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Autore: willHole    10/09/2010    3 recensioni
Il giovane Drago costretto a fare i conti con la propria vita, fra esperienze al limite della tragedia e momenti di serenità, in un continuo altalenarsi di luce e di tenebre.
Il giovane Drago che ama le fiamme e sfoga la propria rabbia nel fumo, che cerca di svincolarsi dalla propria città come da una camicia troppo stretta e alla fine, forse, ci riuscirà.
Il giovane Drago che ha bisogno di assoluto, di spazi, di cieli limpidi dove volare: un giovane Drago che sogna un rifugio e che alla fine, forse, saprà sentirsi a casa.
Un racconto che vorrebbe cristallizzare le stranezze e i drammi di un'esistenza sfortunata, alle prese con la ricerca di sè e la consapevolezza della mancanza di un appiglio. E, allo stesso tempo, un racconto che vuole legare la speranza al dramma: perché nell'affresco dell'infinita varietà del mondo, nessuno è davvero solo.
Questa storia ha partecipato al concorso "La Stazione e... il Drago" indetto da Eylis.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Un enorme grazie a Zalk909192 per i suggerimenti, le idee e gli spunti che mi ha fornito mentre ero impelagato fino al collo nella stesura di questa storia, e non sapevo che pesci pigliare. :D


Buona lettura!


Storia di un Drago metropolitano

 

 

Storia di un Drago metropolitano

 

 

C’è una stazione.

Un grande snodo ferroviario, brulicante di attività umane. I treni arrivano a frotte, rigurgitando sul cemento nugoli di passeggeri vocianti. La folla sciama nell’enorme ambiente, a gruppi casuali che tendono sempre ad allontanarsi gli uni dagli altri, dividendosi e suddividendosi in frammenti sempre più piccoli di umanità.

I viaggiatori si guardano intorno, taluni con aria spaesata - si tratta dei nuovi arrivati, solitamente turisti ansiosi di ammirare le meraviglie architettoniche della grande città-, talaltri confidenziale, quasi familiare  - e sono questi i residenti nella città, per cui la stazione è una vecchia amica, punto di partenza, sì, ma soprattutto di arrivo e di ritrovo con l’inconfondibile aria di casa.

Drago è un tipo che queste cose le nota, tutte.

La sua giornata, del resto, sarebbe molto noiosa se egli non avesse la possibilità di osservare con occhi acuti l’umanità variamente sfaccettata che ruota intorno a lui, ammirandone o disprezzandone i piccoli gesti, gli sguardi, i movimenti.

Se ne sta in una posizione un po’ defilata, Drago, seduto spesse volte su una panca accostata alla parete, in un punto da cui gode di una vista perfetta su una ventina di binari: si alza raramente, e quando lo fa, per esigenze impellenti, è rapido a sedersi di nuovo.

Vuole evitare di attirare troppo l’attenzione della gente su di sé. Ne ha avuto abbastanza, delle attenzioni della gente, in questi pochi anni di vita – ma si poteva davvero chiamarla vita?- che l’hanno condotto fin là, seduto su quella panca, in quella stazione rumorosa e affollata.

 

I pensieri si affollano e si rincorrono nella mente del ragazzo proprio come i passeggeri nella stazione; i ricordi si accavallano, frapponendosi gli uni agli altri, confondendosi e schiarendosi in un turbinio di immagini sfaccettate.

Drago scuote la testa, seccato con la propria mente che, nonostante tutto, continua a proporgli le stesse sconvolte memorie, quelle fotografie ancora e sempre vivide di un passato quasi presente, troppo vicino per essere dimenticato.

Eppure lui non vorrebbe ricordare. Sono anni che tenta ogni strada per cancellare dal suo cervello i percorsi del vissuto, per eliminare e buttare in un ipotetico cestino tutta l’immondizia della propria esistenza.

Cerca di concentrarsi su qualcos’altro. Osserva con attenzione spasmodica il defluire dei passeggeri scesi dall’Intercity delle quindici e diciotto, vede una ragazza con le Superga slacciate, una vecchietta bianca e fragile con un bizzarro cappellino azzurro, un distinto signore con i baffi che gira la testa da destra a sinistra come in cerca di qualcosa.

