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Autore: Angeline Farewell    26/08/2010    4 recensioni
Pearl Jam.
[...]Nascere e vivere al nord per qualche anno non aveva preparato il ventiseienne Eddie Vedder – fu Edward Jerome Mueller e, ancor prima, Edward Luis Severson III, ma da tutti conosciuto come Ed il Matto. O il Santo. Schizofrenico lo era sempre stato, insomma, fosse colpa o meno dell’anagrafe. – al freddo appiccicoso e bagnato della costa settentrionale del pacifico e dello stato di Washington in particolare. Seattle era una maledetta latrina a cielo aperto in cui la neve veniva salutata come una liberazione. [...]
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Ma quanto cazzo piove in questa cazzo di città!?”

Tantissimo. Nascere e vivere al nord per qualche anno non aveva preparato il ventiseienne Eddie Vedder – fu Edward Jerome Mueller e, ancor prima, Edward Luis Severson III, ma da tutti conosciuto come Ed il Matto. O il Santo. Schizofrenico lo era sempre stato, insomma, fosse colpa o meno dell’anagrafe.  – al freddo appiccicoso e bagnato della costa settentrionale del pacifico e dello stato di Washington in particolare.

Seattle era una maledetta latrina a cielo aperto in cui la neve veniva salutata come una liberazione.

Ma niente da fare, quell’anno la neve si faceva attendere e sotto quella pioggia battente nemmeno sembrava più inverno. Così il Matto – o il Santo. Dipendeva fosse un giorno buono o meno. – si abbassò di più il cappuccio della felpa sulla testa affrontando a testa bassa la pioggia insistente d’inizio gennaio, tentando di ricordare esattamente il civico del casermone semi diroccato che fungeva da sala prove: in quello sconsolante grigiore periferico, i palazzoni dismessi dei vecchi magazzini dell’area portuale sembravano tutti uguali.

Mandò silenziosamente affanculo un idiota con la sua maledetta Lebaron che l’aveva schizzato di pioggia e fango sfrecciando per quelle strade tutte curve e ostacoli senza il minimo controllo.

“Cazzo cazzo cazzo cazzo cazzo!!!”

Stava urlando come il matto tutti dicevano fosse, ma a guardarlo dal di fuori non l’avresti mai detto dato che aveva continuato a camminare a testa bassa senza nemmeno pensare a scrollarsi il fango di dosso.

Semplicemente non ne aveva voglia e comunque il suo blocco appunti era al sicuro sotto la felpa, lì non si sarebbe bagnato. Sperava.

Quando era riuscito a raggiungere il magazzino grondava fango e pioggia e batteva i denti dal freddo, ma la fase scazzo era stata superata in vista delle imminenti prove: e non vedeva l’ora di mostrare a Jeff e gli altri quello che aveva scritto la notte precedente, si sentiva eccitato e nervoso come una ragazzina al primo appuntamento.

“Ciao ragazzi, scusate il ritardo.”

Nessuna risposta.

“Ragazzi? Jeff? Ehi, dove siete?”

La sua voce riecheggiò nello studio vuoto accompagnata dal ticchettare della pioggia sui finestroni sporchi del magazzino. Una chiazza d’acqua s’allargava vistosamente sotto uno dei lucernari lasciati aperti e presto avrebbe raggiunto le strumentazioni lasciate lì a caso, con ancora i jack attaccati agli amplificatori ed in corrente: sarebbe andato tutto in corto.

Persino la Les Paul di Mike era appoggiata su un divanetto, meglio di come erano disposti il basso e la chitarra di Jeff e Stone, d’accordo, ma pur sempre senza la dovuta cura che il primo chitarrista tributava di solito a quel vecchio pezzo di legno temprato. Ci suonava praticamente da sempre e, c’era da scommetterci, non l’avrebbe mai buttata via, nemmeno se la Gibson gli avesse proposto di customizzare un suo modello McCready.

Mike sembrava vivere per quella chitarra e la chitarra pareva ricambiarlo con il trasporto degno di una creatura viva. Eppure, quella volta, l’aveva lasciata su un divanetto con le molle praticamente scoperte e senza staccare l’amplificatore.

Eddie aveva afferrato una lunga asta e chiuso il lucernario prima di staccare tutte le prese di corrente in vista; non c’erano stracci per poter contenere la pozzanghera, quindi si era messo all’opera e spostato ogni singolo pezzo potesse esserne infradiciato.

