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Autore: chiaki89    05/09/2010    6 recensioni
Quanto è sottile, nel nostro cuore, la linea che separa il dolore dal coraggio? Quanto può costare superarla? E cosa ci può indurre a farlo? Questo confine così nebuloso, come quello che separa l'oltremondo dal nostro mondo, sta per essere varcato.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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ANIME NERE

 

 

 

Fa freddo.

Il cielo grigio preme su di me, sulla mia pelle, sulla mia anima.

Varco il cancello lentamente, quasi indecisa, facendomi il segno della croce di rito.

Il suono penetrante dei miei passi sui gradini riecheggia per tutto il cimitero, o almeno così mi sembra.

Lo scricchiolare della ghiaia sotto i piedi ferisce le mie orecchie che desiderano solo silenzio. Il vento, gelido respiro dei morti, soffia violento. Mi stringo addosso il maglione pesante e scosto i lunghi capelli scuri dal viso, ignorando il fluttuare fastidioso della mia gonna intorno alle caviglie.

Cammino con decisione lungo il sentiero che porta alla cripta di famiglia. Le poche persone curve sulle tombe mi guardano un attimo, poi distolgono gli occhi come se fossi una fugace visione della loro mente ammantata dal dolore.

Non c’è ressa, non oggi. Domani è il giorno dei morti, il primo novembre, e quasi tutti sono intenzionati a visitare coloro che non ci sono più proprio in quest’occasione. Ma non io. Ho deciso di anticipare, per evitare la folla piangente. Voglio vivere il dolore da sola, senza che nessuno mi possa vedere.

Arrivata alla cripta mi fermo ad osservare la fredda austerità della struttura. Marmo nero, le sembianze di una casupola per bambini, fiancheggiata da due angeli dal viso sereno e rovinato dalle piogge, al punto che sembra che dai loro occhi scendano lacrime biancastre. In qualche modo sono più realistici così, rispetto all’opera originale.

Apro il cancello, rabbrividendo al suo cigolare sinistro, e lo richiudo rapidamente alle mie spalle. Nessuno deve capire che sono qui. Voglio solitudine.

Nonostante tutto quello che mi sono ripromessa non riesco ad impedire che il magone mi salga in gola quando vedo la lastra di marmo che copre la tomba in basso a destra.

Mi inginocchio di fronte e vedo le scritte annebbiarsi, distorte dal velo di lacrime che tento di non lasciar fuggire dai miei occhi. Una sola, prepotente, supera la mia determinazione e scorre lenta sulla guancia, per poi cadere a terra con un plic pressoché inudibile.

Sfioro con una mano le lettere dorate, sussurrando il nome tra me e me, sentendo il gelo della superficie riverberare nelle ossa. La vera morta sono io. O almeno lo sono da quando se n’è andato, poco meno di un anno fa, in una fredda sera di dicembre. 

Vorrei dire qualcosa, vorrei fare qualche gesto solenne, ma nulla può esprimere quello che sto provando. Solo il silenzio dei pensieri sconvolti.

Non ho portato fiori freschi, non ha senso uccidere anche loro. Non si meritano la morte, così come non la meritavi tu.

Poi le emozioni si impennano, i ricordi cominciano a scorrere come acqua attraverso crepe microscopiche in un vaso di ceramica, scavandosi una via sempre più grande fino a frantumare in mille pezzi il recipiente. Travolta dalle immagini ormai perdute mi rannicchio contro la tomba, come una bambina che si ripari da un temporale.

Ero forte, un tempo. Sapevo sorridere, scherzare, pensare. Adesso tutto è avvolto dal sudario del dolore.

Mi odio. Sono spaventosamente tragica e non dovrei esserlo. Dovrei raccogliere i miei frammenti con dignità e camminare via a testa alta. Tuttavia, oggi è Halloween.

È un giorno speciale, in cui ci possiamo travestire come vogliamo, diventando noi stessi delle creature dell’orrore.

