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Autore: Memento_B    20/08/2010    3 recensioni
Mi definivano come una ragazza sveglia e pratica, certamente diversa da qualsiasi ragazzo o ragazza della mia età. Non accettavo nessun tipo di dogma che chiunque cercava di impormi, io volevo spiegazioni razionali. [...] Fui bruciata viva, accusata di stregoneria.
***Dodicesima classificata al contest "Vedo, sento, scrivo - Immagini, musica, storie" Indetto da Elos Gordon e SaliceMcMay sul Forum di EFP***
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L’alchimista
A Elena.
Alla nostra Erin.


It doesn’t hurt me.
Do you want to feel how it feels?
Do you want to know, know that it doesn’t hurt me?





Non soffro più.
Non fa male, non più. Ti vedo lì sotto fra la folla, a pochi metri da me, mentre degli uomini sconosciuti preparano con estrema lentezza lo scenario della mia morte. Non invoco pietà, non urlo, non piango, non mi dimeno. Non faccio nulla di quello che vorresti.
No, nella mia mente ci sei solo tu. Oh, quante parole vorrei urlarti, vorrei farti capire come ci si sente. Solo così ti renderesti conto che non mi fa male. Non può farmi male, non dopo quello che mi hai fatto. Non posso piangere, tutte le mie lacrime le ho già versate per te, non posso nemmeno urlare, ho perso la voce ripetendo il tuo nome per intere giornate.
Per te ho perso tutto. Affetti, anima, cuore ed ora anche la vita. Eppure, lo rifarei, eccome se lo rifarei! Altre cento, mille volte! Mi hai completamente svuotata, mi hai resa solo un’ombra privata della sua essenza, ma non provo rimorso per quello che sono.

Calore. Dolore. E poi il nulla.

***


Avevo solo diciotto anni quando decisero di porre fine alla mia esistenza.
Eppure io amavo la vita. La amavo sotto ogni suo aspetto e con tutta me stessa, in maniera impetuosa ed incondizionata. Era un amore che mi struggeva, un amore tormentoso e che non mi lasciava tregua, perché lo sapevo essere un amore a senso unico. Sapevo di non essere nulla di più di una delle tante pedine che la Natura crea e con cui gioca, una dei tanti esseri costretti a subire il destino, una dei tanti stolti convinti di aver realmente l’opportunità di scegliere cosa fare della propria vita e di non essere travolti da un vitalismo che non appartengono agli esseri umani. Ero una dei tanti esseri convinti di poter carpire i segreti della Natura, per poi dilaniarli e maneggiarli a proprio piacimento. Ero convinta di poter fare la differenza e di poter cambiare e controllare il corso degli eventi con la sola volontà. Ma ciò che vogliamo non conta nulla di fronte alla Natura, fuoco vitale dell’intera esistenza, noi non possiamo che chinare il capo e subire, fino a ritrovarci inermi schiacciati da una forza infinitamente più grande di noi. Non ci sono vie di scampo, non si può sfuggire ad un ineluttabile destino. Eppure –sciocca- continuavo ad amarla. Cercavo di alimentare la mia voglia di vivere. Non sognavo gloria e fama, nulla è eterno a questo mondo ma passa come un soffio, senza darci possibilità di ribellarci; sognavo di vivere abbastanza a lungo per godermi le meraviglie della Natura. Non bramavo un matrimonio con un principe o ricchezza; a me bastava un tetto sicuro, un lavoro che fosse anche una passione e, perché no, delle amicizie.
Capii troppo tardi che la nostra volontà non vale niente, lo capii solo mentre il mio scenario di morte veniva allestito.
Mi chiamavo Maeghan, come mia nonna. Ceara era il mio secondo nome, come quello di mia madre. Per gli amici ero semplicemente Maegh. Ero figlia degli O’Brien, Earls of Thomond, Conti di Thomond. Il destino mi fece nascere in Irlanda nei primi anni del 1200, nella meravigliosa Gaillimh, attualmente nota con il nome di “Galway”.