Gli sembra di essere riuscito a distrarsi, tira un piccolo sospiro di sollievo e si guarda le scarpe, strusciando i piedi sul grigio sporco della pavimentazione.

Ma appena smette di indirizzare tutta la propria concentrazione su ciò che lo circonda, ecco che ricompaiono le immagini. Sono sempre più dense, si affollano e reclamano con sempre maggior insistenza l’attenzione che meritano.

E a Drago non resta altro che ricordare.

 

***

 

 

 

 

 

 

Il suo primo ricordo appartiene ad una grande casa in una piccola città, una vecchia dimora signorile con un enorme giardino e una sovrabbondanza di ortensie e di peonie, che inframmezzavano il verde di tenui note cromatiche, dall’azzurro al carminio, dal rosa al violetto.

Il piccolo Drago, che ancora non si chiamava così, caracollava i suoi primi passi esitanti verso le mani tese di un anziano signore: ogni sforzo fatto dal bimbo per avvicinarsi all’uomo era da lui ricompensato con un grande sorriso luminoso, che gli increspava di minutissime rughe di espressione l’intero volto, a partire dagli angoli dei piccoli occhi azzurri.

Il bimbo era felice: all’epoca, tutto era un gioco, un grande, sorridente gioco luminoso in cui ogni tentativo era concesso e non si perdeva mai. Il contatto con il mondo non poteva essere negativo. Tutto brillava e luccicava, promettendo al giovanissimo Drago un’unica, gioiosa vittoria sull’universo circostante.

 

Tutto cambiò quando, essendo il bimbo ormai diventato un magro ragazzetto di otto o nove anni, l’anziano signore decise che era tempo di rendere partecipe della verità colui che considerava sì suo figlio, ma tale, purtroppo, non era.

Drago aveva impiegato molto tempo a metabolizzare la notizia che il simpatico vecchietto che aveva sempre chiamato nonno in realtà non era neppure suo parente.

Si trattava, così gli aveva spiegato in un tardo pomeriggio di inizio maggio, mentre fuori dalla finestra il sole scaldava il prato e un’ape ronzava delicatamente vicino alla zanzariera, del medico che aveva assistito la sua vera mamma prima della sua nascita.

Solo molto più tardi Drago avrebbe imparato che il nonno adottivo era l’eminente primario del reparto di Ginecologia e ostetricia dell’ospedale della sua cittadina: in quel momento, capiva soltanto che era un dottore, uno di quelli che aiutano a far nascere i bambini. E che aveva aiutato proprio la sua mamma a dare alla luce lui.

A poco a poco, per gradi e con estrema delicatezza, l’anziano medico ormai in pensione riuscì a raccontare a quel bimbo timido dai grandi occhi spauriti tutto sulla sua venuta al mondo.

Non omise alcun dettaglio, neppure i più dolorosi, per evitare di dover ritoccare in seguito la propria versione dei fatti. Riteneva, professionalmente ed umanamente, che non si dovesse edulcorare alcuna pillola prima di assumerla: faceva della chiarezza e della sincerità un punto d’onore e mai, per nulla al mondo, avrebbe mentito alla persona per cui provava l’affetto più tenero e il trasporto più veritiero.

Raccontò così al giovane Drago che i genitori, due ragazzetti immaturi per i quali la sua nascita non era stata altro che un incidente di percorso sul sentiero sconfinato dell’esistenza, l’avevano abbandonato in ospedale pochi giorni dopo la sua nascita. La madre, una giovinetta di poco più di sedici anni, terrorizzata dalla portata di ciò che le stava capitando, avrebbe voluto abortire: ma la nonna del bimbo, una cattolica fervente, gliel’aveva impedito recisamente.

Dopo il parto, tuttavia, avvenuto in una clinica privata per non destare scalpore, la raffinata signora non aveva esitato ad abbandonare il neonato alle dipendenze di chiunque avesse voluto prendersene cura, per poi fuggire con la figlia, ancora sconvolta, e il marito, avvolto in una maschera di tristezza.

Pochi giorni dopo anche la famiglia del padre –un diciassettenne timido e ancor più immaturo della ragazza con la quale aveva generato la vita- si era trasferita in fretta e furia, in affitto presso degli zii di Firenze. Avevano persino lasciato i due cani nel giardino della propria casa: non avrebbero potuto portarli con sé nel nuovo appartamento e, allo stesso tempo, la fretta di allontanarsi era tale che sarebbe stato impossibile trovare loro una nuova collocazione.

