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Autore: Manny_chan    11/09/2010    8 recensioni
Erano rimaste poche le cose vive in quel mondo…
I grandi saggi lo dicevano che la tecnologia non avrebbe portato nulla di buono. Mai previsione fu più azzeccata...

Settima classificata al Contest: La Stazione... E il Drago
Genere: Dark, Fantasy, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Erano rimaste poche le cose vive in quel mondo…
I grandi saggi lo dicevano, che la tecnologia non avrebbe portato nulla di buono. Mai previsione fu più azzeccata.
Le prime città non fecero molti danni; ma durante i secoli queste crebbero, a dismisura. Gli uomini cercavano la loro prosperità a discapito di ogni altra creatura.
La prima razza ad estinguersi fu quella degli elfi, quando anche l’ultima foresta venne abbattuta; privati della loro principale ragione di vita si lasciarono morire, senza alcuna voglia di lottare.
Poi toccò alle creature del mare, quando anche l’ultima riserva d’acqua venne avvelenata.
Lentamente quella tecnologia, che per molto tempo aveva portato prosperità, stava distruggendo tutto ciò che c’era di meraviglioso in quel mondo.
Le città andavano in rovina, le strade si riempivano di vagabondi e criminali, la fame e la povertà dilaniavano ciò che restava della razza umana, che si andava estinguendo per ultima, dopo che quasi tutte le creature magiche avevano fatto lo stesso…
Ne rimanevano poche, draghi, qualche creatura sotterranea e alcuni ibridi, ma quelle poche resistevano strenuamente, cercando di crearsi un posto dove riuscire a sopravvivere…
Le ultime riserve di energia, risucchiate da quella terra morente, venivano convogliate ad Aritea. L’ultima città esistente. L’unica che non fosse andata in rovina.
Quei fortunati che erano riusciti a vederla almeno una volta giuravano che le sue luci si vedevano a chilometri di distanza; un luminoso miraggio nell’oscurità della notte.
Anche la sua energia però non sarebbe durata a lungo; qualche anno, non di più. Ma invece che preoccuparsene gli abitanti della città ne usavano più di quanta ne servisse; ed Aritea continuava a brillare, come una stella che prima di spegnersi brilla come mai in vita sua…
Vi abitava qualche migliaio di persone, pochi eletti, mentre gli altri erano abbandonati a loro stessi; prigionieri di un incubo, condannati ad impazzire lentamente.
Senza uno scopo, senza sogni…



L’atmosfera nel vecchio bar era pesante e silenziosa, ognuno badava agli affari suoi.
Nessuno parlava, nessuno ascoltava musica, nessuno più intonava canti da osteria, come succedeva una volta.
Solo i saluti scambiati a mezza voce e le ordinazioni rompevano quel silenzio. Persino i giocatori di carte in un angolo non litigavano più.
Da quel luogo desolato era sparita da tempo l’ultima vitalità.
Il vecchio barista puliva con cura eccessiva il vecchio bancone pieno di graffi, forse per tenersi occupato. Ogni tanto la porta si apriva, lasciando entrare qualche nuovo disperato in quell’ambiente inospitale.
L’aria era opaca, satura dei miasmi delle pipe e delle sigarette. Ma l’odore del fumo non riusciva a coprirne altri, ben più sgradevoli; odore di gente mal lavata, di alcol, di malattia, di vomito e degli oppiacei, consumati in grande quantità, per sfuggire anche solo per un poco da quell’esistenza senza scopo…
Famir se ne stava seduto in un angolo, osservando silenzioso quel pietoso stralcio di umanità. La larga falda del cappello gli nascondeva la parte superiore del volto, una logora sciarpa di un colore indefinito completava l’opera, celandone la metà inferiore.
Stretto nell’ampio cappotto che avvolgeva la sua figura stava attento a non entrare in contatto con nessuno degli altri avventori; ogni tanto si sfregava nervosamente le mani, coperte da guanti di pelle. Era nervoso…
La porta venne aperta di nuovo, lasciando entrare un uomo dall’aspetto imponente, prima di sbattere con un tonfo sordo.
La folata di vento che investì Famir portava con sé molti odori; quello della polvere, del caldo e quello aspro e pungente della pioggia.
Era per quello che il bar si era riempito improvvisamente, ed era per quello che anche lui vi si era rifugiato. Aveva fretta, ma da quando il mondo era andato in rovina anche la pioggia era diventata pericolosa.