Lui, comunque, era ancora zuppo come un pulcino.

Si era liberato della felpa senza fretta, attento al prezioso involto che conteneva, nel magazzino il freddo non era pungente come all’esterno – avevano lasciato persino il riscaldamento acceso, gli idioti – ma non si poteva affermare la temperatura fosse ideale. Soprattutto se fino a pochi minuti prima si era rimasti sotto la pioggia gelida dell’inverno del nord ovest: il Pacifico regalava onde superbe, ma il Canada era dietro l’angolo e l’Alaska troppo vicina perché il vento non odorasse di neve.

Comunque era solo.

Di tutti gli scenari possibili che si era prefigurato uscendo di casa – casa, poi, che parolone: casa era con Beth. Una pensioncina senza pretese, ma andava benissimo per chi in vita sua aveva sempre preteso una sola cosa: essere, non avere. – quello era l’unico non avesse previsto.

Una stanza vuota e nessuno ad attenderlo.

Rabbrividì inconsciamente a quel pensiero che ne richiamava alla mente altri, ma li stornò scuotendo la testa con decisione, liberandosi delle goccioline di pioggia incastrate tra i suoi ricci nemmeno fosse un cane scontento.

Riattaccò la Les Paul di Mike con un gesto secco e volutamente poco attento, come se volesse far pagare a quel pezzo di legno scrostato – eppure tanto amato da un padrone che non amava abbastanza neppure se stesso – la sua solitudine e la sua delusione. Perché, ovunque fossero quei quattro, non l’avevano aspettato e nemmeno si erano premurati di lasciargli un biglietto.

Sono l’ultimo arrivato.

Sono l’ultimo arrivato e non conto niente.

Sono l’ultimo arrivato e non conto niente e non sono della famiglia.

Gli accordi di “Indipendence Day” erano risuonati all’improvviso rompendo il silenzio quasi perfetto che solo un giorno di pioggia a Seattle può creare, ma non riusciva più a sentirsi come quando, da ragazzino, scappava all’Heritage Park o in riva al mare con la sua chitarra.

Eddie non era un bravo chitarrista anche se avrebbe tanto voluto esserlo, sapeva suonare certo, ma il talento non si compra e lui non ce l’aveva; forse era quello il motivo per cui Mike non gli risultava troppo simpatico: perché Stone era bravo a pizzicare le corde, ma era soprattutto un ottimo compositore. Le mani di Mike invece sembravano fondersi allo strumento diventandone tutt’uno, tra le sue braccia la chitarra non vibrava, pulsava come fosse un cuore vivo.

Eppure la tradiva.

Mike tradiva la sua chitarra e viaggiava in proprio, Mike la tradiva e si fotteva il cervello, non pago il suo intestino pensasse invece a come fottere lui.

Ed Eddie non riusciva a capirne il motivo.

Perché di roba sulle spiagge di San Diego ne girava tanta, Los Angeles e Palo Alto erano troppo vicine perché non fosse anche di quella buona e il Messico davvero a due passi perché non fosse anche facile procurarsela, e lui ne aveva assaggiata senza distinzioni, perché quando la solitudine e la morte del tipo che ti ha regalato una faccia, ma non ti ha mai permesso di chiamarlo papà, diventano troppo dure da accettare, persino una siringa può risultare una compagnia gradevole.

O una striscia sistemata non proprio linearmente su una tavola da surf che ancora sa di cera e sale.

O una pillolina di chissà cosa, che importa, e poi un po’ di speed non manca mai tra gli squattrinati del First, perché magari di carne nemmeno a parlarne, ma devi pur tenerti su con qualcosa.

Però poi al mattino ti svegli ed allo specchio scorgi uno sconosciuto che ti guarda senza vederti.

E quello, per Eddie, non era mai stato un prezzo ragionevole da pagare.

La Les Paul, però, non si lasciava intenerire dai buoni propositi, perché i suoni che emetteva erano solo eco strozzate delle melodie che regalava alle dita del suo proprietario.

Eddie aveva sbuffato rinunciando a quel corteggiamento perso in partenza, rimpiangendo una volta di più il suo piccolo e discreto ukulele, che si lasciava suonare senza irriderlo.