Il piccolo Drago ascoltava con un’espressione a metà strada tra la tristezza e la perplessità: soprattutto, non riusciva a capire le ragioni di una simile scelta. Che senso aveva partire e lasciare ciò che avevano costruito –“Me stesso” pensò, con un brivido di consapevolezza che lo scosse tutto- in balia degli eventi?

Il nonno non esitò a spiegargli con precisione quasi scientifica tutti i motivi che potevano averli spinti a un simile gesto: dalle imposizioni della famiglia, al trasferimento cui erano stati pressoché costretti per non incorrere nelle occhiate accusatorie dei compaesani, e nel rischio ancor più grave di incontrare il proprio figlio, cresciuto, per le vie del centro.

 

Le rivelazioni avrebbero potuto distruggere il ragazzino che le ascoltava, ma gli occhi dell’anziano medico non si erano mai spenti di quella lucente fiamma vitale che leniva e addolciva ogni ferita.

Al termine di quel lungo pomeriggio, durante il quale non aveva fatto che ascoltare, Drago si strinse con più affetto che mai al vecchio signore. “Ti voglio bene, nonno” sussurrò, e gli occhi dell’anziano medico si inumidirono leggermente di lacrime di tenerezza.

 

***

 

Quando, quindici anni dopo la sua nascita, l’eminente ginecologo era morto di un infarto improvviso, Drago aveva creduto di non riuscire a fronteggiare il dolore. Quando ripensava al suo unico, vero amico, che contemporaneamente era anche l’unico sostegno della sua vita, l’unico parente e l’unico conforto, vedeva solo una fiamma, dapprima alta e potente, che si spegneva lentamente in un lago di ceneri smosse dal vento.

 

Per anni, dopo quell’evento ingiusto, mentre girava di casa in casa, aiutato o penalizzato dai servizi sociali per quei lunghi mille giorni che lo separavano dalla maggiore età, non riusciva a provare altro che una profonda quanto inguaribile tristezza.

Le assistenti sociali lo trattavano con gentilezza, era vero, ma tutto il resto del mondo sembrava trascolorare in un abisso di oscurità.

Non c’era più luce, non c’era più vita, non c’era più nulla di quei grandi sorrisi che il mondo gli aveva rivolto mentre muoveva i suoi primi passi.

Ora, le tenebre sembravano aver preso il sopravvento.

 

***

 

La prima casa in cui era finito era piccola e sporca. C’erano un minuscolo tinello con una cucina a gas, un bagno angusto e una stanza dalla funzione indefinibile in cui erano accatastati mucchi di cose. Un grosso apparecchio televisivo faceva bella mostra di sé su di un mobiletto di compensato, mentre un divano rivestito di un tessuto verde molto liso sembrava appoggiarsi mollemente al linoleum graffiato e rovinato.

Tutto era sordido e squallido: Drago non ne ricavava altro che un’impressione di gretto sudiciume, anche se le assistenti sociali gli scoccavano grandi sorrisi assicurandolo che sarebbe stato benissimo.

Dopo circa un anno di vita passato a lavare i piatti e a dormire su una scomodissima branda alta venti centimetri da terra, Drago era ormai diventato un sedicenne magro e allampanato.

I servizi sociali lo trasferirono ad un’altra famiglia. Né lui né la grassa signora che l’aveva ospitato piansero, ma si salutarono con un abbraccio che aveva molto di artefatto e giusto una punta di sincerità.

 

Il secondo nucleo familiare che lo ospitò era quello di un trentenne, che si guadagnava da vivere facendo piccole riparazioni in una grande officina. Non aveva nessuna qualifica, ma lavorava bene, con coscienziosità e impegno, e i clienti lo apprezzavano.

Dopo qualche settimana di convivenza con il ragazzo senza genitori, il giovane meccanico gli propose di lavorare qualche ora, nel pomeriggio, presso la sua stessa officina.

Era un periodo in cui c’era evidentemente molto lavoro da sbrigare, e il proprietario era in cerca di manodopera a poco prezzo cui affibbiare i compiti meno complessi e più faticosi.