Scura, velenosa, bruciante.
Stroncava sul nascere quella poca vegetazione che ancora tentava di farsi strada in quel mondo distrutto… E non solo quella. Più di una persona aveva perso la vita, trovandosi senza riparo nel bel mezzo di un acquazzone.
Era per quello che Famir doveva restare lì.
Indugiare, seduto ad un tavolo in un bar pieno di gente, lo metteva a disagio; ogni minimo rumore lo faceva sobbalzare, mettendo a dura prova i suoi, già logori, nervi.
Seguì con lo sguardo l’uomo che era entrato, guardandolo sedersi al bancone.
“Solomon, è tanto che non ti si vede in giro.”
Il barista lo aveva salutato cordialmente, ma il tizio di nome Solomon non sembrava molto propenso a conversare.
Ordinò un bicchiere di liquore in tono burbero, e rimase poi a fissarlo, come a chiedersi se volesse davvero berlo o meno.
Famir lo osservò solo per qualche secondo, prima di tornare a fissare il tavolo. Quella razza moribonda lo interessava poco…
Ad un tratto una delle cameriere, passando accanto a lui, inciampò nelle gambe di un ubriacone steso sul pavimento. Il vassoio che portava finì a fargli compagnia, non uno dei boccali rimase intero, spargendo birra e cocci di vetro sulle piastrelle scolorite.
Il proprietario del locale cominciò ad inveire contro di lei, con rabbia, ordinandole di raccogliere i immediatamente i cocci ed aggiungendo qualcosa sul fatto che le avrebbe trattenuto la paga del mese successivo; minaccia che, vista la miseria di quel luogo, fu terribile al punto che la ragazza scoppiò in lacrime, mentre raccoglieva i frammenti di vetro, ferendosi più volte le dita scheletriche.
Non uno degli altri avventori mosse un dito per aiutarla.
Famir osservò la scena, impietosito. Dopo qualche tentennamento si chinò ad aiutarla e, quando ebbe finito, sfilò da una tasca del cappotto un sacchetto di pelle, posandolo con un tintinnio metallico sul vassoio, accanto ai frammenti di vetro. Era tutto il denaro che possedeva, non era molto, ma a lui non sarebbe più servito. Nel luogo in cui si stava dirigendo non avrebbe più dovuto fingere di essere quel che non era.
Si rialzò, tornando a sedersi sullo sgabello, ignorando i mugolii grati della giovane ombra, ancora seduta sul pavimento. Ben presto però cominciò a sentirsi osservato, una sensazione che si faceva più pressante ogni minuto che passava; si guardò attorno, da sotto la falda del cappello, trasalendo appena quando si accorse che l’uomo al bancone - Solomon, lo aveva chiamato il barista - lo stava osservando insistentemente.
Famir tornò ad abbassare di scatto la testa, stringendosi nel cappotto ed osservando fuori dalla sporca e incrinata finestra che aveva affianco, le condizioni all’esterno. Si alzò di scatto non appena la pioggia scura smise di picchiare con violenza sulle finestre; le nubi si allontanavano, poteva arrischiarsi ad uscire.
Non vedeva l’ora di andarsene da lì, lontano da quel bar maleodorante e da quell’uomo che lo fissava…
Solo una volta che si fu lasciato la desolata cittadina alle spalle si concesse un sospiro di sollievo, rallentando il passo fino a raggiungere un’andatura normale.
Rivolse il pensiero al luogo dove stava andando. Il luogo che gli appartenenti alla sua specie si erano creati, sotto le montagne, al riparo da quella terra desolata e morente; per arrivarci aveva attraversato un intero deserto; un deserto fatto di città fantasma, sabbia arida e cumuli di ossa sbiancate dal pallido sole malato che ancora cercava di illuminare le giornate, senza tuttavia riuscirci.
Il mondo ormai non era più luogo per loro, venivano cacciati senza pietà, allontanati, temuti.
Non era più vita quella.
Ed in quel momento era ad un passo dal raggiungere la meta; doveva solo trovare la stazione, secondo le indicazioni ormai avrebbe dovuto essere quasi arrivato…
Camminò ancora mezza giornata, sotto il sole che, sebbene morente, riusciva a bruciare ogni cosa viva sulla quale posava i suoi raggi, prima di scorgerla.