Ricordo quanto fossi innamorata della mia terra. Il cielo azzurro era quasi sempre coperto da nubi cariche di pioggia, ma quando ne era privo si estendeva fino all’infinito, imponente, mentre i raggi del Sole illuminavano timidamente i campi verdi costantemente bagnati di rugiada o pioggia. Ciò che mangiavo aveva il sapore dell’oceano, l’aria che respiravo mi inondava i polmoni di quell’odore salmastro che mi inebriava mentre osservavo con occhi di amante fedele le onde infrangersi lentamente contro la scogliera, in un moto perpetuo. Ma ciò che preferivo era sicuramente la città, con la sua allegra confusione e l’odore allo stesso tempo squisito e disgustoso che proveniva dai vari locali lungo le vie. A Gaillimh eri libero di fare quello che volevi, o quasi. Nessuno ti avrebbe mai giudicato, piuttosto avrebbe simpatizzato per te. E se eri uno straniero in visita potevi star tranquillo che avresti trovato ospitalità –a meno che non fossi stato un inglese, chiaro. Nella terra dei celti c’era e sempre ci sarà posto per chiunque sia disposto ad amare le sue brughiere e i suoi corsi d’acqua in maniera incondizionata.
La mia Éire, la mia Irlanda, era tutto per me.
Vivevo in una delle storiche vie del mio villaggio, nella casa che da sempre apparteneva alla mia famiglia. Eravamo solo cugini di quelli che detenevano l’eredità principale degli O’Brien, così non bisogna immaginare la mia casa come un palazzo. Era una modesta abitazione di due piani, dove sul retro vi era un piccolo orto, che curava mia madre.

Ero una ragazza dal fisico minuto e da colorito pallido, morbidi boccoli color mogano mi ricadevano sulla schiena, simili a seta, creando un contrasto incantevole con il pallore spettrale del mio viso e con l’azzurro sbiadito dei miei grandi occhi, forse un po’ troppo vicini tra loro.
Occhi che, secondo il parere di tutti, erano come uno specchio che rifletteva la mia anima e la mia essenza. Così come saettavano attenti e brillavano di una strana luce quando qualcosa mi attraeva, io ero attenta ed interessata a capire il meccanismo del mondo. Mi definivano come una ragazza sveglia e pratica, certamente diversa da qualsiasi ragazzo o ragazza della mia età. Non accettavo nessun tipo di dogma che chiunque cercava di impormi, io volevo spiegazioni razionali. Ribelle a qualsiasi autorità e dall’animo inquieto, mi rifiutavo di vivere secondo uno schema deciso da altri o di dover vivere secondo costrizioni etiche e morali in cui non mi rispecchiavo. La mia anima aveva sete di sapere, non potevo credere che fosse tutto così semplice come mi veniva raccontato. Ero decisa a scoprire da sola le verità che tutti mi celavano, forse perché ignote. Lanciai la mia sfida.
E fu proprio quella angosciosa ricerca dell’ignoto, del motore immobile ed intrinseco della natura che moveva l’interno universo che mi travolgeva inesorabilmente spingendomi verso qualcosa di prescritto a farmi innamorare dell’alchimia.
Scoprire l’alchimia non fu difficile per me. Mio padre era un alchimista, così come mio nonno prima di lui. Fu lui, infatti, ad insegnarmi a leggere e a scrivere, cosa che ben pochi altri bambini nel paese sapevano fare. Lo stare continuamente a contatto con i suoi tomi e i vari studi di alchimia senza dubbio fecero nascere in me questa passione incontenibile, fomentata peraltro da mio padre, ben  felice che almeno una dei suoi tre figli condividesse il suo amore. Mi fece da precettore, ma ben presto lo superai, diventando sua apprendista e poi iniziando a compiere degli studi per conto mio.
Ma la nostra passione doveva rimanere segreta, non potevamo professarla in pubblico. Erano tempi bui per noi alchimisti europei, nonostante fossero passati diversi anni da quando l’alchimia metallica e l’alchimia delle quintessenze erano state riportate alla luce in Europa.
L’alchimia era stata a lungo praticata nei paesi islamici e per tale motivo nell’Europa cristiana gli alchimisti venivano ritenuti eretici. Per di più, io ero una donna. Da quel che sapevo, le donne che professavano l’alchimia erano ben poche e questo non poteva che rendermi più fiera della mia attitudine.
Il vivere in Irlanda rendeva la situazione più controversa. La Chiesa Romana non aveva ancora un gran potere sulla mia terra, che era lontana ed in un certo modo isolata, gli episodi che coinvolgevano la Sacra Inquisizione erano davvero pochi. Da quando, però, erano arrivati gli inglesi ed avevano tentato di esportare il protestantesimo, un nuovo spirito religioso aveva animato la mia nazione. Ben presto, l’essere cristiani fu visto come un punto di forza per resistere agli inglesi, incoraggiando in questo modo fanatismi di ogni tipo.
Vivevo una doppia vita. In pubblico ero la sediziosa ultimogenita degli O’Brien, su cui comunque alla fine potevi sempre contare e che ti avrebbe aiutato in caso di difficoltà. Avevo molte conoscenze, crebbi per le strade del mio paese in compagnia delle altre bambine della mia età, così finii inevitabilmente per crearmi la mia cerchia di amicizie e di antipatie come chiunque altro, alla fine ero solo una ragazzetta che veniva solo derubata della sua passione.
In realtà il mio aspetto mi avrebbe tradito facilmente; ero piena di simboli alchemici di cui solo i miei fratelli e mia madre conoscevano il significato.
Nacqui di Venerdì, giorno associato a Venere, il corpo celeste connesso al rame. Così, al mio braccio avevo un piccolo bracciale di quel materiale, al cui interno erano incise delle rune. Al rame era poi legata la figura del fabbro, colui che forgia e che quindi assume un forte valore per ogni iniziato all’alchimia. Al collo poi portavo una collana d’oro, il metallo per eccellenza, ed una perla, simbolo del misticismo e della perfezione. Quattro erano, poi, i colori ricorrenti nelle mie vesti: nero, bianco, giallo e rosso, i colori associati alle quattro fasi dell’opus, che simboleggiavano rispettivamente  terra, acqua, aria e fuoco.