Drago, che non aveva nulla da fare e sentiva con evidente chiarezza il bisogno di sfogare un’energia ribollente dentro di sé, non se lo fece ripetere due volte: tempo un mese o due, aveva imparato i rudimenti del mestiere di meccanico, e guadagnato il suo primo, esiguo stipendio.

Il suo ospite l’aveva guardato con una certa soddisfazione, e gli aveva proposto con un sorriso d’incoraggiamento di comprarsi qualcosa, come ricompensa.

Drago l’aveva guardato con un po’ di perplessità, dichiarando subito dopo che intendeva mettere da parte il denaro appena ricevuto per qualcosa di importante.

Il giovane meccanico non indagò, limitandosi ad annuire e a sorridere ancora, contento che quel ragazzo  che aveva avuto tanti traumi dalla vita fosse ancora in grado di fare progetti e di avere idee e speranze per l’avvenire.

Passò un anno, e Drago era ormai diventato molto abile con i ferri del mestiere. Nessuna chiave inglese, nessuna vite e nessuna candela avevano più segreti per lui, e il proprietario dell’officina aveva preso ormai da qualche tempo ad assegnargli intere riparazioni.  Il giorno in cui il diciassettenne riuscì a portarne a termine una completamente da solo, senza alcun aiuto da parte di terzi, giunse a casa portandosi dentro una soddisfazione pacata, matura.

 

Il giorno dopo raccolse tutti i soldi di cui disponeva e, preso da un raptus improvviso, li spese in un centro tatuaggi per un enorme dragone che spalancava le ali sulla sua spalla destra.

Arrivato a casa, si osservò a lungo nello specchio e, per la prima volta da anni, si addormentò sereno.

 

***

 

Dopo la tristezza, con la maggiore età venne il tempo della rabbia. Aveva cambiato molte altre famiglie: nell’ultimo anno, forse per il suo carattere diventato improvvisamente più scontroso e in generale ancor più chiuso, non era riuscito a istaurare quei rapporti umani che le assistenti sociali ritenevano fondamentali per la sua crescita umana.

D’altra parte, Drago non avrebbe mai voluto essere amico di persone come quelle.

 

In una delle case che aveva abitato –le ricordava cupe e sporche, avvolte nel ricordo da una cornice di bruma che le rendeva ancora più irreali- il marito picchiava ogni sera la moglie. La donna, piccola e fragile, piangeva silenziosamente, nascondendo i lividi e gli ematomi sotto gli abiti: sembrava del tutto incapace di denunciare il marito, che accoglieva ogni sera con un sorriso timido ed eroico.

Drago ne era disgustato.

Una sera, l’uomo, più ubriaco del solito, era tornato a casa sbraitando contro la moglie: urlava che l’avrebbe uccisa, quella buona a nulla che non portava a casa un soldo e si faceva mantenere da lui.

La donna, la sentiva, piangeva sommessamente sotto le urla del marito.

Poi, cominciarono le botte: quella volta erano evidentemente più violente del solito, perché la moglie non riusciva a trattenere i gemiti di dolore che le procuravano i colpi del mostro.

Una rabbia cieca si impossessò di Drago che, immobile nel suo letto, udiva quei suoni orribili: si alzò rapido e, ombra tra le ombra della notte, armato di una bottiglia di vetro, si insinuò non visto nella camera dei coniugi. La donna era raggomitolata sul letto, impotente ed immobile, mentre l’uomo, al suo confronto un gigante, incombeva su di lei.

Drago non pensò a nulla: si limitò ad abbattere la bottiglia, con tutta la forza di cui disponeva, sulla nuca dell’uomo.

 

La donna rimase per un tempo indefinito stesa sul letto, tremante, percorrendo con lo sguardo il corpo svenuto del marito e facendo guizzare gli occhi, a tratti, su Drago.

Non ringraziò il suo ospite, non ammise nemmeno con se stessa che l’uomo che nonostante tutto amava avrebbe potuto ucciderla se non fosse intervenuto in sua difesa quel ragazzo pallido.

Era così completamente succube del marito che non gli impedì nemmeno, una volta che si fu ripreso, di denunciare Drago per aggressione.

