Libri > Twilight
Ricorda la storia  |      
Autore: Amalia89    04/09/2010    1 recensioni
E se il bimbo di Esme non fosse mai morto? E se l'amata coppia, Carlisle\Esme si fosse creata in un altro modo????? Se siete curiosi, non vi resta che leggere!!! ^^
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Esme Cullen
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Precedente alla saga
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Premio prima classificata del quizzone, nel gruppo “x tutti quelli che reputano Amalia Gasparin, una scrittrice favolosa”
Premio prima classificata del quizzone, nel gruppo “x tutti quelli che reputano Amalia Gasparin, una scrittrice favolosa”.
Per Rossana Russo.

One Shot: Vivere

Di
Amalia Gasparin


Pov Esme.

Seduta su una di quelle orribili sedioline di plastica bianca, in mezzo ad un corridoio deserto e buio, dondolavo il mio corpo avanti ed indietro, stringendo tra le mani la testa.
Erano passate già otto lunghissime ore, l’orologio segnava l’una del mattino e del mio Ned, ancora nessuna notizia.
I medici mi avevano detto che sarebbe stato un intervento di massimo quattro ore ma stava durando il doppio… Nessuno mi dava informazioni, le infermiere non passavano nemmeno più in quell’angolo d’ospedale abbandonato da tutti ed io mi sentivo terribilmente sola.
Posai una mano sulla mia pancia, luogo nel quale riposava il mio piccolo angioletto. Ero incinta ed al termine della mia gravidanza. Mancavano solo otto giorni al parto.
Eravamo così felici… Non immaginavamo che potesse accadere una cosa simile.

***
Eravamo seduti a tavola con tutti i nostri parenti, pronti a dare la notizia della nascita del bambino che era stata anticipata di ben quindici giorni a causa delle sue dimensioni.
Avevamo deciso di radunarli tutti, così da chiarire i loro dubbi in una volta sola, senza essere sommersi di telefonate di madri e sorelle terrorizzate.
La felicità era tanta che si poteva quasi vedere volteggiare nell’aria.
«Allora, non fateci rimanere sulle spine. Che cosa dovete dirci?». Domandò Delia, la madre di mio marito Ned.
Sorridemmo entrambi e quando ci alzammo in piedi, lui ricadde all’indietro, privo di sensi.
«Ned! Santo cielo, chiamate un ambulanza!». Gridai, stringendo il suo volto pallido tra le mani.
Non capivo, fino a pochi secondi prima stava bene!
Sentii un buco crearsi all’interno del mio stomaco, una strana paura, una consapevolezza inaspettata… Non avrei più rivisto i suoi magnifici occhi grigi.