Un sorriso pallido si forma sul mio viso. Sì, oggi sarò qualcosa di diverso. Oggi mi travestirò da creatura addolorata che non riesce a scavarsi la via fuori dalla disperazione che prova. Suona assurdo e patetico anche a me, eppure la soluzione mi è congeniale.

Mi raggomitolo meglio contro la lastra di marmo gelida, abbracciandomi le gambe e posando il mento sulle ginocchia. In questo momento non dimostro i miei venticinque anni.

Appoggio la testa contro la pietra fredda e chiudo gli occhi, abbandonandomi alle sensazioni che sto provando. Una volta all’anno posso anche concedermelo.

***

Riapro gli occhi poco dopo. Il gelo che mi penetra nelle ossa è più acuto del previsto. Alla tenue luce dei lumini vedo il mio respiro condensarsi in una nuvoletta bianca. La temperatura deve essersi abbassata di botto.

Mi stiracchio lentamente, percependo in un angolo del mio cervello che qualcosa non quadra. Le mie membra sono troppo intirizzite ed irrigidite: sono passati solo dieci minuti da quando mi sono messa in quella posizione scomoda. Mi alzo titubante, solo dopo aver sfiorato nuovamente il nome di colui che avevo tanto amato e che si era portato via con sé la mia anima.

Aprendo il cancelletto capisco cosa ci sia che non va.

Il cigolio cronico echeggia nel silenzio del cimitero deserto. La luna calante occhieggia sinistra dal cielo nero come la pece, illuminando le tombe di una luce biancastra e malsana.

Mi sono addormentata per ore.

L’oscurità preme sugli occhi e comincio a battere i denti, tremando. Non sono mai stata un cuor di leone.

Niente panico. Devo stare calma.

E devo uscire al più presto da questo incubo.

Muovo i piedi verso l’uscita del cimitero, sussultando terrorizzata ad ogni rumore, compreso quello dei miei passi. Le luci dei morti mi passano accanto agli occhi come lampioni in una galleria, lasciando vaghe tracce luminose sulla mia retina.

Gli angeli, le madonne e i santi a guardia delle lapidi mi scrutano con sguardi malevoli, distorti dalle tenebre.

Oltre il buio che mi circonda vedo il grande cancello d’ingresso del cimitero, illuminato da una lanterna elaborata in ferro battuto. Mi lancio verso le sbarre metalliche come se fossero un salvagente, ma lì resto.

È chiuso. Nessun guardiano in vista. Tutti hanno paura di stare vicino ai morti la sera di Halloween: io non faccio eccezione.

Scuoto il cancello senza successo mentre le catene tintinnano, beffandosi di me.

Una folata di vento gelido proveniente dal camposanto mi fa rabbrividire.

È molto più che gelido. Sembra racchiudere in sé una malizia e una crudeltà che non ho mai percepito in vita mia. Oppure è la mia immaginazione.

Mi volto verso le tombe, tremando.

Vaghe luci candide si alzano da numerosi punti del cimitero, come brandelli di seta visti attraverso la foschia. Palpitano, dotate di vita propria, tentando di alzarsi verso il cielo.

Ma una nebbia nerastra si alza a sua volta dal terreno, cominciando a salire fino ad afferrare quelle fiammelle immacolate.

Immediatamente queste cominciano ad agitarsi furiosamente, in un disperato tentativo di liberarsi.

Quasi inconsapevolmente, sto sperando che riescano a farcela. Sono paralizzata nella mente e nel corpo, non posso fare a meno di contemplare quello spettacolo terrorizzante e sovrannaturale.

Ma il destino dei deboli è ineluttabile.

Ben presto la foschia nera avvolge le luci nivee e le stringe, le soffoca, le ingoia nella sua oscurità. Esse si tingono di un color giaietto e precipitano al suolo, velocemente, come cose morte.

La nebbia, soddisfatta, lentamente si ritira in diversi punti del cimitero, lasciandomi spaventata e ansimante per quello a cui ho assistito.

Benché il fenomeno sia finito la mia paura non è passata. Anzi, cresce sempre più fino a trasformarsi in terrore vero e proprio.

