Anime & Manga > Full Metal Alchemist
Ricorda la storia  |      
Autore: Mikaeru    23/09/2010    5 recensioni
Qui, nel centro del petto, all’improvviso si è formato un desiderio che scottava come lava. La felicità, egoista, bollente e malvagia, pretende di essere esaudita.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Winry Rockbell
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Quando Al sparerebbe a suo fratello, Fullmetal Alchemist

Non è difficile fingere, non è così arduo recitare. Non so perché gli attori vengano così tanto acclamati; è così facile. Un sorriso splendente e la forza tirata fuori dagli sforzi estremi e segreti. È così facile.
Sacrifico, sorrido, sopprimo. Nessun problema, nessun problema davvero, sto bene, sto benissimo. Sempre così, goccia dopo goccia, minuto dopo minuto. Trovare la forza di lavorare tutti i giorni e andare avanti; facile come mandare giù i dolori, che si buttano giù a grandi sorsate così niente si sofferma troppo a lungo nella gola, niente riesce ad aggrapparsi e a rimanere lì.

Qui, nel centro del petto, all’improvviso si è formato un desiderio che scottava come lava. La felicità, egoista, bollente e malvagia, pretende di essere esaudita. Mi guardavo attorno e tutto ad un tratto nulla mi bastava, tutto veniva invaso e sommerso da una luce nerissima, che tutto assorbiva e tutto mangiava. Mi sono messa ad annaspare, a cercare una via di fuga. Mi guardavo indietro e c’erano loro, loro erano stati la mia felicità fino a quando non se ne sono andati – mi hanno abbandonata? Mio Dio, è così assurdo e infantile e orrendo da pensare. Come se io, poi, fossi così importante da potermi definire abbandonata da loro. Mi volevano bene, certo, ma non sono mai davvero entrata tra loro, in quel circolo segreto che era il loro legame forte come un sigillo di sangue di drago.

Mi guardo indietro e cosa ho? Genitori scomparsi quando era ancora troppo piccola per rendermi perfettamente conto del dolore, cosicché quello si impiantasse tra le costole come una bomba ad orologeria per scoppiare all’improvviso quando avessi respirato troppo forte – quando mi sarei creduta felice, contenta, anche solo serena, lì avrei aperto i polmoni per respirare quella polvere d’oro e avrei innescato il meccanismo, la nitroglicerina avrebbe fatto il resto e mi avrebbe lasciata a piangere sul pavimento freddo; ma questo non era niente, perché quello che più mi avrebbe fatta tremare sarebbe stata la solitudine, quella  imposta dalla loro scelta, quella con cui mi hanno punita senza volerlo, senza rendersi conto.

Mi guardo indietro e cosa c’è? Una mia versione slavata che sta sull’uscio ad aspettare. Ho le mani giunte in grembo e le labbra che tremano, gli occhi offuscati, le ciglia che reggono a malapena minuscole perle di lacrime. Cosa sto facendo? Cosa sto aspettando? Chi? Sto aspettando loro che non verranno mai a prendermi, che aspetteranno che sia io a raggiungerli. Aspetto e intanto soffoco, intanto acchiappo ogni pensiero con le mani nude e lo caccio in fondo allo stomaco, lo mastico come carne cruda strappata all’osso.
Mi guardo indietro e io sono sempre lì, ad aspettare qualcuno che non arriverà, a sperare in sorrisi che non saranno mai rivolti a me, ma uno all’altro. Quanto avrei dato perché lui sorridesse a me come sorrideva a suo fratello.
Piano piano, quando il mio egoismo si parava davanti ai miei occhi come carta velina scurissima, cominciai a scambiare la profonda invidia per qualcosa di meglio, qualcosa che potessi digerire e apprezzare, qualcosa che nelle mie mani non fosse viscido e disgustoso.
Nessuno si aspetterebbe mai che io possa provare qualcosa del genere, vero? È così lontano dal mio viso, dal mio sguardo – così estraneo all’idea che il mio sorriso di carta porta stampato sopra.

Mi guardo indietro e cosa vedo? Tre bambini biondi che giocano; due bambini con un sorriso enorme e una bambina che fa finta di essere un maschio, una bambina che ha i capelli biondi troppo chiari per potersi confondere con loro.

