Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: minimelania    20/08/2010    4 recensioni
Dall'Incipit: 'Il sole galleggiava immobile quando giunse la nave della peste. Si chiusero i cancelli del porto, e si aspettò di vedere che passava. Ne capitavano spesso in quei giorni di navi piene di gente, stracci marci e gemiti simili al verso dei gabbiani. Sfilavano all'orizzonte nel tetro ronzio delle api. Erano tempi in cui la disgrazia d'altri costituiva già da sola una fortuna...'
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Primavera

Il sole galleggiava immobile quando giunse la nave della peste. Si chiusero i cancelli del porto, e si aspettò di vedere che passava. Ne capitavano spesso in quei giorni di navi piene di gente, stracci marci e gemiti simili al verso dei gabbiani. Sfilavano all'orizzonte nel tetro ronzio delle api. Erano tempi in cui la disgrazia d'altri costituiva già da sola una fortuna.
L'aria era immobile, la pioggia lontana come sono lontani i pianeti nei loro inutili riti siderei. Ma la nave di quel giorno rimase più a lungo immobile sul ciglio del mare. Fu chiaro che attendeva qualcosa.
Dalla cima della scogliera la scorse il vecchio Cèsar, e capì che aspettavano lui, così discese alla spiaggia di sassi, e arrancando andò a staccare la barca.
Come un osso lavato dalla terra, che qualche cane ha nascosto chissà quando e poi dimenticato, così a Cèsar una peste antichissima aveva tolto il bene di morire. Gli aveva tolto la moglie e le figlie, e lui stesso si era ammalato, ma una mattina la febbre era scesa, e i bubboni si erano fatti crosta. Lui diceva che la peste lo uccideva come il mare uccide le meduse, per sfinimento. Erano passati lunghi anni da quando le aveva sepolte al melagrano. Tutto il resto ormai era solo polvere, si era abituato a sbirciare la morte con l'impotenza di un adolescente che osserva la donna che ama ridere a un altro.
Ma poi, ogni volta che ricominciavano a morire gli uomini al porto e le donne nelle case, sperava sempre che la morte avesse perso il conto. Che finalmente si distraesse un poco, e falciasse anche lui via insieme agli altri. Era rimasto così per molti anni, custode del vecchio lebbrosario che serviva per i malati di peste, quando la peste si degnava di mostrarsi.
Al vecchio non piaceva quando il sole scottava come metallo sull'acqua. Gli dava la sensazione di scivolare sopra la porta di qualcos'altro. Non acqua, l'inquieta porta di qualcos'altro, pece.
Quando il tonfo del remo intaccò l'acqua, Cèsar chiuse gli occhi in un cenno di strana gratitudine. Aveva pensato che potesse essere solida. La luce offuscava ogni cosa.
Sulla nave erano tutti morti, o almeno gli parve dapprima. Si arrampicò sulla scala di corda, e protese il collo oltre il primo confine della murata. Sperò che fossero morti. Il suo compito finiva in quello, ma per chi agonizzava c'era sempre qualche parola da dire, e il vecchio odiava i posti che fumigavano di lercio e di morte per essere stato costretto a passarci l’esistenza.
Sul ponte c'era un cadavere già gonfio. Arrampicato a una maniglia del timone, la camicia ondeggiava al vento sotto un nugolo di tafani. Un altro morto, un ragazzino, giaceva a pancia in su vicino all'albero. Intorno al capo aveva un'aureola di vecchi stracci insanguinati e un bubbone proprio sotto l'orecchio. Anche quello era ormai solo interesse dei tafani. Passò oltre.
C'erano segni della morte dovunque, la morte che arrivava dall'Oriente e come un vecchio che ricarica la pipa accendeva i suoi bagliori di brace con l'intervallo regolare di un respiro. C'erano galee che arrivavano stracolme di morti verdi, altre che affidavano tutto il lavoro ad un topo, ignaro, solo, nella stiva a rosicchiare frumento. Le pulci a volte mordevano gli uomini, altre volte prima i cani e gli uccelli. C'erano tanti modi di arrivare alla sola conclusione possibile. Come una festa di villaggio, poi, dopo lo scoppio era la stessa cosa. Sempre le stesse grida, stracci, miserie. Come fuochi d'artificio sempre uguali.
In una botticella d'acqua putrida nuotava il volto gonfio di una scimmia, aveva gli occhi aperti e un cappello con gli alamari. Il capitano fino all'ultimo l'aveva protetta nella sua cabina, la sua scimmia, ma adesso i tafani roteavano sopra di lei come sopra tutto il resto.