Voglio uscire. Voglio fuggire.

Ma il cancello non si apre alle mie suppliche e mi è impossibile scavalcarlo. Combattendo contro tutti i miei istinti comincio a spostarmi, cauta, alla ricerca di un’altra uscita.

Mi muovo tentoni, tenendo gli occhi innaturalmente spalancati. Le mani tremano, il respiro è spezzato, il gelo si infiltra nelle ossa. Mi sembra di sentire vaghi gemiti verso il centro del camposanto, stridii strozzati e fruscii indistinti.

Voglio uscire. Voglio fuggire.

Continuo a camminare, sperando in una via di fuga da quell’incubo. Un soffio di vento più violento e freddo degli altri mi blocca sul posto. Improvvisamente non riesco più a muovermi, troppo terrorizzata per fare un altro passo.

Tra le ombre vedo ondeggiare qualcosa, più oscuro delle ombre stesse. Mi sembra di essere dentro ad un racconto dell’orrore, con la cruciale differenza che questa è la realtà.

Il frammento di tenebra che ho visto striscia nella mia direzione, lento, pigro.

Pare un mantello che si tenga su da solo, per qualche misterioso trucco di un illusionista: tra quelle che dovrebbero essere le mani, e che invece sono solo escrescenze di buio, regge una massa informe e nera, che riflette i raggi della luna come se fosse bagnata.

Senza fretta se la porta al viso, un buco livido delimitato dal cappuccio di pura oscurità. Intuisco soltanto l’essere affondare i denti nella preda, con un suono umido e raccapricciante, per poi inghiottire.

Mi appoggio contro il muro del cimitero, tremante, e facendo questo smuovo della ghiaia con i piedi: il rumore scricchiolante penetra violentemente il silenzio.

Comincio a pregare, ma è inutile.

Quell’essere d’ombra si volta verso di me e mi guarda con occhi vuoti, una tenue luminosità rossastra in corrispondenza di quello che dovrebbe essere il volto. Poi comincia a scivolare senza fretta nella mia direzione. Premo più forte la schiena contro la parete di mattoni ruvidi, tentando quasi di penetrarvi all’interno per cercare protezione.

Poi vedo le sue mani. Grigiastre, malsane, putrescenti. Raggrinzite come la pelle tenuta troppo a lungo sott’acqua. E si stanno tendendo ad afferrarmi. Un fetore improvviso di cadavere mi riscuote dall’immobilità, inducendomi un conato di vomito.

E allora scatto, gridando.

Supero quella cosa disgustosa e comincio a correre all’interno del camposanto, senza più ragionare. Voglio solo che i miei piedi mettano più distanza possibile tra me e quella creatura da incubo.

Rallento, incerta. E se fosse davvero un incubo? Immersa nei pensieri inciampo e cado a terra rovinosamente. Una fitta al braccio mi informa che mi sono graffiata con i sassolini appuntiti del sentiero. Fa un male tremendo: non sto sognando.

Resto a terra, con il fiatone, il petto che duole ad ogni respiro. Mi porto una mano al volto e la poso sugli occhi. Scoppio a piangere, annientata.

Ho paura. Voglio andarmene.

Gli stridii inquietanti non sono finiti e vengono ritmicamente coperti dal suono dei miei singhiozzi. Mi farò scoprire, ma al momento non riesco neanche a rendermi conto di una cosa così ovvia.

Alzo lo sguardo verso l’orizzonte, senza vederlo davvero. Il mio unico orizzonte adesso è il crudele muro del cimitero, che mi impedisce ogni fuga. Le lacrime rendono la vista sfocata; nel mio campo visivo è presente una luce vaghissima, bianca, come una timida lanterna vista attraverso la nebbia.

All’inizio penso sia un effetto del pianto e del mio status mentale, ma poi vedo la luminosità diventare più intensa e definita.

Una figura alta, longilinea, priva di veri contorni. Poi quel barlume si addensa e comprendo cosa sto guardando.

