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Autore: Ilune Willowleaf    18/10/2005    6 recensioni
Fino a che punto gli uomini possono giocare con la vita? E quando questa vita giocattolo si ribella, cosa accade? Una storia nata come background per un personaggio originale da inserire in una fanfiction.
Genere: Dark, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mistia

Mistia

 

I miei primi ricordi, sono di oscurità.

Era notte, quando nacqui.

I miei occhi si aprirono, e io seppi di esistere.

Cosa ero?

Non lo so. Non credo di saperlo con esattezza tutt’ora.

Era notte. Tutto era silenzioso. Anche gli altri dormivano.

Ancora non sapevo.

Non sapevo nulla.

 

Arrivò l’alba. Vennero loro. Erano vestiti di bianco. Camici, li chiamavano.

Si fermavano davanti a me, e scrivevano qualcosa. Poi passavano oltre, davanti a mio fratello. Guarfavano, e scrivevano, andavano avanti. Con tutti i miei fratelli e sorelle.

Io ero vincina al posto in cui loro sparivano. Porta. Si chiamava porta.

Oltre, c’era una stanza.

Sala chirurgica. Ecco, la chiamavano così.

Io galleggiavo, nel mio liquido. Fluido nutritivo, lo chiamavano. Io galleggiavo nel mio fluido nutritivo.

Per molti giorni, tenni gli occhi socchiusi. Vedevo, ascoltavo. Non mi muovevo.

Al ventesimo giorno, almeno, credo fosse giorno quando loro scendevano e ci osservavano, scoprii il mio corpo.

Potevo muoverlo… un poco.

Anche mio fratello, alla mia destra, si muoveva.

Lui aveva un corpo, come me. Ma aveva un corpo piccolo, più piccolo del mio… torace, ecco. E la testa grande.

Aveva cinque… cosa sono? Occhi. Si, occhi. Aveva cinque occhi. E una piccola bocca, sul torace. Mi sorrise, una sera. Io sorrisi.

Era felice. Io lo sapevo. Io lo sentivo. Era felice che qualcuno gli avesse sorriso.

Il giorno dopo, vennero a prenderlo.

 

Urla. Urlava, gridava senza voce, piangeva senza lacrime dai suoi cinque occhi senza palpebre. Mio fratello moriva. Loro lo stavano uccidendo.

Lo stavano aprendo, mentre era ancora vivo.

Loro non sentivano il suo dolore. Ma anche se avessero saputo, non credo si sarebbero fermati.

Io non potevo fare altro che piangere.

Piangevo, per la prima volta piangevo, e le mie lacrime sparivano nel fluido nutritivo.

Nel fluido di mio fratello misero un’altra creatura. Mia sorella.

Due giorni dopo, presero un’altra di noi.

Si era appena resa conto di esistere.

Guardava curiosa loro che la tiravano fuori dal suo liquido.

Staccarono i… tubi, glie li staccarono dalle quattro teste unite assieme, glie li tolsero dalle manine con sette dita e la deposero su un carrello.

Lei non aveva paura.

Io temevo. Sapevo.

Capii che era il destino di tutti noi, quando lei iniziò a urlare.

Lei urlava. Io potevo sentirlo con le… orecchie. Urlava e piangeva, ma loro continuavano a tagliarle la testa.

Quando tolsero la cosa grigia dalla sua testa aperta, lei smise di gridare. Lei morì.

I giorni passavano. Io avevo paura. A chi sarebbe toccato, oggi? Chi sarebbe morto?

Li odiavo.

Ci guardavano, schernivano i nostri corpi, così diversi dai loro.

Ogni volta che ne portavano via uno, io avrei voluto gridare di fermarsi… li volevo implorare, minacciare, blandire, colpire…

Non potevo.

Non potevo fare altro che guardare impotente i miei fratelli e sorelle andare verso la morte, mentre si dibattevano debolmente sul carrello.

Un giorno, seppi cos’ero.

Dissero delle cose, che io non capii. Ma che ricordai. Dopo, avrei capito.