Cèsar toccò le sue dita di bambino, si alzò un nugolo di bestie nere e opache. Nel sole un paio andarono a posarglisi sul naso, non le scacciò. Subito quelle, deluse, se ne andarono. Non c'era niente da succhiare sul suo teschio ancora vivo.
Poco distante era la scala di sotto coperta. Cèsar seguì i tafani fino là. Il buio che saliva dalla botola era marcio come certe melanzane dimenticate al sole. Sui primi gradini, lo sapeva, c'erano viscere e escrementi scivolosi. Più sotto, tutto quello che era morto prima del tempo. Forse avevano tentato di inchiodarli, di isolare i malati, come sempre. Assi inutili erano ancora attaccati ai cardini, ma ora il catenaccio pendeva molle nel vento.
Cèsar scrollò la testa, un tafano gli era volato vicino, senza toccarlo. Poi guardò intorno, scese uno scalino, mise il piede su qualcosa di umido e decise che non sarebbe sceso. Non quel giorno, era inutile. Era stanco. Vide la barca che oscillava lassotto, qualche metro oltre la murata. Il vento lieve la faceva oscillare e sbattere contro la chiglia della nave. Decine di piccoli molluschi cominciavano ad arrampicarsi sulle corde. Chissà cosa si muoveva lassotto. Decise che non sarebbe sceso. Si voltò per tornare alla barca.
Fu allora che la sentì, chiaramente. Più che una voce, un sussulto tiepido, il gemito di qualcosa che giaceva molto più sotto. Un suono che aveva l'odore di sangue e latte e caramello come la nuca di certi neonati. Capelli morbidi, manine fragili, escrementi teneri come gusci d'uova. Cose tremendamente inquiete, e adorabili.
Pensò a sua figlia, che era morta. Al vomito di sangue marcio che colava dalla bocca al posto delle ultime parole. Si ricordava una preghiera, e la disse.
Il gemito si ripeté. Era vicino. Cèsar rivide tutto il sangue che rischiava di uccidere sua moglie. Le lenzuola appiccicose del parto. Era stato con la loro prima figlia. Rischiavano di morire tutte e due. Ma poi d'un soffio, come un uccello impazzito, avevano ricominciato a respirare, madre e figlia, come un tutto unico. Cèsar ricordava una preghiera, un'altra ancora, diversa, le la disse tenendo gli occhi chiusi. Il gemito gli si infilò sotto le palpebre, veniva da sotto coperta.
Pensò alla casa, alla stanza buia, al sudore e al silenzio. Perché prima di nascere sua figlia l'avevano fatta. Era una sera di festa e le candele bruciavano per strada e sui banconi. E sua moglie aveva gli occhi cerchiati da un respiro diverso, e le guance piene di vino e di attesa. Così era stato che le sue prime lenzuola si erano tinte anche loro di sangue.
Tutto quel sangue. Pensò. E quel gemito non poté più ignorarlo.
Nel buio, a tentoni, cercò il punto per scendere. Dove la scala curvava verso il basso. Lo cercò come il battito di un cuore, come l'ultimo respiro su una crosta persa sempre. Poi le sue mani scivolarono su qualcosa ancora tiepido, viscido, sicuro.
Sotto un cumulo di bestie morte e umani, proprio ai piedi della scala, sentì che qualcosa, una cosa rannicchiata come un feto. Sognava. Ma quando lui la toccò aprì gli occhi, che erano verdi come due comete. Non era una donna, non ancora.
- Portami a casa - mormorò, poi svenne.
Era una pallida bambina adolescente, stinta dal morbo, sfinita dal digiuno. Cèsar la prese tra le braccia magre. Forse sapeva che sarebbe successo, ma nel posto che lui chiamava casa c'era spazio a sufficienza anche per lei.

Percorsero a piedi la strada che tagliava le rocce. A volte la ragazza incespicava, così lui doveva sostenerla. Le aveva dato da mangiare qualcosa che aveva trovato sulla nave: i resti di un pane e, da una brocca, un sorso di vino oleoso.
Era notte, e i passi non facevano rumore. Tutto intorno l’intrico di rovi lambiva loro le vesti: il vecchio Cèsar, allungando le mani, li usava per trovare la strada. Una lepre attraversò il sentiero, poi scomparve tra le ginestre che invadevano il piano. Sembravano uccelli spaventati. Arrivarono in cima alla scogliera, dov’era il lebbrosario, perduto nel fragore delle onde che andavano a sbattere sugli scogli, molto più in basso. Le finestre erano prive di vetri e il vento quasi spazzava la distesa.