L’immagine di una donna dal volto giovane e calmo, uno sguardo limpido e trasparente che comunica un senso di pace. La mia inquietudine si attenua, il pianto si spegne. La razionalità torna.

Lei si avvicina quietamente a me, ancora accasciata per terra. Mi allunga la mano candida, un invito gentile ad alzarmi. Non mi tocca, non potrebbe farlo. Lo so. E per quanto tutto ciò sconvolga la mia mente, riesco a mantenermi salda.  Quella presenza funge in qualche modo da ancora.

“Rialzati, mia cara. Non è il momento della disperazione.”, dice con la sua voce dolce e lontana. Obbedisco senza quasi capire cosa sto facendo. Il dolore dove mi sono graffiata sta scemando, ma è sufficiente a farmi capire nuovamente che non sto sognando.

Lei mi sorride amorevolmente, ma io ho ancora paura. Del cimitero. Dell’essere d’ombra. Del sovrannaturale. Tremo visibilmente sotto il suo sguardo. Lo sguardo di un fantasma.

“Non avere paura, mia cara.”, dice. La sua veste fatta di luce si increspa lievemente quando tende la sua mano opaca verso il mio viso, in una carezza impalpabile. Non sento nulla, non al tatto perlomeno. Eppure sento la morsa al cuore sciogliersi un poco, respirare diventa meno doloroso.

“Cosa sta succedendo?”, sussurro, esprimendo la domanda che sta vorticando nella mia testa da quando mi sono svegliata.

Sorride di nuovo, stavolta malinconica. “Che giorno è oggi?”, mi chiede di rimando.

“Il 31 ottobre. Halloween.”, rispondo.

“Samhain.”, aggiunge lei.

Sì, conoscevo anche quell’antico nome celtico. La festa che segnava la fine di un anno e l’inizio di uno nuovo. Samhain.

Annuisco lentamente. Lei sospira, oscurandosi leggermente, una nube che passa davanti alla luna.

“A Samhain, o Halloween, come lo chiamate voi, il confine tra il vostro mondo e quello degli spiriti cade completamente. È risaputo. Per questo vi travestite da creature dell’orrore: vi nascondete mescolandovi a loro. Creature come me, spiriti della luce che proteggono i luoghi sacri, possono prendere forma e vagare nel pieno dei poteri sulla terra che anche voi calpestate. Ma non vale solo per le creature della luce. Ogni cosa ha il suo opposto, persino noi, che rifuggiamo alle leggi della natura. E anche questi esseri così diversi da noi sono liberi la notte di Halloween.”, dice con voce arcana. Sembra triste, dispiaciuta di dovermi raccontare queste cose.

“Perché mi stai dicendo tutto ciò?”. È una domanda lecita, eppure davanti a quegli occhi cristallini e così stanchi mi pare di aver pronunciato un’imperdonabile offesa.

“Perché tu sei qui, stasera. E perché hai visto.”, ribatte quietamente. So cosa intende, ma questo non mi aiuta a calmare l’inquietudine che sta montando nel mio petto. Resto in silenzio, non sapendo cosa dire.

“Ho bisogno del tuo aiuto.”, rivela velocemente, con uno sguardo mesto. Anche stavolta non ripondo, attendo le sue prossime parole.

“Tu lo hai visto. Si aggira per il camposanto, la notte di Samhain, e fa ciò per cui è nato. Il mio potere non può far nulla per fermarlo, in occasione di questa festa, ed ogni singolo, inesorabile anno devo assistere alla sua strage. Egli divora le anime. Le anime di coloro che sono morti in questi dodici mesi e che aspettano Halloween per passare nel nostro mondo. Lui afferra quelle anime pure, candide, e le sporca fino a farle precipitare tra le sue immonde mani. E se ne ciba senza remore.”.

Rabbrividisco senza poterne fare a meno. L’essere che tanto mi aveva spaventato adesso mi terrorizza ancora di più. Il tremito delle mie mani si fa più evidente, i battiti del mio cuore aumentano, facendosi più ravvicinati. Ma non può divorare tutte le anime del cimitero. Quella di colui che ho tanto amato si salverà, ne sono certa.