La stazione.
Vecchia, fatiscente, ma indubbiamente lei. Il luogo in cui passava uno dei pochi treni ancora funzionanti.
Ce l’aveva quasi fatta ormai; corse fino a raggiungerla, incespicando a causa dei propri piedi che affondavano nella sabbia riarsa.
Quel treno senza più conducente, mosso solo dagli ingranaggi al suo interno che continuavano a funzionare per puro miracolo, lo avrebbe condotto al sicuro.
Raggiunse la piccola stazione dopo quella che gli sembrò un’eternità. Spinse la porta, che si aprì a fatica mentre i cardini arrugginiti protestavano rumorosamente, ed entrò.
L’interno era peggio di quanto si aspettasse; le panche di legno, una volta sicuramente lucide ed eleganti, erano annerite e rose di tarli e le pareti erano incrostate ed ammuffite. L’aria era polverosa ed impregnata del pungente ed inconfondibile odore della decomposizione. Famir non ci mise molto ad individuarne l’origine.
Dietro quella che, una volta, doveva essere la biglietteria c’era il corpo di qualcuno; con tutta probabilità il vecchio bigliettaio, ancora seduto al suo posto.
La parte superiore del volto non c’era più, o meglio, c’era, ma schizzata sulla parete alle sue spalle assieme al suo cervello. Non ci voleva un esperto per ipotizzare che fosse stato un colpo di fucile.
Forse una rapina, o forse si era tolto la vita lui stesso, nessuno poteva saperlo. In ogni caso però nessuno si era preoccupato seppellire il corpo, lasciandolo a decomporsi in quel luogo dimenticato.
Famir si coprì naso e bocca con una mano, per il suo olfatto sensibile quell’odore era insopportabile.
Si affrettò ad uscire sulla banchina e si avvicinò al bordo, in attesa. Quel treno non aveva orario, ma gli avevano detto che passava circa due volte al giorno.
I minuti passavano lenti e silenziosi; il paesaggio era deprimente.
Una delle vecchie fabbriche, ormai ferme, costeggiava i binari. Una grottesca e silenziosa montagna di ferro e cemento in rovina.
Nulla che potesse distrarre Famir da quell’attesa che sembrava infinita.
Ogni volta che sentiva un rumore in lontananza drizzava le orecchie, sperando che fosse finalmente ciò che aspettava.
Inutilmente.
Ad un tratto sentì il sangue gelargli nelle vene; un cigolio sinistro lo aveva fatto sobbalzare. Si voltò si scatto, il cuore che gli martellava furiosamente nel petto; nella semi oscurità della biglietteria vedeva chiaramente la porta aperta, anche se non era entrato nessuno.
Famir deglutì nervosamente, era troppo pesante ed arrugginita perché fosse stato un colpo di vento ad aprirla…
Si addentrò cautamente nel locale, nessun suono giungeva alle sue orecchie; con tutta la cautela possibile si avvicinò alla porta, per chiuderla, ma non fece in tempo a fare nulla. Qualcosa di indefinito lo colpì con violenza al volto, buttandolo a terra. Stordito e dolorante si accorse dell’entrata di qualcuno solo dall’ombra che aveva oscurato la sua visuale e che, davanti alla porta, gli impediva la fuga. Un’ombra familiare.
Sbattendo le palpebre, Famir lo mise a fuoco e, una frazione di secondo dopo, si ricordò di dove lo avesse già visto.
Solomon, l’uomo che lo fissava dal bancone del bar; l’unica differenza era che, in quel momento, il cappotto che portava era slacciato e rivelava un gran numero di armi. Pugnali, pistole, frecce…
Ma la più preoccupante era il fucile che teneva in mano e che gli puntava addosso.
Solomon stirò le labbra in un ghigno soddisfatto, non si sbagliava. Non più celato dal cappello, scivolato via quando lo aveva colpito, il viso del giovane rivelava la sua grottesca natura.
Il volto di un pallore innaturale, tendente al verdognolo, poteva anche essere scambiato per quello di un umano, se non fosse stato per i grandi occhi dorati, da rettile, colmi di paura in quel momento. Dagli zigomi si delineavano delle scaglie che sembravano quasi disegnate, più scendevano verso il collo più acquistavano consistenza e spessore, scurendosi e assumendo cangianti riflessi multicolore. Le labbra esangui erano dischiuse per la sorpresa, lasciando intravedere i denti aguzzi del giovane. Una folta massa di ondulati capelli verde palude gli ricadeva sulle spalle, completando il quadro.