***
E non mi ero sbagliata. Aveva avuto un’embolia cerebrale, una piccola emorragia interna, avevano dovuto portarlo in sala operatoria d’urgenza e da allora, non avevo saputo più nulla.
Avevano vietato ai parenti di rimanere durante la notte, solo a me era stato accordato il permesso, dopo diverse proteste.
Avevo promesso alla nostra famiglia che li avrei avvisati non appena avrei saputo qualcosa.
Il mio cellulare vibrò per l’ennesima volta nella tasca, era esasperante, non avevo niente di nuovo da dire, nessuna informazione da dare. Perché continuavano a chiamarmi?
Lo lasciai squillare a vuoto, non preoccupandomi nemmeno di chi ci potesse essere dall’altra parte dell’apparecchio.
Sentivo che stavo per impazzire! Mi alzai all’improvviso, iniziando a passeggiare per il corridoio, tendendo le orecchie nella speranza di poter sentire un qualunque rumore, un segno di vita… niente.
Sbuffai esasperata, sentendo il bambino agitarsi dentro di me, era inquieto… sentiva tutta la mia ansia.
«Shh piccolino, vedrai che papà stara bene». Sussurrai, accarezzandomi la parte dove aveva appena scalciato.
Una porta si aprì di scatto, ed una giovane infermiera fece il suo ingresso trainando un carrellino colmo di medicinali.
Non era molto alta, aveva i capelli castano chiaro, lunghi appena sulle spalle. Gli occhi erano nocciola, lucidi e rossi per la stanchezza.
«Scusi». Chiamai debolmente, nella speranza che almeno lei potesse dirmi qualcosa.
Si voltò all’istante, sorridendo alla vista del mio pancione ma rabbuiandosi all’istante, quando posò il suo sguardo nel mio.
«Posso aiutarla?». Domandò avvicinandosi dolcemente.
Lessi il suo nome sul cartellino che portava sul camicie bianco.
“Rossana Russo”.
«Rossana…». Dissi, sfiorando il pezzettino di plastica.
Lei mi guardò preoccupata e m’invitò a sedermi su una delle sedie alle mie spalle. Scossi la testa, stringendo le labbra.
Avevo voglia di piangere e disperarmi ma non potevo, dovevo essere forte.
«Mio marito è in sala operatoria da otto ore, per un’embolia cerebrale… Nessuno mi vuole dire nulla e sono due ore che di qui non passa nemmeno un inserviente». Spiegai, senza mai sollevare gli occhi dal suo camicie.
Mi sentivo stanca, non fisicamente ma mentalmente, non avevo più voglia di aspettare.
«Signora sono operazioni delicate. Ci vuole tempo». Mi rispose paziente.
«Come si chiama?». Aggiunse, porgendomi un fazzolettino.
Non capii subito quel gesto ma quando mi portai una mano alla guancia, la trovai stranamente bagnata. Quando avevo iniziato a piangere?
«Esme». Risposi asciugandomi con il pezzetto di stoffa.
«Bene Esme, ora viene con me, andiamo a prendere un tè caldo. Okay?». Poggiò una mano sulla mia schiena, per spingermi verso l’uscita ma io puntai i piedi arretrando.
«No, devo rimanere qui. Non posso allontanarmi». Protestai, alzando appena la voce.
Rossana mi guardò comprensiva, aggrottando appena le sopracciglia. Stava per replicare, quando il chirurgo uscì dalla sala operatoria, con il camicie sporco di sangue e la mascherina in mano.
Non mi mossi dalla mia posizione, il mio sguardo fisso sul suo volto stanco ed addolorato. No, non poteva essere…
«Signora Monuel… Durante l’operazione abbiamo trovato una seconda emorragia, abbiamo tentato di fermarla ma non c’è stato nulla da fare. Mi dispiace moltissimo». La sua voce, intrisa di vero dispiacere, mi colpì dritta al cuore.
Lo sentii sgretolarsi in mille pezzi, un vortice senza fine si aprì nel mio stomaco, risucchiando ogni fibra del mio essere dentro di sé.
«Non è vero… Lui sta bene e sta per uscire da quella sala». Sbiascicai parole senza senso, sapevo che stavo dicendo cose ridicole ma non poteva davvero essere successo tutto così in fretta.
Appena nove ore prima eravamo seduti a tavola, assieme alle persone che amavamo di più, felici di star per diventare genitori ed ora… Ora avrei dovuto accettare d’essere sola? Avrei dovuto accettare di crescere il nostro bambino senza di lui? No… Certo che no!
«Esme venga con me, si sieda…». Rossana provò a trascinarmi via di lì, volevo opporre resistenza ma non ebbi nemmeno il tempo di provarci che una fitta fortissima mi colpì sotto la pancia, costringendomi a piegarmi in due.
«Ahhh!». Urlai, poggiando le mani al di sotto dell’ombelico.
«Signora Monuel! Quand’è il termine della gravidanza?!». Chiese il chirurgo, soccorrendomi assieme a Rossella.
«Noooo!». Non poteva nascere! Non ora che suo padre non c’era più, non ora che ero rimasta completamente da sola!
«Ci serve una barella!». Guardai l’infermiera allarmata. Che cosa voleva fare?
«Stia tranquilla, sono un’ostetrica. L’aiuterò io, non rimarrà sola». Sussurrò le parole al mio orecchio, spostandomi i capelli da davanti agli occhi.