Io ero simile a loro, nel corpo. Ma loro non mi riconoscevano come… essere umano. Perché ero un clone. Una… copia. Non avevo diritti. Ero solo un oggetto. Come tutti i miei fratelli e sorelle.

Eravamo copie di alcuni di loro. Non di loro loro. Di altri. Ma eravamo solo copie.

Copie su cui erano state… innestate altre cose.

Uomini-bestia. Sangue demoniaco. Altri cloni. Chimere.

Chimere. Eravamo chimere.

Io ero il loro… pezzo migliore.

Un drago d’argento. Poi, avevano fatto tanti… cloni, di quella creatura mezza loro e mezzo drago.

Io ero una di quelle copie. Copia di una copia.

E su di me avevano messo… cellula di demone. Di due demoni.

Cosa mi avevano fatto? Cosa ero?

Sto ancora cercando una risposta.

I miei fratelli che erano, che sapevano di essere, oramai avevano capito il loro destino.

Nessuno sorrideva più.

Quelli che loro avevano lasciato vivere, iniziarono a soffrire.

Io sentivo il loro dolore. Soffrivano, i loro corpi contro natura morivano giorno per giorno.

Il dolore era sempre più forte.

Ma loro non facevano cessare il loro dolore. Forse non potevano, forse non volevano.

Io li odiavo.

Ero l’unica a non soffrire nel corpo. Ma soffrivo nell’… anima.

 

Una notte, una di loro li uccise.

Mise nei loro fluidi qualcosa.

Tutti si addormentarono, serenamente. Li sentii morire nel sonno.

Lei si avvicinò.

Ora so che mi somigliava.

Ora so che era lei l’originale, di cui io sono solo la copia di una copia.

Era magra. Pallida. Io sentivo il dolore nel suo corpo.

Cosa avevano fatto anche a lei?

Qualcosa di orribile.

Abbracciò il contenitore che mi racchiudeva.

-Emme quindici settantuno A… - sussurrò. Era il mio… nome? Il mio numero…

-Mistia. - disse. Mi guardò. Mi aprì la sua mente e il suo cuore. Per un istante, fummo una cosa sola.

Da lei appresi. Seppi cosa c’era lì fuori, e cosa le avevano fatto.

Seppi cosa erano le cose che avevano messo nel mio corpo.

Seppi che potevo liberarmi.

-Io morirò domani. Per la loro curiosità, per la loro ricerca. Tu devi vivere, Mistia. – mi sussurrò. Poi se ne andò, nella notte.

Ora, ero sola.

Sola.

SOLA. 

Non c’erano più i miei fratelli e le mie sorelle.

Decisi che non ci sarebbero più stati altri fratelli e sorelle nati per soffrire, per morire.

L’alba arrivò.

Loro erano sorpresi che i loro “campioni” fossero tutti morti.

Videro che ero ancora viva.

Lì, nel fluido nutritivo in cui avevo passato tutta la mia vita, io li vidi prendere il carrello, prendere i coltelli, i bisturi, che avevano tagliato le carni vive dei miei fratelli e sorelle.

Vivisezionarla.

Volevano vivisezionarmi.

No.

NO!

Non glie l’avrei permesso.

Sentii una energia oscura e potente, dentro di me. La afferrai. La strinsi.

Sentii il mondo rompersi, un peso terribile che mi schiacciò a terra.

Il mio fluido nutritivo scorreva via tra i vetri rotti, mentre io rimanevo appesa come una marionetta rotta ai tubi che mi entravano nelle carni.

Mi alzai in piedi. Per la prima volta, le mie gambe sostenevano il mio peso.

Afferrai il tubo che mi entrava nel collo. Lo strappai, mentre uno zampillo di sangue mi scorreva addosso. La ferita si richiuse subito. Strappai quello sul petto, quello sulla pancia. Strappai quelli ai gomiti, nei polsi, nelle ginocchia. Afferrai quelli che affondavano nella schiena, e li strappai.