Si sentiva solo. L’euforia che l’aveva accompagnato lungo la strada fino a quel casermone inutile, era scemata via del tutto e non riusciva a recuperarne neppure un brandello. Aveva voglia di sentire Beth, anche se aveva praticamente dato fondo alla sua scorta di quarti di dollaro in una cabina che puzzava di piscio e vomito, la notte precedente. Aveva voglia di urlare e prendere a calci qualcosa. Non era un buon segno.

Fuori continuava a piovere e sembrava non voler smettere tanto presto. Jeff glielo aveva detto, in fondo: a Seattle piove sempre e, quando non piove, c’è comunque un tempo di merda, la gente non può uscire di casa, i ragazzi sono costretti tra quattro mura anche quando non sono a scuola, le fabbriche ti fottono i polmoni e il mare fa schifo. È per questo che Seattle ribolle, troppa energia e nessun modo per sfogarla.

Jeff glielo aveva detto che ci sarebbe voluto tempo per abituarsi a quel clima, era stata dura anche per lui che pure veniva dal Montana, dagli altipiani battuti dalle correnti secche del nord. Tanta neve, un vento tagliente che ti entra nelle ossa ed il paesaggio più piatto e desolato degli Stati Uniti. Era camminando per quei sentieri sconnessi e tra quelle steppe battute dal vento che gli erano venuti quei polpacci da rugbista, anche se era stato il basket, poi, a pagargli il college. Almeno per un po’.

Degli altri sapeva poco, era stato con Jeff che aveva parlato di più in quelle settimane, era stato con lui che aveva inizialmente preso contatto, era la sua faccia che si ritrovava più spesso davanti mentre si sforzava di rimanere lucido di fronte ad una birra. L’ennesima.

Ed era il bassista che Eddie si stava ritrovando a schizzare a memoria sul suo blocco appunti, poco sotto le ultime righe di quella nuova canzone che gli stava dando il mal di testa: aveva fatto male a scriverla?

Il corpo di quel ragazzino era probabilmente ancora caldo -  o forse no: quanto ci mette un cadavere a perdere il suo calore? Ma era poi quello a fare di un corpo una salma? Si è morti quando il cuore smette di battere o quando il cervello decide di premere un grilletto?  – e lui ne stava facendo scempio?

Jeremy Wade Delle era stato su tutti i giornali il giorno prima, con tanto di foto: un bambino che sembrava al più una ragazzina, occhi azzurri e capelli chiari. Solo un trafiletto, ma un quindicenne che si fa saltare il cervello, e per di più in classe davanti ai suoi compagni ed all’insegnante, è una notizia che merita la prima pagina. Era una notizia che meritava attenzione.

Eddie non si era chiesto perché, ma dopo aver letto il giornale – tanti giornali - aveva cominciato a scrivere. A scrivere e ad arrabbiarsi: aveva dieci anni più di quel ragazzino che aveva rinunciato a crescere, ma quella pistola l’aveva idealmente accarezzata anche lui, quella pistola, potenzialmente, era tra le mani di tutti.

Però, forse, non era giusto comunque.

Perché ci si uccide? Jeremy la sua risposta se l’era portata nella tomba, perché secondo tutti, era un ragazzino come tanti altri.

Anche Eddie, secondo tutti, era stato un ragazzino come tanti altri, persino più fortunato di tanti altri, perché viveva in una villetta a due piani nella tranquilla periferia di San Diego, perché era bravo a scuola e sapeva cantare e suonare la chitarra, perché era carino e le ragazze lo indicavano tra risatine complici e maliziose dandosi di gomito mentre giocava a basket o a football.

Era un ragazzino fortunato Eddie perché aveva tutte quelle cose.

Eddie aveva anche la fisionomia di un morto troppo amato ed odiato insieme, però, e nessuno era mai stato tanto gentile da non fargliene scontare il prezzo facendo della sua faccia un memento ingiusto, senza nemmeno chiedergli il permesso.

Io non sono lui, lui è morto, io sono vivo, io sono io.

Ed stava per strappare via il foglio distruggendo le prove della sua solitudine quando il telefono aveva squillato. Uno, due, tre squilli. Non sapeva nemmeno ci fosse un telefono in quella catapecchia.

“Pronto?”

“Ed! Meno male che sei lì, ho perso il numero della pensione in cui stai e…”

“Jeff?”

“Sì, sono io. Senti, è lunga da spiegare al telefono, ma Dave ha fatto un po’ di casino e ora siamo in ospedale con lui. Volevo solo avvertirti di non preoccuparti, niente di grave, ok? Se vuoi raggiungerci ti do l’indirizzo, ma dovremmo averne ancora per poco.”

