era disperata, ma al contrario di me
riusciva a vivere il suo grande dolore in modo più
razionale, senza lasciarsi prendere dallo sconforto.
“Non ho più nulla Sara… lei non
c’è più” dissi le ultime
parole con un grido, che mi permise di sfogarmi almeno un
po’, lasciando scivolare sul mio viso calde lacrime.
“Non è vero! Hai una famiglia che ti vuole bene,
ma soprattutto una bambina da crescere” disse con la voce
strozzata per l’emozioni tristi che stava vivendo.
Ero così concentrato sulla morte di Alice, che non avevo
più pensato che nostra figlia era nata e stava bene.
“Dov’è adesso?” chiesi
titubante.
“E dentro, per adesso si sta occupando di tutto Giulia con
Carlo, ma non possono farcela da soli, te la senti di
entrare?” vedevo che neanche a lei la prospettiva piaceva
molto, ma sapeva che dovevamo farlo.
“Devo farcela” con uno sforzo immenso cercai di
ritrovare un po’ di lucidità, anche se mi sembrava
una cosa impossibile, ma dovevo farlo per lei, per l’amore di
una vita, per Alice.
Arrivati al reparto vidi mia sorella al telefono che discuteva
unitamente.
“Marco, avresti dovuto andare a casa, mi sarei occupata di
tutto io” sempre troppo gentile Giulia.
“Non posso addossare tutto sulle tue spalle, Alice
è mia moglie, devo fare qualcosa anch’io per
evitare di impazzire” avevo detto
“è” invece di “era”
non era semplice accettare la sua morte.
“Vai da Isabella, ti sta aspettando” disse
delicatamente.
Sara mi prese la mano e mi accompagnò fino alla stanza che
era stata di Alice, dopo qualche minuto arrivò
l’infermiera con Isabella che dormiva nel suo lettino era
bellissima, la cosa più bella che avessi mai visto e fui
preso dal panico.
“Come farò a crescerla senza di lei?”
ero terrorizzato.
“Che sciocchezze, c’è la farai benissimo
e poi non dovrai fare tutto da solo, ci siamo io e Giulia che ti daremo
una mano”
“Ma non crescerà bene, non nel modo in cui
l’avrebbe allevata Alice” non riuscivo a
capacitarmi che non avrebbe potuto allevare la sua bambina.
“Marco, non nego che Alice fosse bravissima con i bambini, ma
lei aveva grandissima fiducia in te, continuava a dirmi che era
contentissima che sua figlia avrebbe avuto un papà come te,
perciò abbi fiducia in te stesso”
“Lo pensava veramente? Non mi racconti bugie?” non
ero convinto.
“Questo è quello che pensava e che io condivido
pienamente, perciò adesso prendi in braccio tua figlia e
donale tutto l’amore che hai da offrirle” Sara era
un tipetto piuttosto deciso, quando voleva.
Andò alla culla di Isabella e con gesti decisi e cauti la
prese tra le braccia per depositarla nelle mie.
Le sensazioni che provai in quel momento furono tante, ma una
sovrastava le altre: l’amore per mia figlia.
Sapevo che i neonati nei primi giorni di vita, non vedono
distintamente, ma quando lei aprì gli occhi sembrava che mi
stesse osservando, fu in quel momento che le feci una promessa solenne,
l’avrei allevata nel modo migliore possibile. Sperando che lo
spirito di Alice ci proteggesse sempre.