Afferrai quelli che affondavano tra le piume bagnate delle mie ali.

Ero libera.

Caddi in ginocchio.

Loro erano troppo sorpresi per reagire.

Uno afferrò un panno dal carrello.

Sapevo cosa era. Narcotico. Se lo avessi respirato, mi sarei addormentata… e non mi sarei svegliata mai più.

Una nuova forza sorse in me.

Gli afferrai la mano. Qualcosa si ruppe. Come era fragile!

Urlò.

Il coltello cadde a terra.

Lo presi in mano. Emanava il dolore dei miei fratelli.

Lo lanciai. Un altro di loro gridò: lo avevo colpito alla gamba.

Mi guardai le mani.

Erano… unghie. Nere. Lunghe.

Artigli, mi venne in mente.

Erano artigli.

Affondai la mano nella gola di quello a cui avevo rotto il polso.

Il sangue caldo e pulsante, bruciante, fu un’esperienza nuova per me. Tutto era nuovo.

Lo guardai agonizzare.

Gli altri tentarono di scappare.

Leccai il sangue. Era buono.

Saltai, volai forse, afferrai una donna e affondai le mani nella schiena. Tirai fuori gli intestini e tirai, tirai, finché lei, urlando, non morì.

Ero davanti alla porta dove uscivano loro, da soli. Non quella per la sala chirurgica. Loro erano in trappola.

Era bello. Era eccitante. Ero viva.

Li uccisi. Uno per uno.

Strappai i crani e affondai le mani nei loro cervelli. Aprii i loro toraci e strappai i cuori. Feci loro quello che loro avevano fatto ai miei fratelli.

L’ultimo era ancora vivo. Mi guardava, non poteva muoversi. Mi accovacciai su di lui.

-Voi… ucciso…miei… fratelli…- le mie prime parole -Io ora… ucciso voi. - mi rialzai.

Non sarebbe vissuto ancora a lungo, pensai. Gli avevo rotto la schiena. Il suo sangue scorreva, dall’intestino lacerato. Sarebbe morto nel dolore e nella sofferenza. Sentivo il suo dolore. Mi piaceva, mi riempiva di forza. Colmava il vuoto dei miei fratelli.

Uscii dalla porta per la quale li avevo visti spesso uscire.

Lasciavo una scia di sangue, dietro di me.

Era un posto strano. Sconosciuto. Familiare.

La ragazza lo conosceva. Sapevo dove andare: dovevo cercare lei.

La trovai.

Era su un carrello. Nuda, come me, sotto il lenzuolo bianco.

Tanti tubi erano attaccati al suo corpo. Le labbra erano già bluastre. Ma aprì gli occhi grigi, e mi riconobbe.

Mi sorrise.

Cosa c’era in quei tubi che le entravano nel corpo?

-Hanno cercato il modo per bloccare il mio male. Poi hanno cercato il modo di farmi morire in fretta, visto che ero inutile. Ora dormirò… per sempre. - mi disse, come leggendomi nel cuore le domande che non sapevo porre.

-Chi… sei… tu?- chiesi, la mia bocca ancora incapace di parlare bene.

-Io sono Miriam. Miriam Likora. - mi prese la mano -Cerca la mia mamma. Cercala. Lei ti amerà. Lei mi amava. - mi disse. Poi chiuse gli occhi.

La sentii morire.

Sentii sotto le mie mani il suo corpo diventare freddo e rigido.

La guardai ancora una volta.

Poi corsi via, non sopportando oltre che un’altra sorella fosse morta.

Lei era la sorella di tutte noi. Era la sorella maggiore.

E ora era morta.

Non so come riuscii a uscire dal labirinto di stanze e corridoi, porte e armadi.

Trovai una specie di canottiera. La infilai. Sentivo una cosa nuova; avevo freddo.

D’un tratto, vidi una ragazza come Miriam.

Mi bloccai. Anche lei si bloccò.

Mi avvicinai.

Non era una ragazza vera.

Era un vetro. Dietro non c’era nulla.

Specchio.