“Ok.”

“… Vieni qui o rimani lì?”

“Beh, pensavo…”

“Scusa, sta arrivando il medico di Dave, devo scappare, ci sentiamo dopo.”

Eddie era rimasto con la cornetta in mano come un povero stronzo.

“Non mi hai dato l’indirizzo, stronzo, che ne so in quale ospedale venire?”

Tanto non poteva più ascoltarlo.

In realtà non sapeva come doveva sentirsi, oscillava tra il senso di sollievo – perché comunque lo avevano avvertito - e la voglia di mandarli a cagare. Ma c’era l’album.

Stone scriveva musica a velocità pazzesca – bella musica, tra l’altro -, aveva continuamente idee e riffs nuovi da far ascoltare, e Jeff faceva lo stesso, ma non bastava.

Jeff aveva detto fossero in ospedale, che Dave aveva combinato qualcosa: perché non dirlo che probabilmente era in astinenza, che con quel tempo del cazzo persino gli spacciatori se ne fregavano dei pochi dollari che potevano intascare a dose?

Coglione.

A voler essere onesti, il batterista era bravo davvero, ma aveva perso del tutto la bussola. Non sapeva di preciso cosa prendesse e neppure gl’importava saperlo, probabilmente prendeva un po’ di tutto, eroina per rilassarsi, coca per tenersi su, speed per evitare la paranoia, anfetamine per lavorare. Alcol per buttar giù tutto. Peggio dei fighetti di Stanford che ogni stramaledetto Springbreak si riversavano a San Diego e dintorni carichi di spocchia e soldi e voglia di far casino, gente che non aveva mai visto una tavola da surf ma pretendeva d’imparare in una notte – di solito la sua ultima notte, e tanti saluti all’ennesimo idiota – e pensava lo Speedball fosse il modo migliore per provare tutto e subito: due settimane d’inferno in cui gli toccava fare a pugni con più di una testa di cazzo.

Gli veniva da ridere al pensiero che con una pagella come era la sua al liceo magari a Stanford l’avrebbero anche accettato. Sarebbe cambiato qualcosa?

Aveva bisogno di suonare, ecco qual’era la verità, era stufo di stare da solo in quel casermone vuoto a guardare strumenti muti. E perché nessuno si decideva a dire qualcosa sui suoi testi?

Le critiche su Once le aveva accettate, lo sapeva anche lui che non andava bene, mica aveva fatto lo stronzo impuntandosi su questioni di principio. La stava riscrivendo. Chiedeva solo quello, in fondo, che lo stessero a sentire mentre cantava, che stessero ad ascoltare quello che cantava. Jeff all’inizio lo faceva, ma era durata quanto? Troppo poco di certo.

Poi Dave aveva cominciato a comportarsi in modo strano, più strano del solito, e le cose erano cambiate di nuovo.

Mi serve una sigaretta.

Si era lasciato cadere sullo scomodissimo divanetto accanto alla rossa stronza di Mike.

“Tanto lo so che non sei naturale, che quell’altro scoppiato ti ha fatto qualcosa e non è la riverniciata di cui avresti bisogno. E altro che nicotina, mi sa che ho proprio bisogno di una canna visto che me la sto prendendo con una chitarra.”

Che merda.

Erano passate le sette di sera e non si vedeva ancora nessuno, era più di mezz’ora che li aspettava come un imbecille, ma non riusciva a decidere di tornarsene a casa, magari proprio a San Diego, mandare tutto a puttane e finire i suoi giorni come benzinaio padre di famiglia.

Sarebbe stato tanto male?

Poteva sempre riprendere il college e provare a fare il medico o l’insegnante, come Clayton. Ecco, se si fosse chiamato Edward Liggett, probabilmente non si sarebbe trovato lì, mezzo morto di freddo scazzo e noia, in quel casermone scrostato ad inseguire note e a scrivere furiosamente su un blocco unticcio e umido di pioggia.

O forse sì, sarebbe stato lo stesso, non avrebbe pensato alla storia di un ragazzino suicida da mettere in rima probabilmente, ma la musica l’avrebbe cercato e l’avrebbe preso comunque.

Lui non avrebbe rifiutato la chiamata, perché una volta ascoltata The Real Me non importa quale sia la tua storia, ne rimani incastrato, frustrato qualcun altro abbia fatto quella piccola, stupida domanda che frulla nella testa di chiunque senza che si abbia il coraggio di gridarla: Can you see the real me?