Fui bruciata viva, accusata di stregoneria, tradita dal mio stesso sangue.
All’epoca, avevamo un laboratorio alchemico nascosto sotto la casa. Era lì che portavamo avanti i nostri studi. Inizialmente io ero solo una sua assistente, mi limitavo a seguire ciò che mi diceva e –in caso- a porgergli ciò che mi chiedeva. L’obiettivo dei nostri studi, come quello di tutti gli altri alchimisti, era creare la Pietra Filosofale. E io, ahimé, ci riuscii.
Non avrei immaginato quanto dolore potesse portarmi l’adempimento del mio sogno. Mi ricordo ancora quando, con mia grande sorpresa, mi ritrovai in maniera del tutto improvvisa quel liquido fra le mani. Era un liquido verdognolo, e non rosso come chiunque si aspettava. Lo rinchiusi in una boccetta piuttosto piccola, poco più grande della mia mano. Era di vetro trasparente, con un tappo di sughero colorato. Vi era fissata una piccola pergamena, dove scrissi due parole, fatali.
Ero sicura di aver ottenuto quello che volevo. Una sola goccia di quella straordinaria scoperta aveva riportato alla vita una piantina essiccata. Mostrai la mia scoperta a mio padre con il cuore che scoppiava di gioia. Mai nessuno avrebbe mai pensato che una figlia di Erin, una ragazzina che aveva scoperto l’alchimia quasi per gioco, avesse ottenuto l’Elisir di Lunga Vita. Eppure ce l’avevo fatta.

Negli occhi di mio padre si accese immediatamente una luce tetra, che più tardi riconobbi come la luce dell’invidia. La sua reazione fu del tutto imprevista. Mi strappò la boccetta dalle mani, urlando che non avevo alcun diritto di prendermi gioco di lui in quel modo, che io non potevo aver ottenuto sul serio la Pietra Filosofale.
Umiliata e ferita nell’orgoglio, mi vidi costretta a rinchiudermi nella mia camera. Fu allora che capii di non potermi fidare di nessuno, perché nessuno è disposto a prendere le tue difese nel caso del bisogno, ma chiunque è sempre pronto a pugnalarti alle spalle alla minima occasione.
E fu quello che successe. Mio padre non ci pensò due volte e mi denunciò alla Sacra Inquisizione, descrivendomi come una strega che aveva venduto l’anima al diavolo e che viveva alle sue spalle, povero uomo di fede che aveva già provveduto a distruggere le prove del mio delitto. Quel che passai lo lascio immaginare. Mi vennero a prendere dalla mia camera, violando la mia personalità e il mio ambiente.
Mi fu impossibile mantenere una dignità; cercai in ogni modo di liberarmi. Urlai e mi divincolai, ma inutilmente. Fui portata via sotto gli occhi atterriti di mia madre e dei miei fratelli e sotto lo sguardo fermo di mio padre. L’ultima immagine che ricordo della mia casa era quella boccetta che un tempo conteneva il mio Elisir su un angolo del tavolo della cucina. Vuota.
E una macchia verdognola sulla camicia di seta bianca di mio padre.