Nove ore dopo mi trovavo ancora in sala parto, sfinita dalle contrazioni e dal dolore. Rossana non mi aveva lasciata nemmeno per un momento, aveva asciugato le mie lacrime, sopportato le mie urla isteriche. Io non volevo che il bambino nascesse, non volevo vederlo, non volevo che venisse al mondo.
La porta della sala si aprì di nuovo, alzai la testa di scatto per vedere chi era entrato, per un attimo credetti che fosse solo un’allucinazione.
Era un dottore che non aveva più di trentacinque anni, biondo con degli occhi di un colore così strano che non riuscii subito ad identificarlo.
«Io sono il dottor Carlisle Cullen». Si presentò, senza sorridere ma fissandomi intensamente negli occhi.
Sapeva quel che stavo passando, glielo si leggeva in faccia. Senza riuscire più a controllarmi, scoppiai a piangere, divincolandomi dalla presa dell’infermiera e della mia ostetrica.
«Basta! Non posso sopportare tutto questo dolore, basta!». Gridai, con quanto più fiato avevo in gola.
«A che punto siamo?». Domandò il dottore.
«Questione di minuti, dovremmo già esserci a dire la verità…». Rispose Rossella.
Carlisle asserì con la testa, aveva un’espressione grave in viso e non mi piaceva per niente.
«Esme, posso chiamarti così?». Si avvicinò dolcemente.
Lasciai ricadere il mio corpo sul lettino ed annuii debolmente con la testa.
«Bene. Ora devi spingere Esme, con tutte le tue forze, dobbiamo far nascere il tuo bambino o rischiamo delle complicazioni» Provò a spiegarmi delicatamente.
Ma io non volevo, non doveva nascere, non ora!
«Non posso, non posso!». Urlai di nuovo, sollevandomi all’improvviso, colta da una contrazione più forte delle altre.
Lui si sistemò in mezzo alle mie gambe, sollevando il lenzuolo azzurro che mi copriva dalla vita in giù.
La voglia di spingere era tanta, ma combattevo contro la natura.
«Vedo già la testa. Devi spingere Esme o morirà soffocato». Carlisle mi esortò nuovamente a spingere ma davvero, mi mancavano anche le forze per farlo.
Abbandonai la testa all’indietro, pregando solo che qualcuno si prendesse la mia vita, così come si erano presi quella di mio marito.
Avevo amato mio figlio fin dalle prime settimane ed ora le cose non erano cambiate, solo non volevo che nascesse, che vivesse le sue prime gioie senza suo padre, che vivesse con me una vita vuota ed infelice.
Due mani fredde e piccole mi afferrarono per il volto, costringendomi ad aprire gli occhi.
«Esme! Non provarci neppure! Ora tu inizierai a spingere al mio tre ed assieme, faremo venire al mondo questa creatura! La morte fa parte della vita, non puoi avere l’una senza l’altra! Non c’è dato sapere quando ci colpirà ma abbiamo la certezza che prima o poi accadrà a tutti quindi, ora faremo venire al mondo tuo figlio, lo faremo vivere perché è questo il ciclo della vita. Per un’anima che se ne va, ce ne una che arriva». Rossana mi spuntò in faccia la cruda realtà, scuotendo il mio capo e stringendo la presa sulle mie guancie.
Non abbandonai neppure per un secondo il suo sguardo, perché aveva ragione, aveva maledettamente ragione!
«Uno, due, tre!». Carlisle contò per me ed al suo tre, radunai tutte le mie energie e spinsi più forte che potei.
Rossana mi stringeva la mano, infondendomi la forza necessaria per dare la vita alla mia creatura.
Ci vollero quattro spinte ed all’ultima, le forze mi abbandonarono costringendo la mia ostetrica a spingere sulla mia pancia per aiutarmi.
L’urlo potente di un bambino invase la stanza all’improvviso, facendomi sorridere.
«E’ bellissimo». Sussurrò la giovane che mi aveva aiutata, l’unica persona che in venticinque anni di vita era stata in grado di scuotermi dal profondo, la mia ostetrica. Rossella.
Lo sentivo lamentarsi debolmente e desideravo con tutta me stessa stringerlo tra le mie braccia.
«Voglio vederlo». Diedi voce ai miei pensieri.
«Un secondo solo…». Rispose Carlisle.
Attesi quegli istanti impaziente di conoscere il volto del mio bambino. Chissà a chi somigliava.
A quel pensiero mi si strinse nuovamente il cuore.
«Ecco». Un’infermiera lo poggiò sul mio petto, rivelandomi un visino perfettamente rotondo, anche se un po’ arrossato.
Non potevo credere che fino a poche ora prima, non volevo che venisse al mondo quando ora, ero certa che non avrei più potuto fare a meno di lui, avrei dato la mia vita per quel piccolo fagottino.
Era piccolo e fragile ma soprattutto, assomigliava al suo papà, un papà che non avrebbe mai conosciuto.
Lo strinsi delicatamente al mio petto e poggiai la mia fronte sulla sua testolina. Piansi, senza aver più la voglia di trattenermi.
Quella doveva essere un’immensa gioia ed invece, fu il dolore più grande che avessi mai provato.
«Chi nacque?». Chiese Rossella, sorridendo e sfiorandogli la testolina..
«Ned». Risposi singhiozzando.
E sapevo che quello, sarebbe stato l’unico nome che il mio angelo avrebbe potuto avere.


Dieci anni dopo.
Pov Carlisle.