I servizi sociali non vollero sentire le ragioni addotte dal giovane: anche le assistenti, che prima sembravano a Drago un capolavoro di gentilezza umana, chiusero gli occhi di fronte alla verità, solo perché veniva dalla bocca di un ragazzo difficile.

Lo fecero parlare con una psicologa dal rossetto color ciclamino, che dichiarò che il ragazzo aveva senz’altro problemi nel contenere le sue emozioni.

Drago fu trasferito presso un’altra famiglia, e poi presso un’altra ancora: per un motivo o per l’altro, sembrava non essere in grado di resistere per più di un mese nello stesso nucleo familiare.

 

***

 

Una furia indefinibile prendeva a tratti possesso di lui, come una nube temporalesca copre d’inverno il cielo sereno, ma la vera rabbia, quel furibondo istinto di distruzione che lo caratterizzò a lungo, scoppiò improvvisa quando il proprietario dell’officina lo informò che non aveva più bisogno dei suoi servizi.

Il giovane ed impulsivo Drago percepì il licenziamento non solo come un’offesa personale, ma anche e soprattutto come una presa in giro ed una mancanza di fiducia.

Per molte settimane la rabbia, covata a lungo e fortificata dal lento crogiolarsi nei pensieri di vendetta, prese il sopravvento, e Drago passò alcuni mesi a vandalizzare i giardini pubblici, estirpando altalene e inveendo silenziosamente contro la propria infinita e sconsolante solitudine. In quei momenti, solo per la durata minima dell’atto di violenza, si sentiva forte ed adulto, ma ricadeva poi, immancabilmente, nel baratro insanabile di un’oscura acredine verso l’universo che lo circondava.

 

Poi, cominciò a fumare, e con la prima boccata e la prima fiammata di accendino la rabbia evaporò, come travasata in quei piccoli cilindretti di carta e tabacco che ardevano e si consumavano uno dopo l’altro.

Quando, una settimana dopo, ebbe finito il secondo pacchetto di Lucky Strike, gli parve che quella rabbia irrefrenabile che l’aveva animato così a lungo fosse completamente scomparsa, dissipata nell’aria insieme al fumo delle sue sigarette.

Al suo posto, apparve una piromania che lo portava a trasformare in fiamma quasi tutto ciò che vedeva: lo spirito vandalico si era però dissolto insieme al furore, e da allora non compì mai atti che danneggiassero i luoghi pubblici.

Ripensando ai momenti in cui si era sentito così vividamente giovane nel rompere e rovinare, si sentiva solo inguaribilmente stupido: ormai, l’ansia di distruggere si era tramutata nell’arte del fuoco applicata a ciò che trovava di più inservibile.

Un pacchetto di sigarette vuoto, una cartaccia fatta rotolare dal vento, la maglietta, sporca e slavata, che indossava il giorno della morte del medico furono i primi oggetti che fece sparire, avvolti dalla furia delle fiamme.

Mentre osservava le lingue di fuoco guizzare intorno a quei frammenti di nulla che l’uomo travestiva da realtà, non pensava: ammirava soltanto il potere purificatore di quell’incendio controllato, l’ardore bruciante che distruggeva e annichiliva senza violenza, trasformando nell’arte effimera di un bagliore l’immondizia di una vita.

Da allora, il fuoco fu suo amico, e le fiamme dello spirito divamparono vivide nel suo cuore.

 

***

 

Fu in quei momenti che il ragazzo cominciò a pensare a se stesso come Drago.

Aveva da poco terminato di leggere un libro preso in prestito in biblioteca, una storia fantasy molto infantile che era però riuscita ad affascinarlo profondamente: nel racconto, un drago giovane e immaturo trovava finalmente la sua strada nella vita allontanandosi dalla caverna dov’era nato, sfruttando solo le proprie doti per sopravvivere nel grande mondo che lo circondava.

Volando, aveva oltrepassato città e sorvolato laghi dalle acque cristalline; si era lasciato alle spalle monti e foreste, pianure e campagne assolate. Alla fine, spossato, il giovane drago si era fermato, e aveva fatto della radura dov’era atterrato il suo rifugio e la sua casa.

 

Drago ormai era adulto, un giovane diciannovenne slanciato e cupo, che non aveva legami né radici.