Come lo sapevo?

Miriam. Lei si era unita a me. Lei mi aveva dato le conoscenze.

La mia sorella maggiore.

Mi guardai.

Non ero come Miriam.

Avevo gli occhi… verdi.

Avevo… ali. Piccole ali bianche di piume. Drago d’argento. I draghi d’argento hanno ali bianche piumate. Come lo sapevo? Miriam.

Capelli biondi, come Miriam. Belli. Fini. Bagnati di liquido e di sangue, coprivano il mio corpo magro.

Magra, ma non come Miriam. Magra perché poco nutrita. Non magra perché malata.

Dove avevo strappato i tubi, ora c’erano cicatrici.

Miriam non aveva queste due cose sulle sopracciglia. Corna. Piccole corna nere. Miriam non aveva orecchie a punta.

Mi strinsi le braccia.

Dovevo andarmene.

Miriam aveva detto di cercare la sua mamma.

Cos’è una mamma?

Credo una cosa bella.

C’era una… finestra. Avrei voluto galleggiare nell’aria come galleggiavo nel mio liquido nutritivo.

E galleggiai. Non mi chiesi perché o per come. Scesi. Corsi nel… vicolo. Scappai nel… parco. Verso la… strada. L’uscita.

Qualcosa di molto luminoso ardeva nel… cielo. Sole. Era il sole. Bruciava la mia pelle delicata.

L’aria era fredda, pungente. Tremavo.

Andai a sbattere contro qualcuno.

Uno di loro?

No.

Era una… donna. Donna, si.

Era alta, magra, pallida.

Aveva un mantello rosso scuro. Piangeva.

Mi vide, e un gemito le uscì dalle labbra.

-Miriam! Miriam, che ti hanno fatto?- esclamò. Mi abbracciò. Non voleva farmi del male, percepii.

La guardai. Assomigliava a Miriam. Era bionda, con gli occhi grigi.

-Tu… mamma di Miriam?- chiesi, esitante.

La donna mi guardò meglio. Lentamente, nei suoi occhi si fece largo la consapevolezza. Non ero Miriam. Le assomigliavo, ma non ero lei.

-Chi sei…?- mi chiese, staccandosi da me.

-Mistia. Io… copia, di copia, di Miriam. Lei… aiutato me a… fuggire. Lei uccisa da… loro. Quelli con camice bianco, Loro… fatto di me ciò che sono. Miriam detto di trovare sua mamma. -

La donna mi guardò, poi prese una rapida decisione.

Si tolse il mantello, e me lo mise addosso, coprendomi anche la testa.

-Vieni. - mi disse, conducendomi via con sé.

 

Strade, gente, animali, veicoli. Ero disorientata. Spaventata. Mi attaccai alla donna.

La sua casa era lontana, fuori della città.

Era bella.

Mi portò dentro, e mi fece sedere su una sedia.

-Racconta. - mi disse.

Io raccontai. Di come avevo preso coscienza di me. Dei miei fratelli uccisi per la curiosità di loro. Di Miriam venuta nel cuore della notte, che aveva dato una morte dolce e senza dolore ai miei fratelli, che aveva diviso con me la sua mente e la sua anima, che poi mi aveva salvato ancora, dicendomi di trovare sua madre.

-Miriam è… era malata. Malata nel sangue. Tutti i miei figli lo erano. Tre sono morti prima di aver raggiunto il loro quarto compleanno.