“Mi dispiace di doverti coinvolgere in questa così orribile vicenda. Ma non ho altra scelta. Tu lo devi distruggere.”, dice con tono accorato. Soffre, si morde l’inesistente labbro, scrutandomi supplicante. Vorrei aiutarla, davvero. Ma io…non posso. Ho paura.

Voglio uscire. Voglio fuggire.

Scuoto la testa, senza riuscire a parlare per fornirle una risposta. Non posso.

Lei esala un sospiro leggero. “Lo immaginavo. E non volevo dirti anche questo. Le anime di cui si ciba lui sono di un “tipo” ben preciso.”. Si interrompe e mi fissa, triste.

“Divora solo le anime dei bambini.”.

Un lamento disarticolato esce dalla mia gola; mi accascio di nuovo a terra, senza più forze. Sento che sto per vomitare, ma riesco a trattenermi. Le lacrime invece non si fermano. Non doveva succedere a me. Non a me! Afferro la ghiaia con le mani e poi le stringo, finché non sento un dolore lacerante ai palmi. Apro le dita una ad una, osservando distaccata i graffi sanguinanti che mi sono provocata. Il sangue si mischia alle stille salate che continuano a scendere dai miei occhi: ma esse non possono lavare via il dolore. Di nessun genere.

“Cosa devo fare?”, riesco a sussurrare tra i singhiozzi.

Lei, la candida creatura di luce, si accuccia davanti a me, accarezzandomi i capelli con il suo tocco proveniente da un altro mondo.

“Hai mai sentito parlare di magia simpatica?”. Scuoto la testa, confusa. Non ho idea di cosa stia dicendo. Lei si rialza invitandomi, con un gesto delicato ed elegante della mano, ad alzarmi a mia volta. Ormai incatenata, eseguo.

“È una magia che si basa su similitudini e analogie. Ogni oggetto che utilizzi per compiere della magia simpatica rappresenta qualcosa su un altro piano di riferimento. Per distruggere lui ti servirà una rosa bianca, che impersona le anime immacolate dei bambini. Con essa ti dovrai pungere e farai uscire del sangue, che esprimerà la volontà di sacrificio per contrastare il grande male: l’energia che serve ad ogni operazione magica o mistica. Ed infine quella rosa sporcata di sangue la dovrai conficcare nella sua bocca, a sigillarla per l’eternità.”.

Annuisco, rassegnata. L’unico modo per uscire da questo incubo è fare quello che mi ha detto. Per quanto ogni singola cellula del mio corpo lo rifiuti, questa è la sola soluzione. Ma una domanda mi preme.

“Come posso trovare una rosa bianca? È notte, il cimitero è grande…ci vorrà tantissimo tempo!”.

Lei fa un cenno affermativo con la testa, aggraziata come sempre. “E tu non hai tutto questo tempo. Già avverto il velo del mondo degli spiriti che si ritira, si sfilaccia, pronto a tornare dietro il confine che esiste durante tutto l’anno. Io so dove trovare ciò di cui hai bisogno. Seguimi, mia cara.”. Comincia a fluttuare avanti e io le tengo dietro con i miei maldestri passi.

Ad un tratto si sente un rombo sordo e, allo stesso tempo, un brivido mi attraversa violentemente. Il gelo si infiltra nelle mie ossa, riverbera, le scuote facendomi tremare in modo incontrollabile. Con la coda dell’occhio vedo un grumo di ombra strisciare rapido verso di me, rivoltante e minaccioso. Il terrore si arrampica dai miei piedi come creatura viva, si aggrappa alla mia pelle con unghie affilate e raggiunge il mio petto, dove si scava una via fino al cuore. Lì rimane, cupo e soddisfatto, a lanciare stilettate agghiaccianti verso la mia psiche sconvolta. Non riesco più a ragionare, mentre pensieri spaventosi si accavallano impazziti nel mio cervello. Voglio urlare, ma non ci riesco. Come negli incubi peggiori, le mie corde vocali sono paralizzate.