La città dov’era stato costretto a vivere tutti quegli anni lo lasciava del tutto indifferente.

Camminando per le strade, si sentiva pervaso da un senso profondo di assenza: respirava e camminava, fumava e camminava, pensava e camminava, calpestando il selciato che conosceva da quando era nato, e si sentiva un estraneo.

Conosceva ogni asperità della via centrale, dove aveva passato innumerevoli nottate di solitudine, in cerca di quiete dalle follie del mondo; sapeva con precisione quale strada prendere per evitare i folti gruppi di suoi coetanei, quelli “normali”, che bighellonavano senza meta con aria amichevole, ma che una volta, quand’era più giovane, gli avevano urlato cattiverie indicibili; era intimamente consapevole di ogni segreto celato tra le pieghe della città.

Eppure, Drago non si sentiva per niente a casa.

L’idea di essere un apolide, un viaggiatore continuo, uno di quegli esseri incapaci, per costituzione o fisiologia, a radicarsi stabilmente in un luogo, lo solleticava molto. Era forse per questo che la piccola storia del drago fuggito dall’ambiente natale aveva suscitato in lui sentimenti così forti di sintonia.

L’amore per le fiamme e il tatuaggio sulla spalla suggellavano la sua intima essenza di drago metropolitano, quel suo essere a volte così poco umano, e allo stesso tempo così straordinariamente diverso da tutti quelli che conosceva.

Lo scoprì solo molto più tardi, ma quando in un istante di follia aveva dilapidato i suoi guadagni nel centro tatuaggi, in realtà stava solo cercando un modo per esprimere la propria natura: aveva scelto un’immagine che rappresentasse ciò che a parole non sarebbe mai riuscito ad esprimere, un simbolo di vita e rinascita che svettasse luminoso tra le macerie della propria esistenza.

 

***

 

Tre anni dopo, Drago era un ventiduenne senza lavoro e senza denaro. L’eredità del nonno adottivo si stava esaurendo in fretta: il medico, pur decisamente benestante, aveva dovuto dividere i suoi lasciti tra alcuni nipoti, che erano stati lesti ad arraffare la villa, vendendola subito dopo, e il giovane Drago, cui era rimasta solo una piccola cifra.

Da quando aveva compiuto diciotto anni ed era rimasto senza impiego, aveva però dovuto mantenersi completamente da solo: e i soldi erano sfumati in fretta nelle piccole grandi spese della vita quotidiana.

Il giovane pensava sempre più di frequente al suo desiderio di fuga.

La notte, i suoi sogni e i suoi incubi erano popolati di grandi ali squamose e di vampate di fuoco che lo conducevano lontano; immaginava se stesso in luoghi lontani, impegnato nel nulla onirico di un’esistenza serena ed oziosa.

Sognava, certo: ma i sogni, a volte, sono più veri della realtà che viviamo durante il giorno.

Drago desiderava disperatamente alzarsi in volo e fuggire dalla propria vecchia città, che non gli aveva restituito niente di tutto il tempo che vi aveva sprecato. Era una brama ogni giorno più violenta, una cupidigia che lo conduceva ad una decisione ardente e definitiva.

 

Fu così che un giorno, raggranellate le ultime banconote in suo possesso, si diresse in stazione e salì sul primo treno per Roma.

Abbandonato mollemente sopra al sedile lurido, avvolto in un vecchio giubbotto quasi altrettanto sporco, Drago chiuse gli occhi, diede mentalmente l’addio alla propria città e si addormentò.

Dopo pochi minuti, i suoi occhi si mossero rapidi sotto le palpebre abbassate, e un minuscolo sorriso gli incurvò gli angoli della bocca.

Nella sua mente, un enorme drago sfrecciava gioioso in un cielo ardente di luce.

 

Dopo cinque ore, Drago era giunto alla stazione Termini. Scarmigliato dal sonno, il viaggiatore scese pesantemente sul binario, e si guardò intorno con aria esterrefatta.

Tutto, dalla folla vociante all’edicola colorata, dai bagni pubblici fino agli enormi tabelloni delle partenze, gli parlava di novità e di calore.

Come il drago del suo libro, aveva trovato la grande radura in cui poteva condurre da solo una vita di libertà.