Il mio processo accusatorio fu  più breve dal previsto. Come potevo, del resto, difendermi? Tutto sembrava provare la mia colpevolezza, ed in effetti era così. Ero colpevole di aver inseguito il mio sogno fino alla fine. Non ci fu bisogno di indagini segrete, ci pensò mio padre a fornire tutto quel che poteva bastare. Profanarono la mia mente ed il mio corpo, sottoponendomi a torture fisiche e psicologiche che più volte rischiarono di portarmi alla pazzia o alla morte. Coltivai segretamente il sospetto che si riservarono tutte quelle torture più per proprio divertimento che per necessità, poiché da parte mia non vi era alcuna dichiarazione di innocenza. Alla fine, la mia colpevolezza fu provata. Mi fu data la possibilità di abiurare, ma io rifiutai nettamente. Come potevo abiurare quelle idee che tanto mi avevano portato? Come potevo rifiutare quell’elemento che aveva condizionato la mia vita al punto da portarmi sul patibolo? Mi veniva chiesto l’impossibile, ossia rinnegare la mia stessa essenza, il motivo per cui io trascorsi diciotto lunghi anni sulla Terra. Dedicai la mia intera vita allo studio della Natura e alla creazione di unguenti e di filtri, non sarebbe stato certo l’ordine di un uomo insignificante, uguale a me in tutto e per tutto, a farmi desistere. Arrendermi sarebbe significato vivere una vita senza senso, privata del suo stesso contenuto. Sarebbe significato diventare un corpo senz’anima. Ed io non ero disposta ad accettare quella condizione.
Allora, non rimaneva che una cosa. Condannarmi a morte. Ebbi l’ultima possibilità di pentirmi, in quel caso sarei stata prima impiccata e solo dopo bruciata. Ma io, e quel che vi sto per dire lo penso ancora, non avevo nulla di cui pentirmi. L’unica colpa che avevo era quella di esistere. Così, furono costretti a bruciarmi. Viva.

La mia condanna fece molto scalpore in tutta l’Irlanda. Perfino i membri più illustri della Nobile Casata degli O’Brien corsero a Gaillimh ad assistermi in punto di morte. Nessuno seppe mai il motivo preciso per cui venni ammazzata, nemmeno la mia stessa madre, che aveva accettato con stoica rassegnazione la mia morte, convinta che mio padre non avesse nessun ruolo in tutto questo.
Non cercai di scappare quando, dopo una settimana dalla fine del processo, mi scortarono sul palcoscenico della mia morte. Non urlai, non avevo più voce. Camminavo a testa alta, fiera, con l’orgoglio che avvampava ardente nel mio sguardo, i boccoli mogano che ricadevano sulle spalle e sul viso, disordinati, dandomi un’aria quasi selvaggia. Fissavo un punto indefinito nell’orizzonte, non posai i miei occhi sulla gente che mi lasciava passare, sconvolta per quello che stava succedendo. Vestita di stracci bianchi, avevo le braccia legate dietro la schiena talmente strettamente che la corda presto finì per lacerarmi i polsi, le gambe erano tumefatte e piene di tagli, simbolo dello strazio che avevo passato. Ero scalza, muovevo un piede dietro l’altro in un turbinio di polvere e sudiciume. I miei passi erano delicati, lenti, quasi teatrali. Non avevo alcuna intenzione di far durare il meno possibile la mia agonia, non avevo alcuna fretta di salutare la mia vita. Avrei assaporato anche quel momento fino in fondo, come avevo sempre fatto. Fino all’ultimo respiro, letteralmente.
Salii i tre gradini che mi avrebbero separato dalla folla e percorsi la pedana di legno su cui, al centro, era accatastata la paglia. Lasciai che mi legarono, senza opporre alcuna resistenza. I miei occhi scorsero su tutti i presenti, esaminandoli uno ad uno e –sono disposta a giurarlo- facendo gelare loro il sangue nelle vene. Mai si era vista tanta fierezza in una donna in punto di morte. Ma io non ero coraggiosa, volevo soltanto far vedere a mio padre che non soffrivo. Non volevo dargli quell’ultima soddisfazione. E alla fine lo trovai, proprio quando il mio boia si allontanava per prendere il pezzo di stoffa che, posto sulla bocca, mi avrebbe impedito di lanciare maledizioni. L’indifferenza con cui mio padre mi guardava mi disarmò. Mi sarei aspettata di tutto, ma non quello. Era lì, in prima fila, dritto e con la mia stessa fierezza. Non evitò il mio sguardo, ma lo mantenne.