Nel cortile pieno di spifferi la sabbia ingombrava ogni cosa, i muri grigiastri, i vasconi che un tempo erano serviti a lavare i lebbrosi.
Gli ricordavano delle lunghe notti passate in silenzio con cenci e corpi che nulla avevano più di umano. Un fischio distante accarezzava le cime degli alberi radi.
Da una porta mezzo distrutta passarono in una stanza di cui non si vedeva la fine. Al centro una candela illuminava il tavolo e un uomo seduto di schiena, che non si mosse.
Cèsar portò da un angolo un fascio di paglia secca, lo sistemò accanto al fuoco e posò accanto una ciotola d'acqua, cipolle tiepide e formaggio. Ci accomodò la ragazza. L'altro continuava a fissare il fuoco come non li vedesse.
- Mangia - sussurrò Cèsar - e chiudi gli occhi per un poco. Quando il prete avrà finito di pregare, allora ti poterà nella tua stanza. Nel frattempo mangia e riposa.
La ragazza allungò una mano, cercò a tastoni del cibo, e poi anche Cèsar si mise ad aiutarla. Mangiò come in bambini, che metà del cibo non riescono neanche ad inghiottirlo. Poi le palpebre le si fecero pesanti, e chinò il capo contro il muro. Il vecchio la distese delicatamente sulla paglia.
- L'ho trovata alla nave - disse avviandosi a una soglia di pietra che biancheggiava al limite del buio - Fai tu quello che devi, io sono stanco.
Il prete non si mosse. La ragazza si rigirò nel sonno. Le parve di sognare qualcosa che la portava via dal mare, lontano.
Dopo un tempo che non seppe contare, mentre la notte assediava le finestre e una porta sbatteva da qualche parte, il prete si alzò dalla sedia. Andò alla paglia, svegliò la ragazza e la condusse in cortili di pietra, attraverso stretti budelli fitti di stanze come orbite cieche, poi una teoria di porte senza ante né tende, di stanze nude prive di letti, di sedie, di armadi. Soltanto polvere, ancora, e dovunque.
Si arrestò davanti ad un varco come un altro. C’era una vasca sul pavimento di pietra, in quello che sembrava il centro della stanza. Dentro la vasca attendeva dell’acqua senza riflesso. Il prete dovette afferrare sotto le ascelle la ragazza un paio di volte, perché stava svenendo per il freddo, o per il sonno. Con un gesto secco le aprì la veste sul petto. La pelle di sotto era un’unica crosta di sangue rappreso e lerciume. Senza aspettare una reazione la immerse nell’acqua gelata.
- I capelli - estrasse un coltello dalla tasca e cominciò a tagliare la massa aggrovigliata che le copriva la testa. Lei guardò mentre ad una ad una le ciocche cadevano. Poi senti il freddo della notte sul collo, mani di automa stringere gli ultimi nodi, una secchiata d'acqua gelida.
- Le unghie.
Lei aspettò pazientemente che avesse finito con una mano. E poi lo fece con l'altra, con i piedi e le ascelle. Tagliò tutto, tutto ripulì come volesse arrivare alle ossa. Le macchie sparivano contro lo straccio ruvido, la pelle arrossata a sangue cominciava a respirare di nuovo.
Giunse al pube e anche lì cacciò lo straccio strofinando come se non lo vedesse. Puliva, chiudeva, strofinava. Lei avvicinò lievemente le ginocchia l'una con l'altra, ma era troppo stanca per aver paura, o per sentire il dolore, o la vergogna.
Non successe quel che si era aspettata. Non successe niente. Solo, fu pulita.
Quando fu in piedi, l'avvolse in un lenzuolo che bucava di mille aghi e le disse di strofinarsi finché non si asciugava. Lei sentiva l'aria dove prima c'erano i capelli, e sangue che pulsava di nuovo sotto la pelle.
- Grazie - sorrise, soffocando uno sbadiglio. Adesso si sentiva stanca, e meglio. Vide il prete che andava in un angolo e bruciava i suoi vestiti uno per uno.
- Nessuno dovrebbe ringraziare finché non sa che cosa l'aspetta.
Poi se ne andò. Quando il fuoco si fu spento lei si accorse che lui aveva dimenticato la candela. Forse per pena o per dimenticanza, le aveva lasciato qualcosa con cui scacciare via le tenebre.

  
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: minimelania