 

***

 

Ora, Drago ha ventisette anni e vive alla stazione di Roma.

Gli ci è voluto un po’ per abituarsi al rumore e al traffico continuo di persone e di cose, ma ora, per la prima volta da quando è nato, si sente tranquillo e protetto.

Sembra strano dirlo, ma in quel luogo in cui è arrivato cinque anni prima quasi per caso, spossato da un’esistenza di piccoli e grandi drammi, Drago si sente a casa.

Il ragazzo continua ad amare le fiamme: ha sempre un accendino in tasca, e talvolta incendia ancora una cartaccia, ammirando il fuoco che sembra corroderla pian piano, sfrigolando di piacere.

Prova ancora la stessa sensazione di puro annullarsi della realtà nella furia controllata della fiamma, ma, da un po’ di tempo, sente anche che la realtà non è tutta nera.

Nonostante l’assenza dei genitori, nonostante la morte orribile ed ingiusta del vecchio nonno, nonostante l’odio verso le famiglie cui è stato affidato, nonostante tutto il buio che ha dovuto assorbire, Drago percepisce oltre le cortine della notte il timido bagliore di una giovane alba.

É tutto così strano ed assurdo, se ci pensa.

Eppure la vita prende a volte strane pieghe: quando pensi che tutto sia perfetto, si abbatte su di te un’enorme meteora, una catastrofe che ti annichilisce tanto che non sai più cosa fare. E poi, proprio quando pensi che il macigno non si solleverà più dal tuo cuore o dalla tua anima, ecco che d’improvviso riesci a muoverti, e ti sembra di riemergere dalla terra in cui eri sepolto e di tornare finalmente a respirare.

La vita è fatta proprio così, riflette Drago ogni mattina, svegliato dai primi rumori della stazione.

Si alza con calma dalla panchina e va da Mario, che ha un piccolo bar all’angolo e non si fa problemi ad offrirgli una brioche e un caffè per colazione. Ormai lui e il vecchio gestore sono amici, e a volte giocano a dama insieme.

Mario non lo sa, ma Drago, che si sente sempre in debito con lui, spesso lo fa vincere, muovendo a caso una pedina e facendosene soffiare un’altra. Ma va bene così, tutto fa parte del più grande gioco della vita in cui tutti sono coinvolti.

Drago è anche amico dell’edicolante e del tabaccaio che, strano caso, sono cugini.

Antonio, dopo una fase iniziale in cui provava uno strano timore per quel ragazzo apparso d’improvviso in stazione, ormai si è abituato alla sua presenza, e non potrebbe quasi farne a meno.

Ogni mattina, dopo che Drago è tornato dal bar di Mario, gli regala una copia della Gazzetta dello Sport. Il giovane la legge lentamente, centellinandosi quella lettura banale e ripetitiva che ha il potere unico di farlo sentire normale.

Quando ha finito, è tempo di un riposino: Drago ha scoperto che, se dorme dalle dieci alle tre, riesce ad ingannare lo stomaco, impedendogli di pretendere un pranzo che non potrebbe assolutamente permettersi.

Finita la siesta, il giovane è pronto per andare a salutare Corrado, che quando lo vede gli scocca un sorriso rude e affettuoso di sotto ai baffi brizzolati. L’anziano tabaccaio, perennemente seduto dietro al bancone, è forse colui che, nella stazione prova l’affetto più vero per il giovane.

Gli offre sempre una sigaretta, che per Drago è ancora la sintesi perfetta di valvola di sfogo, piacere concesso e balsamo protettivo: se ne accende una anche lui, lascia la moglie al bancone e si ritira con l’amico nell’angusto retrobottega.

Con il vecchio signore, che forse gli ricorda un po’ il nonno adottivo, Drago riesce persino a confidarsi: gli rivela alcuni particolari della sua vita, i suoi pensieri e i suoi sogni.

Corrado, forse, è anche un po’ mago e un po’ filosofo, perché sembra capire ogni cosa: addirittura quando Drago gli ha mostrato, un po’ imbarazzato, il grande tatuaggio sulla spalla, incapace di spiegargli compiutamente cosa rappresenta per lui, il vecchio tabaccaio si è prodotto in un largo sorriso.