Chi sarebbe riuscito a vedere lui?

Era stato un rumore improvviso al cancello d’entrata a riportarlo alla realtà, rumore di ferro sbattuto, voci tese e irritate, la portiera di un’auto chiusa con violenza mal trattenuta.

Si era tirato su lentamente cercando di distendere il viso in un’espressione meno truce – perché aveva i muscoli del viso doloranti, se non proprio stizza, il suo doveva essere il ritratto dell’insofferenza – anche se aveva deciso di non aver voglia di essere conciliante: era il loro cantante, faceva parte del gruppo come e quanto gli altri e dava anche sensibilmente meno problemi. Erano un gruppo musicale, non una famiglia allargata, giusto? Si sarebbe comportato di conseguenza.

Il bassista era stato il primo ad entrare, fradicio fino al midollo. Si era sfilato quell’enorme cappello di pelo che sembrava adorare – chissà perché poi, sembrava una puzzola morta e bagnato emanava lo stesso odore penetrante  – e si era scrollato come un cane per liberare i capelli e la giacca dall’acqua. Mike e Stone l’avevano seguito subito dopo. Come prevedibile, Krusen non era con loro.

“Ciao Ed, scusa se ti abbiamo fatto aspettare tanto, ma al pronto soccorso hanno fatto un sacco di storie e Dave stava entrando in paranoia e…”

“Non importa, ormai è andata.”

Se Stoney c’era rimasto male non l’aveva dato a vedere e comunque a Eddie non interessava più di tanto. O meglio, non avrebbe voluto offendere Stone, ma non gli fregava molto della salute o della paranoia del batterista: era un imbecille che si stava rovinando la vita con le sue mani, un bastardo cui non fregava niente di buttar via anche quella degli altri, perché, se non gli aveva messo le corna, sua moglie stava per dargli un figlio.  E poi aveva un impegno con il gruppo.

E comunque non erano affari suoi, erano una band di musicisti, mica una famiglia. La sua era rimasta a San Diego in un bungalow sulla spiaggia, la sua se la portava dietro incisa in un blocco unticcio ed ancora umido di pioggia. Maledetta pioggia.

“Sì, ormai è andata. Quell’imbecille l’abbiamo riportato dalla moglie comunque, per stasera era inutilizzabile. A proposito…”

Stone l’aveva scrutato da capo a piedi con uno sguardo indecifrabile, Ed non riusciva mai a capire cosa passasse per la testa del chitarrista. Quanto a quell’altro, gli aveva fatto appena un cenno di saluto, un mezzo sorriso d’intesa e poi diretto verso il divano a pizzicare la sua chitarra: Mike sembrava fatto persino da lucido, incredibile.

“Cosa?”

Non gli piaceva si ridesse di lui e Jeff non era bravo a ridere sotto i baffi. Se volevano fare a botte l’avevano trovato in serata.

“Avevi ragione tu Jeff, era lui sulla strada. Scusa Ed, non volevo beccare quella pozzanghera, ti ho ridotto proprio uno schifo…”

E avrebbe dovuto pure credergli? Eddie non sapeva più se ridere o incazzarsi a morte con quel deficiente che si scusava con l’aria di volerlo prendere per il culo.

“Anche tu, però, camminare in mezzo alla strada in quel modo! Comunque mi faccio perdonare.”

Stone gli aveva fatto cenno di aspettarlo, poi era sparito verso l’altra stanza. Jeff aveva risposto al suo sguardo interrogativo con un’alzata di spalle altrettanto perplessa.

Stone era tornato da loro con un borsone consunto e ci aveva tirato fuori una giacca di velluto a coste marrone dalla foggia strana.

Gliel’aveva porta senza accenti superflui.

“Seattle non è San Diego, d’inverno fa freddo, non puoi girare solo con una felpa. Visto che rimani qui con noi dovrai aggiornare l’abbigliamento, almeno giù dal palcoscenico.”

Ed non era riuscito a trovare una risposta. Anche perché Stone non aveva atteso replica, gli aveva semplicemente dato una pacca sulla spalla e poi raggiunto Mike sul divano chiedendogli di suonare qualcosa, Baba O’Raley magari?

“Ho una canzone nuova, l’ho scritta ieri sera.”

“E allora cantacela.”

   
 
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