“Corri!”, grida la dama candida, e mi guida tra le tombe. Io la seguo disperata, inciampando in ostacoli inesistenti, rifiutandomi con tutta me stessa di guardarmi intorno per capire se mi sto davvero allontanando da quella creatura.

Arrivati davanti ad un mausoleo imponente lei mi indica una tomba, concitata. E lì la vedo. La rosa bianca di cui ho bisogno. È adagiata davanti ad una lastra di marmo, che reca scritte argentate. Nel buio riesco a leggere confusamente il nome: Aurora Vallisneri.

“Presto! È qui!”, esclama agitata. Esco all’aria aperta, stringendo convulsamente la rosa nella mano sinistra. Sento le spine penetrare a fondo nella mia pelle e il sangue che scorre fuori dalle ferite, più abbondante di quanto non mi aspettassi. Lo sento gocciolare accanto ai miei piedi.

Lui mi aspetta lì. È poco distante, immobile, mi fissa con quegli occhi rossastri, crudeli, inquietanti.

Il vento freddo soffia di nuovo, schiaffandomi i capelli sul viso e appiccicando i vestiti al mio corpo. L’essere non ne sembra minimamente affetto. Tremando violentemente mi avvicino a lui. Ho paura. Tantissima paura. Più di quanta non ne abbia mai avuta in vita mia.

Un altro passo. Lui non si muove.

Ancora uno. Lui resta fermo.

Poi l’equilibrio si spezza. Io gli corro incontro e lui fa lo stesso. Ci scontriamo a metà strada, sotto gli occhi impotenti della dama candida. La creatura d’oscurità mi circonda il collo con le sue mani putrescenti e odoranti di cadavere, stringendo lentamente. Il fetore del suo respiro mi colpisce le narici, togliendomi lucidità: sto soffocando, lui è troppo forte. Mi solleva da terra, continuando a schiacciare sulla trachea. Un pensiero improvviso mi attraversa la mente.

Sto morendo.

Sto morendo e non sono riuscita a fare nulla per fermarlo. È…ingiusto.

Con un guizzo repentino sollevo la mano sinistra, che ancora regge la rosa, e la spingo con decisione dove penso si trovi la bocca, in quel viso di tenebra. Per chissà quale miracolo centro il mio obiettivo, ed infilo profondamente la rosa in quella cavità disgustosa.

La creatura si contorce, lasciandomi libera, e tenta di strappare via quel fiore immacolato. Senza quasi sapere cosa sto facendo mi avvicino ancora a lui, mettendo una mano sulla rosa e spingendo di nuovo, per impedirgli di liberarsene.

Improvvisamente vengo travolta da immagini ed emozioni. Non mie.

 

Sta raggomitolato sul suo letto. Le lenzuola sono sporche, mandano un cattivo odore, che lo nausea. Le mosche gli ronzano intorno, uniche compagne di camera.

Non ha fatto niente, è stato il vento a far cadere quel vaso che mamma adorava. Papà si è ferito leggermente i piedi con i cocci, ma neanche quella è colpa sua. Eppure l’hanno picchiato, tanto. Urlavano forte, parole cattive, che non voleva comprendere: parole che puzzavano d’alcool. Aveva sentito il sangue scorrere giù da un lato della testa, l’osso del braccio spezzarsi, dolore diffuso in tutto il suo magro corpicino. Non capiva cosa avesse fatto. Non si era mosso, come gli avevano chiesto. Ma papà e mamma non gli avevano creduto. L’avevano chiamato disgrazia, abominio, demonio. Solo perché è nato deforme, diverso da tutti gli altri bambini. E allora i genitori non lo vogliono: davanti a lui si chiedevano perché lo stessero ancora tenendo in casa loro. Dicevano di volerlo mandare via. Lui non riusciva a parlare. Non voleva capire quello che avevano detto, avrebbe fatto troppo male.