Era giovane e inesperto, si vedeva, anche se quelli della sua razza non invecchiavano.
“Ibrido immondo…”, sibilò. Aveva avuto la conferma che cercava, sollevò il fucile, pronto a sparare.
Famir non era un combattente, la sua razza era la più mite tra tutti i draghi, ma in quel momento difendersi gli venne istintivo.
Da sotto il lungo cappotto sbucò una coda dalle squame verde scuro; la punta era ornata di spuntoni ossei. Saettò, veloce e istintiva, verso il cacciatore, colpendolo con violenza al braccio che teneva il fucile.
Solomon lasciò cadere l’arma, indietreggiando appena, tenendosi il braccio sanguinante.
Il giovane drago fece leva sulle braccia per alzarsi e scappare nella direzione opposta, visto che comunque l’uomo gli bloccava la via verso l’esterno.
Doveva raggiungere la banchina, i binari, una volta lì avrebbe potuto scivolare tra le sterpaglie che li costeggiavano e sparire tra le rovine della fabbrica…
Due spari lacerarono l’aria, Famir gemette mentre un dolore sordo si diramava dalla gamba colpita, che non lo resse più, facendolo cadere bocconi sulle tavole scheggiate della banchina. Cercò di rialzarsi, ma il tempo di mettersi seduto e si ritrovò a fissare nuovamente la bocca del fucile di Solomon, che, nonostante il braccio sanguinante, non sembrava minimamente provato.
“Aspetta, aspetta!”
Famir sollevò le mani davanti a sé, giunte, pregandolo, cercando di farlo ragionare.
“Non ti ho fatto nulla, perché… Perché lo fai?”
Solomon non mostro la minima emozione, mentre sollevava il fucile, puntandolo contro la fronte del giovane drago. “Perché la vostra morte mi fa sentire vivo,” rispose, senza aggiungere altro.
Solo quello era il motivo. Un obbiettivo. Una missione. Un motivo per continuare a vivere in quel mondo dimenticato, per continuare a trascinarsi attraverso le interminabili giornate, sempre più buie e silenziose…
Lo sparo risuonò nel silenzio della stazione, seguito dal tonfo del corpo senza vita del drago che si accasciava sulle tavole di legno.
Solomon abbassò il fucile, frugando nelle tasche del cappotto e tirando fuori un pacchetto di sigarette ed una scatola di fiammiferi.
Sibilò un’imprecazione tra i denti quando si accorse che gliene rimaneva una sola; avrebbe dovuto procurarsene altre in città, ma seguire la sua preda lo aveva distratto da tutto il resto. Se la mise tra le labbra screpolate, accendendola ed aspirando qualche boccata di fumo, mentre il suo sguardo si soffermava sul corpo senza vita ai suoi piedi.
I Draghi di quella razza gli davano poca soddisfazione, deboli e poco combattivi. Ma d’altro canto non ne erano rimasti poi molti, non poteva permettersi di fare lo schizzinoso quando gli si presentava l’occasione.
Guardandolo, per un attimo, gli tornò alla mente il gesto del drago, di qualche ora prima; quando aveva aiutato la cameriera, mentre le altre persone, tutte umane, l’avevano ignorata.
Non ci si soffermò più di tanto però.
La sua coscienza era arida e morta da troppo tempo, non avrebbe avuto la forza di fargli venire scrupoli o rimorsi.
Rimase a fumare in silenzio, appoggiato ad un palo arrugginito, finché lo sferragliare del treno non lo riscosse dai suoi pensieri.
Osservò quell’ammasso di rottami, che stavano insieme per miracolo, fermarsi e poi ripartire, qualche attimo dopo, senza che nessuno vi fosse salito o sceso.
Solomon sospirò; strinse la sigaretta, ormai consumata, tra le dita callose. Se la sfilò dalle labbra, gettandola sulla sabbia arida di quel luogo dimenticato e nascondendo nuovamente il fucile sotto al giaccone.
Il vento era tornato a soffiare, sferzandolo con violenza e costringendolo a piegarsi in avanti, mentre si allontanava.
Ramingo senz’anima, in quel mondo in rovina…
   
 
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