Passeggiavo per le vie di Denali, località nella quale mi ero trasferito da pochi mesi.
Ero costretto a spostarmi sovente, la mia natura me l’imponeva. Ero un vampiro ed essere immortali aveva i suoi svantaggi.
Ero rimasto per dieci anni a Seattle, nella speranza di rivedere il volto di quella donna che tanto mi aveva stregato.
Si chiamava Esme, ed io, assieme a Rossella, avevo fatto nascere il suo bambino, nella stessa notte cui suo marito era morto. Il dodici ottobre del 2000.
Ma mai più mi era capitato di rincontrare quei dolci lineamenti, non avevo più potuto posare gli occhi su quei capelli color del caramello o sulle sue labbra rosse e carnose.
Scossi la testa sconsolato, in tutto quel tempo non ero mai riuscito a non pensare, nemmeno per un giorno, a lei.
Ma in fondo, era meglio così. Io ero un essere senz’anima, che futuro avrei potuto darle?
Il pianto di un bambino richiamò all’improvviso la mia attenzione. Era pomeriggio inoltrato e faceva davvero freddo. Che cosa ci faceva in giro la gente con quelle temperature?
«Lei non tornerà più! La mia piccola Cipria se ne andata per sempre!». Era davvero un pianto disperato, preoccupato, fu questo ad attirarmi verso di lui.
Alle sue spalle la mamma lo abbracciava, massaggiandogli delicatamente la schiena.
Quando la donna alzò il volto, richiamata dal rumore dei miei passi sulla neve, m’immobilizzai per la sorpresa.
Anche lei sembrò riconoscermi ma al contrario mio, sorrise sollevandosi da terra.
«Dottor Carlisle?». Domandò stupita, probabilmente notando che non ero invecchiato nemmeno di un anno.
«Sì Esme, sono io». Risposi, senza riuscire ad aggiungere altro.
«Ned, sai chi è lui?». Domandò amorevolmente al bambino.
Lui si asciugò gli occhi pieni di lacrime e scosse la testa in segno di diniego.
«E’ il dottore che ti ha fatto nascere». Spiegò, baciandogli una guancia.
Sorrisi, chinandomi sulle ginocchia per raggiungere la sua altezza. Era molto bello, gli occhi erano grigi e i capelli come quelli della mamma.
«Ci rivediamo». Salutai, allungando una mano nella sua direzione.
Lui la strinse da bravo ometto e non si stupì della freddezza della mia pelle, probabilmente pensava che era a causa della bassa temperatura di quel luogo.
«Perché piangi?». Aggiunsi, vedendo che non diceva nulla.
Tirò su rumorosamente con il naso, prima di rispondermi.
«Cipria, la mia gattina, è morta». Scoppiò nuovamente in lacrime, buttandosi tra le braccia della madre che lo strinse a sé.
Riflettei un secondo sulle parole da dire…
«Sai Ned, una volta qualcuno mi disse che la morte fa parte della vita, che non si può avere l’una senza l’altra. Non c’è dato sapere quando ci colpirà ma abbiamo la certezza che prima o poi accadrà a tutti, questo è il ciclo della vita. Per un’anima che se ne va, ce ne una che arriva quindi, adesso smetti di piangere e se la mamma è d’accordo, ti porto in un posto speciale dove forse, potrai ritrovare la tua piccola Cipria». Ripetei le stesse parole che Rossana disse a sua madre per convincerla a farlo nascere.
Esme mi sorrise, ricordando bene dove aveva udito quella frase ed il piccolo Ned, si asciugò le guancie girandosi a guardare la mamma in attesa di una sua risposta.
Lei asserì radiosa prendendolo in braccio.
«Qualunque cosa accada tesoro mio, qualunque dolore proverai nel corso degli anni, ricorda che la vita è la chiave di tutto. Vivere è l’unica cosa che dovrai ricordare in ogni istante della tua esistenza. Ed ora, andiamo in questo posto speciale a prendere la nostra nuova piccola Cipria». Esme strinse forte il suo bambino, chiudendo gli occhi e beandosi del calore che solo un sentimento come l’amore poteva dare.
Ci incamminammo verso la mia macchina nel più assoluto dei silenzi.
Sapevo che c’erano molte cose di me che ancora non conosceva, ma se la vita mi aveva dato questa nuova possibilità, se lei era stata messa di nuovo sul mio cammino, un motivo c’era e come aveva appena detto: vivere era la chiave di ogni cosa, anche dei sogni.


The End…
 

 

  
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Twilight / Vai alla pagina dell'autore: Amalia89