Così resta buono in quella stanza sconosciuta, aspettando una mamma ed un papà che non arriveranno mai. In quello spazio angusto lui si sente solo. Tremendamente solo. Non vuole stare da solo. Ha paura.

Ha soltanto nove anni, e sta morendo in una camera estranea.

Da solo.

 

Le lacrime cominciano a scorrere sul viso, mentre la comprensione si allarga davanti ai miei occhi. Guardo la signora di luce che mi ha guidato fin qui. “Mi dispiace.”, sussurra addolorata. “Ma è l’unico modo.”.

Lo so. Annuisco senza risentimento, e lei si dissolve come perle di polvere trascinate via dal vento.

Io riporto lo sguardo su di lui, il bambino che si è trasformato in un mostro. Con la rosa non potevo distruggerlo; essa serviva ad altro.

Il bianco come l’anima innocente che un tempo aveva, il mio sangue che la sporcava e che creava un canale tra me e lui. E la bocca, la porta della comunicazione.

Dovevo soltanto vedere le sue memorie. E capire. Per poi fare ciò che era necessario.

Sorrido tra le lacrime, rendendomi conto dell’enormità di quello che sto per intraprendere.

Lentamente lo abbraccio, lasciando che il mio corpo aderisca perfettamente con il suo, fatto di buio. È come affondare il viso in un cuscino troppo morbido.

Lui tenta di muoversi, di divincolarsi, ma io lo stringo più forte.

“Non sei da solo. Non sei più da solo. Ora ci sono io, e non ti lascerò. Te lo prometto.”, bisbiglio accanto a quello che dovrebbe essere il suo orecchio.

Smette di agitarsi, apparentemente stupito. L’unico suono che lacera il silenzio è il mio respiro, incredibilmente calmo. Non ho più paura, ora.

“Non ti lascerò più da solo.”, ripeto.

Lui comincia ad emettere rumori spezzati, penetranti, che ad una persona non coinvolta in questa vicenda potrebbero sembrare paurosi ed inquietanti.

E invece sta singhiozzando. Lo posso sentire distintamente, mentre le sue mani raggrinzite mi circondano il corpo e il suo capo si abbandona sulla mia spalla. Benché bambino un tempo, quella creatura è alta.

All’improvviso una luce si genera intorno a noi due, tra noi due, ovunque. Si infila tra i miei capelli, nel suo mantello di oscurità, nel mio corpo e nel suo corpo.

È una luce che purifica, una luce che brucia. Una luce fatta per dissolvere ciò che deve sparire.

Noi due, insieme.

E mentre la luminosità si fa sempre più forte io avverto il corpo diventare incredibilmente leggero, al punto che mi sembra di fluttuare.

L’ultimo pensiero cosciente vola verso quella tomba accanto alla quale mi ero addormentata neanche un’ora prima, in un’altra vita.

La tomba del mio bambino.

Il bambino che troppo presto se ne era andato, ucciso da una malformazione cardiaca.

La mamma sta arrivando, tesoro mio. Non sei solo.

“Non ti lascerò solo.”, soffio un’ultima volta.

Infine la luce si fa accecante. E tutto sparisce.

 

Cammino rapido tra le tombe. Oggi è il primo novembre e la ressa è insopportabile. La gente mi guarda, forse offesa dal mio passo troppo veloce o dal mio sguardo poco addolorato.

Ma non sono qui per questo.

Mi avvio senza indugi verso il mausoleo di famiglia, la mente piena di dubbi che si avvicendano frenetici. Quando arrivo in prossimità della mia meta sono costretto a bloccarmi. Una massa incredibile di gente mi sbarra la strada, circondando una piccola zona del cimitero che non riesco a vedere. Intuendo cosa sia mi avvicino di più, spintonando anche, finché raggiungo il mio scopo.

Una considerevole zona del terreno è delimitata da un lungo nastro della polizia. Fotografi ficcanaso scattano foto all’impazzata, illuminando la giornata nuvolosa con i loro flash. Un telo bianco copre un corpo, dal quale sporge solo qualche ciocca di capelli scuri. Gli uomini delle forze dell’ordine si muovono intorno, apparentemente senza scopo preciso. Chi misura, chi discute, chi osserva.