- Forse –ha detto pensieroso- tu sei davvero più drago che uomo…-

Drago non ha più dimenticato quelle parole.

Dopo una lunga chiacchierata pomeridiana, il vecchio e il ragazzo si salutano con una vigorosa stretta di mano, e Drago ritorna alla propria panchina discosta dalle altre.

Si siede con calma, si accende un’ultima sigaretta (che Corrado riesce sempre a fargli scivolare in tasca prima che se ne vada) e si dispone con atteggiamento flemmatico a osservare la gente che, frettolosa, scende o sale dai treni.

 

Contempla i movimenti e gli sguardi, nota la carezza di una madre al proprio figlio e il rimprovero burbero ma affettuoso di un nonno al nipote; ammira la grazia spavalda con cui certe persone camminano, pensando che non sarà mai in grado di mostrarsi così sicuro di sé, e allo stesso tempo osserva la timorosa timidezza di molti altri.

Fa vagare lo sguardo, appuntandolo ora sul naso aquilino di una signora impellicciata, ora sugli occhiali rossi di una bimba coi codini: non cessa mai, nemmeno per un istante, di meravigliarsi per la prodigiosa gamma di individui che l’umanità riesce a produrre.

 

Seduto sulla sua panchina, mentre fuori il sole al tramonto colora di rosso e d’oro il cielo, Drago pensa che, tutto sommato, nessuno può biasimare la propria sfortuna se ha avuto la possibilità di ammirare, almeno una volta nella vita, l’incantevole varietà del mondo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTE DELL’AUTORE

 

Non so nemmeno dire se mi soddisfa, ma c’è da dire che l’ho scritta in tre giorni netti dopo aver cestinato un’altra bozza e aver ricevuto un’illuminazione da un’amica, quindi non mi biasimo troppo per la mancanza di un po’ di labor limae. =)

 

Due piccole note serie: la prima riguarda l’uso dei tempi verbali. Il presente storico nella prima e nell’ultima parte è voluto e cercato, e volutamente si contrappone ai tempi passati del ricordo. A loro volta, i flashback si connotano o per la presenza del passato remoto o per quella del trapassato: anche in questo caso, ho tentato di usare l’uno o l’altro con un certo criterio, per dare più o meno rilevanza e “lunghezza” temporale all’azione. Spero in tutto questo di non aver commesso errori grammaticali, dato che la rilettura è stata alquanto rapida.

In secondo luogo, il tema. L’intento era questa volta quello di creare una personalità, quella di Drago, il protagonista, che si trova a fare i conti con la vita.

Un protagonista molto, molto sfortunato (e qui sta l’originalità rispetto ai miei temi abituali), che attraversa fasi successive di luce e di oscurità, fino a trovare un nuovo equilibrio in un nuovo luogo (la stazione Termini di Roma), che sembra essere quanto di più lontano da un rifugio e che invece concede al giovane un po’ di serenità.

Nel procedere del racconto ho tentato di soffermarmi con particolare rilievo su alcuni  momenti di riflessione e di emozione che ho ritenuto significativi per sviluppare la personalità di Drago: uno di questi, che è poi il fulcro della storia, è proprio questo suo sentirsi intimamente drago, questo suo strano distacco dall’umano per suggellare la propria diversità (e lo fa appunto con il tatuaggio a forma di drago). Ho cercato di esprimere un concetto che io stesso trovo complicato: sono dunque consapevole del fatto che forse risulterà un po’ ostico decrittare compiutamente l’idea che il protagonista si fa del mondo e di se stesso.

In una seconda fase, tuttavia, e così si conclude la storia, Drago riesce a tornare nel suo involucro di uomo: osservando l’andirivieni frenetico che anima la stazione, la sua nuova casa, il giovane ammira intensamente la varietà sublime dell’umanità, riconducendosi da una sfera di estraneità ad una maggiore vicinanza con i suoi simili.

 

Forse, ora me ne rendo conto, mi sono un po’ dilungato. A dire il vero, come sempre, non sono nemmeno sicuro di essermi spiegato; e tuttavia, come ogni volta, spero che basti la storia a parlare per me (e per il mio bizzarro e contorto Drago, che sta sfuggendo di mano anche al suo inventore =)).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  
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