Un po’ mi piaceva. In realtà mi piacevano entrambi allo stesso modo, volevo loro lo stesso bene, ma scelsi lui perché più grande, perché mi faceva divertire di più. Quando rideva splendeva. Ma quando erano loro due da soli, assieme – quando io mi limitavo semplicemente ad osservarli, desiderando essere in mezzo ma senza osare davvero – risplendeva di una luce particolare che invidiavo ferocemente. Dentro di me si stava facendo strada, piano piano, sibilando come un serpente appena nato, quel sentimento che mi avrebbe portata a strapparglielo, a prendermelo ed averlo solo per me, sentendomi superiore a lui solo perché ragazza, perché possibile compagna, possibile madre dei suoi figli. Immaginavo i nostri bambini e li immaginavo meravigliosi, piccolo raggi di luce. Avrebbero riempito ogni buco con la loro innocenza.
Un po’ mi è sempre piaciuto, ma la verità, la pura e semplice verità è che tutti i miei pensieri di gioia erano frutto di sogni infantili, derivati dall’idea di me come donna – di me madre e di me moglie, la me che in quanto nata femmina altro non poteva fare. Era frutto di questa prospettiva che mi imponevo con un rigore non mio e del bruciore, il buco in mezzo al petto. Volevo la mia felicità, la volevo a tutti i costi. La mia serenità significava strapparlo a suo fratello, significava farmi fregio di una condizione, di una fortuna, di qualcosa che non era particolarmente mio come non lo era il loro essere maschi.

Ti amo.
Questo mi avrebbe assicurato di averlo per sempre accanto. Ne ero sicura, e felice al pensiero. A lui piacevo. Sono sempre stata l’unica ragazza che conosceva, era impossibile che non gli piacessi. Ero l’unica cosa comoda della sua vita, non potevo fallire. Avrei fatto parte di quella fetta di mondo dalla cui altezza puoi guardare sotto e deridere gli altri; sei più felice di loro, questo fa di loro dei miserabili e di te il vincitore assoluto.

Se provo a ricordarmi di me bambina, non so cosa immaginassi quando pensavo alla me grande. A volte strizzo gli occhi fortissimo e  ci provo intensamente, ma l’unico risultato che ho è un gran buio. Probabilmente anche quando ero piccola non andavo tanto più lontano con il pensiero. In fondo il mio mondo erano loro due; quando se ne andarono, cos’altro illuminava così profondamente il mio minuscolo universo? Loro erano in grado di farmi camminare sotto il sole delle quattro e cancellare la mia ombra.

Ti amo, ti amo davvero.
Sorrideva totalmente per me per la prima volta, nessuno sulla faccia della Terra può aver mai provato qualcosa di altrettanto perfetto. Avrei voluto dipingerlo, fissarlo su tela, così da poterlo rimirare in ogni suo più piccolo scintillante microscopico frammento – in realtà non sarebbe servito, perché anche ora ho tutto nella mente, lo sfioro con la mente quasi ogni giorno.
Anche io.

Incastrare un’altra bugia nel mio mosaico non sarebbe stato difficile. Ma questa sarebbe stata perfetta, avrei dovuto metterla tra le perle vere di una collana e indossarla. Non era neppure una bugia vera, una bugia intera: gli volevo bene davvero, ero perdonabile. Sarebbe stato così bello e buono da parte mia, proprio un’azione perfetta; avrei reso felice lui, riempiendolo d’amore, ricostruendo con lui piano piano tutto ciò che gli era stato negato così presto, gli avrei donato il calore di una famiglia intera, chiassosa, allegra, profondamente legata. Con il tepore dei sorrisi domenicali schiaccio i miei pensieri, l’egoismo che puzza di zolfo. La mia felicità non è egoismo, è legittima, perché è legata alla sua. Me ne convinco e tutte le notti prendo sonno venti secondi prima.
Mette tutto così meravigliosamente a tacere che la mia collana di perle risplende anche di notte.

  
Leggi le 5 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Full Metal Alchemist / Vai alla pagina dell'autore: Mikaeru