<< Che brucino gli occhi di chi osserva indifferente una vita spegnersi! >> urlai, fuori di me. << Che bruci la lingua di chi non ha voce per ribellarsi alle ingiustizie! Che brucino l’orgoglio e i possedimenti di chi non ha passione e di chi ha paura di coltivarle, costi quel che costi! Che bruci chi pensa che non si vive e non si lotta per un ideale! >>

Feci appena in tempo a finire la mia sentenza che il mio boia si apprestò, con un paio di salti, a tornare da me e mi mise a tacere per sempre. O almeno si illuse di averlo fatto, perché non basta un pezzo di stoffa o tanto meno la morte a far morire parole ed idee. Esse sono immortali, eterne. Ci sarà sempre qualcuno disposto a vivere nel tuo esempio, disposto a portare avanti il tuo ideale con la stessa forza con cui lo avevi fatto tu.
Sentii il rumore del fuoco sulla paglia e poi dolore, sentii il calore delle fiamme sulla mia pelle, le sentii entrare nelle mie ferite, consumandomi dall’interno. Sembravano voler risalire alla mia anima e consumarla prima di porre fine alla mia esistenza. Boccheggiavo e soffrivo, ma in realtà ero già morta.
Morii nell’istante in cui mi accorsi che mio padre, sangue del mio sangue, non provava davvero nulla per me, ma che assisteva alla mia morte con la tranquillità di chi assiste ad uno spettacolo equestre. Ed è per questo che posso dire che le fiamme non mi ferivano, che era stato ben altro ad ammazzarmi. Avrei voluto correre di nuovo libera sulle colline della mia Irlanda, ma tu me lo avevi impedito. Non avrei più potuto farlo, così come non avrei mai più potuto fare altro.
Mi aveva condannata all’oblio perpetuo, nessuno si sarebbe ricordato di me in un futuro. Aveva cancellato la mia vita, e quel che peggio era che io ne ero consapevole. Avrei dato qualsiasi cosa per invertire i ruoli, per far provare a lui quel che provavo io. Forse solo così avrebbe capito perché non soffrivo più.
Eppure mi aveva sempre detto che mi avrebbe difesa fino alla fine dei suoi giorni, che non mi avrebbe mai fatto del male. Ed è stato questo il colpo più duro. Sapere che, alla fine, le parole sono solo parole, nulla di più, e che a nessuno importa di te, ma che vivi la tua vita in totale solitudine.
L’unica cosa su cui si può contare, nella vita, sono i propri sogni. Loro non ci tradiranno mai, né si può tradirli. Le proprie aspirazioni, le proprie ragioni di vita. Sono loro a muovere i fili delle nostre vite, a spingerci a compiere l’impossibile pur di realizzarli.
Noi siamo costretti a vivere con la sola nostra compagnia se siamo veramente decisi a perseguire i nostri obiettivi. Oppure ci si può conformare, piegarsi a vivere una vita che non ci appartiene e che non ci apparterrà mai. E, a volte, questa è la scelta più facile da fare, perché ci vuole davvero coraggio per vivere da “diversi”, bisogna essere davvero convinti di quel che si sta facendo per sopportare le sofferenze che ci porterà. Non abbiamo ulteriori scelte. Conformarsi o rimanere se stessi. Integrarsi o rimanere emarginati. Vivere o morire.
Ma quel che si può ricavare dal rimanere se stessi è un premio mille volte superiore: la propria essenza.
Da parte mia, credo che la mia scelta sia stata abbastanza chiara. Del resto sono morta per essere stata solo me stessa, una ragazzina che ha osato sfidare le leggi della Natura, che non si è mai data per vinta e che non ha mai accettato nessun dogma.  Sono morta per essere stata Maeghan Ceara O’Brien, coerente con me stessa fino alla follia.
Sono morta per essere stata Maegh, l’alchimista.


***


Quanto avete letto ha una verità storica di fondo. Non è la storia in sé ad essere vera, ma il suo contorno storico/sociale poiché ho una cura maniacale per le ambientazioni ed una passione morbosa per la storia. Se richiesto, fornirò senza problemi le mie fonti.


P.s. Waaaah, sono felicissima del risultato raggiunto! E' il mio primo contest ed arrivare dodicesima su diciassette è un bel risultato v.v

  
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