Ascolto le parole dei pettegoli di turno.

“Dicono che l’ha trovata stamattina il custode e…”.

“…non hanno idea di come sia morta…”.

“…era giovane, venticinque anni, ho sentito…”.

“…è incredibile, non si capisce come…”.

Il chiacchiericcio come al solito regna sovrano. Le persone non sanno trattenere la propria curiosità in presenza della morte. Ma tutte le indiscrezioni confermano quello che già avevo immaginato.

Volto le spalle al macabro spettacolo e ritorno sui miei passi, dirigendomi verso il mausoleo.

Raggiungo la tomba per la quale ho portato dei fiori e li poso davanti alla lastra marmorea, lentamente.  Mi soffermo un attimo a leggere il nome di colei che è la capostipite del nostro lignaggio, colei che per prima era stata depositaria del “Sangue dei morti”: la capacità di parlare con i defunti della propria famiglia.

Aurora Vallisneri.

Quando lei mi aveva chiamato, il mattino precedente, chiedendomi di portare una rosa bianca sulla sua tomba, all’inizio non avevo compreso.

Capitava raramente che la mia famiglia usasse il “Sangue dei morti”, perciò mi ero precipitato immediatamente ad eseguire ciò che mi era stato richiesto.

Lei aveva spiegato solo quando mi ero trovato di fronte alla sua tomba.

Aveva detto che il mangia-anime doveva essere sconfitto, che non riusciva più a sopportare che lui divorasse le anime nere dei bambini ogni singolo anno.

Mi ero offerto io di farlo. Non avevo paura. Il possedere il “Sangue dei morti” mi aveva preparato a quest’eventualità fin da quando ero piccolo. Ma lei aveva scosso la testa.

“Non capiresti.”, aveva detto.

E quindi mi ero rassegnato.

Quest’oggi sono venuto per controllare se tutto è andato a buon fine. Vista la morte che si è verificata, presumo di no.

“Ti sbagli, Alessandro. Lei è riuscita dove tu avresti fallito.”, dice la voce di Aurora in risposta ai miei pensieri. Mi sento un po’ piccato per quest’affermazione. Non sono un incapace.

“Non è per questo. Solo il dolore di una madre che ha perduto un bambino poteva far comprendere ciò che era necessario fare. Ha dimostrato un grande coraggio e, soprattutto, un grande cuore.”. Il suo tono tuttavia è dispiaciuto, lo sento. È stata lei a farla addormentare, lei  ha voluto la presenza di quella donna. Ma non è felice che sia morta, anche se era indispensabile. Lo stesso vale per me.

Chino il capo, umile. Ed un pensiero mi fulmina in tutta la sua veridicità.

L’amore può arrivare dove la mente si perde.

 

 

 

 

 

*Note dell’autrice*: Per prima cosa ringrazio tutti coloro che leggeranno e/o commenteranno questa one-shot senza pretese.

So di avere affrontato una tematica forte ma spero di non aver offeso o urtato la sensibilità di nessuno.

 

Questa storia, oltre ad essere fine a se stessa, vuole essere anche una denuncia verso i maltrattamenti sui bambini, che purtroppo affollano quasi quotidianamente la cronaca nazionale. Benché la nostra società si definisca “progredita”, le zone d’ombra continuano ad esistere.

Immagino che tutti voi abbiate capito il senso metaforico di questa vicenda, volta ad esprimere due diversi atteggiamenti parentali, totalmente opposti.

Ripeto, non è mia intenzione offendere o urtare, la trama si è originata nella mia mente in modo indipendente e si è sviluppata in una certa direzione a seguito del mio sdegno per certi fatti che si verificano troppo spesso.

Commenti e critiche sono più che ben accetti, in questa one-shot ho messo come sempre grandissimo impegno, e vorrei capire se incontra gradimento oppure se vi risulta orribile. Vi ringrazio in anticipo!

Baci, chiaki

   
 
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