Miriam era… perfetta. Bella come un fiore. E intelligente… oh, dei, perché me l’avete portata via?-

-Miriam… da loro. Perché?-

-Nei laboratori dell’università di magia e ricerca? Beh… lei studiava magia. Poi, quando si è ammalata, i maghi del laboratorio di ricerche ci dissero che forse avevano trovato una cura, ma che lei doveva restare lì. C’è stata un anno intero. Negli ultimi giorni non me la facevano neanche più vedere. E oggi mi hanno detto che è morta. Non mi hanno fatto entrare: era successo qualcosa di orrendo, mi hanno detto…-

-Io ucciso. Ucciso loro, come loro ucciso miei fratelli. - vidi un lampo di paura negli occhi della madre di Miriam -Loro tagliato miei fratelli e sorelle… copie di Miriam e di altri bambini. Miei fratelli urlavano e loro tagliavano, e aprivano e guardavano. Io tagliato e aperto loro. Nessuno aprirà e taglierà più fratelli di Mistia. - mi ero rannicchiata su me stessa. Le parole non bastavano a parlare… a descrivere. I miei fratelli, le mie sorelle, morti. Per loro, e la loro curiosità. Piangevo per i miei fratelli e le mie sorelle. Tremavo.

La madre di Miriam mi abbracciò.

-Sssshhh… adesso mi prenderò cura io di te. Sarai la mia bambina. Loro non ti riavranno…-

 

Rimasi con Marta. Così si chiamava la madre di Miriam.

Mi lavò in un grande mastello, togliendomi il sangue e il fluido nutritivo secco e incrostato, mi pettinò i capelli e mi vestì, con gli abiti che erano appartenuti a Miriam.

Io ero più piccola di Miriam. Lei aveva quindici anni, quando si era ammalata e l’avevano portata lì. Marta disse che potevo avere tredici anni. Per fortuna, aveva ancora i vestiti di Miriam.

Un giorno, non mi svegliai. Continuai a dormire.

Al mio posto, c’era Miriam.

 

Occhi grigi, orecchie tonde, le ali sparite, così come le corna.

Io sono Miriam. Miriam piccola, perché Miriam grande era la nostra sorella grande morta dopo averci aiutato. So tutto di cosa era successo a Mistia.

Sarò la figlia di Marta, le resterò accanto, così non sarà sola. Dormi, Mistia, dormi di un sogno dolce e senza brutti sogni.

Marta era sola: suo marito era morto poco dopo la nascita di Miriam grande, sotto un cavallo.

E un giorno, anche Marta mi lasciò sola.

La stessa malattia che aveva corroso tutti i suoi figli, anche Miriam grande, la divorava già da tempo. In pochi giorni, però, divenne il fantasma di sé stessa.

Piansi. La implorai di non lasciarmi sola. La chiamai mamma.

Morì tra le mie braccia, sorridendo.

A volte, temo di essere stata solo un rimpiazzo della vera Miriam. Ma le ho voluto bene.

 

Adesso ero di nuovo sola.

Marta mi aveva tenuta nascosta ai vicini, ero troppo strana, troppo diversa. Ommeglio, Marta aveva tenuto nascosta Mistia.

Io sono Miriam. Ma non potevo restare: Miriam grande era stata sepolta, e tutti pensavano fosse morta. Era morta. Io ero di troppo, ora.

Con gli abiti di Miriam più grande, lasciai al tramonto la città, dopo aver assistito da lontano alle rapide esequie che i cugini di Marta le diedero, e aver deposto un fiore sulla sua tomba.

Al mattino, io, Miriam, mi ritirai. Vidi tre piccole luci nascere in me. Una azzurra, una viola, e una nera. Tre gemelle. Le avrei protette. Le avrei guidate. Ma io, che vegliavo su di loro e sulla dormiente Mistia, io non sarei uscita più.

 

So chi era la madre di Miriam. L’umana, Marta.

Chi era il drago? Chi erano i mazoku? Chi sono coloro che hanno usato per creare questo corpo? Devo trovarli. Devo trovare da chi sono, da chi siamo nate.

Comincerò col drago, da cui è nata Miry. Mira e Mirel sono nate dai demoni, credo. Ma sono tutte e tre brave sorelle. Miry forse troppo dolce e remissiva, Mira è una dura ma in fondo è brava. Mirel la chiamano “la senza cervello”, ma ci ha salvate più volte… anche se i suoi appetiti sessuali ci mettono a volte in imbarazzo. Ma è una brava bambina anche lei.

Chissà se troveremo ancora qualcuno che ci ami…

 

 

  
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