Fictional Dream © 2007 (21 maggio 2007)
Naruto © 1999 by Masashi Kishimoto/SHUEISHA Inc.
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dell’autrice (Callie Stephanides - http://fictionaldream.iobloggo.com). Non ne è ammessa
altrove la citazione totale né parziale, a meno che non sia stata autorizzata
dalla stessa tramite permesso scritto.
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A Konoha l’eco di quei giorni giunse sospinta dal vento,
perché nulla più della danza delle foglie e delle spie basta a interpretare il
clima di un’intera storia.
Suonò come una vittoria. O la promessa di una redenzione. O
come una liberazione possibile.
Esiste un istinto che muove il sentimento verso una
leggerezza innata, quando nella rarefazione dell’incubo si intravede una nuova
luce. Quel giorno, dunque, Konoha riuscì forse a deporre le ansie di una
battaglia imminente per analizzare il più inatteso degli eventi: la
morte di Orochimaru.
Se il Terzo Hokage fosse stato ancora vivo, probabilmente
avrebbe steso le lunghe dita adunche, cercato una presa di tabacco e in quel
gesto misurato e lento consumato le esequie. Sarutobi era colui che più in
profondità aveva forse conosciuto il Serpente, perché non puoi guardare un uomo
con gli occhi della tua agonia senza riuscire a penetrarlo talmente in
profondità da farlo tuo.
E Sarutobi, di Orochimaru aveva rubato molto: forse proprio
il sentimento di quell’invincibilità che aveva cullato in sé tanto a lungo da
divenirne schiavo.
Ma il giorno in cui il suo allievo più dotato scomparve - e
il vento ne portò il saluto a Konoha - il grande vecchio era già morto da tempo.
Come reagisce la preda nel sapere che la trappola si è
inaspettatamente aperta e il laccio sciolto pende, inerte, da un cappio
finalmente inoffensivo? A spiarne i movimenti rallentati e guardinghi, verrebbe
spontaneo dire sia la prima a non volersi sottrarre alla prigionia, quasi esista
un sottile e funesto compiacimento nella degradazione che nasce da quel collare.
Per quanto insulsa e vagamente mortificante fosse una simile
lettura, nondimeno, Anko cercava il proprio riflesso in uno specchio e non
poteva fare a meno di pensare a se stessa, perché il primo dei fiori
colti da Orochimaru era forse anche l’ultimo a poterlo dimenticare.
Anko non possedeva che memorie fumose dei giorni in cui
quegli occhi d’ambra, vagamente derisori e freddi, rappresentavano anche l’unica
guida avesse cercato per trasformarsi nell’eroe dei suoi sogni. Era sempre stata
mascolina e grezza, essenziale e netta in ogni suo gesto, quasi le vezzosità che
pure appartenevano al suo sesso - e avrebbe poi colto in quel sentimento
indecifrabile e doloroso, di amore-odio purissimo - rappresentassero un ostacolo
insormontabile all’eccellenza cui guardava.
Non era che una bambina, però. A cercarsi con lo sguardo
della donna, doveva dirsi che sì: in fondo era semplicemente un leprotto
cresciuto da un lupo. Una piccola, pavida bestiola che un tiro del caso aveva
spinto lungo un sentiero fin troppo pericoloso.
Il giorno in cui Orochimaru morì, Anko riordinava una pila di
carte quasi fossero molesti ricordi: con la stessa espressione concentrata e
tesa che aveva in missione - una piccola smorfia di disgusto a piegarle le
labbra piene. Accadeva ogni anno, di quei tempi. Meglio: accadeva ogniqualvolta
tornasse in conto l’esame di selezione dei Chuunin. Era stato in un’occasione
come quella, in fondo, che la ferita si era riaperta, perché la memoria non è
che la coazione incoerente a ripetere un inestinguibile dolore.
Quello che Orochimaru aveva impresso nella sua carne non meno
in profondità di un sigillo maledetto.
Anko aveva tentato di stornare quella pericolosa suggestione
con tutte le proprie forze, perché l’essere donna non poteva non somigliare
anche a un dominio obbligato dei sensi, delle scelte, delle omissioni.
O era l’essere ninja che chiedeva quel sacrificio crudele,
studiato forse ad arte per spezzare una sotterranea ribellione chiamata ‘libertà’?
Anko conosceva bene il pericolo insito in una suggestione
così coerente, raffinata e logica com’era tutto in Orochimaru: così
spietatamente geometrico da non essere umano, perché nell’ordine della sua
corruzione l’onnipotenza di un afflato divino era percettibile e quasi brutale.
C’erano ninja nati per essere eroi, altri per essere
rinnegati, altri ancora per rivolgere ogni regola e somigliare alle divinità che
pure sfidavano: Orochimaru apparteneva a quest’ultima genia e nessuno, fosse
pure un Kage, poteva credere di negare un’evidenza tanto smaccata.
Dei giorni in cui Orochimaru era ancora il vanto di Konoha,
Anko non ricordava abbastanza per formulare un giudizio che non fosse anche - se
non soprattutto - venato di una straordinaria, dolente nostalgia. Era uno di
quei quadri che la memoria dipinge a suo modo, attingendo da una tavolozza
autunnale le tinte più calde e poi riversandole con dovizia su una candida tela
di buone intenzioni: non c’è nulla che rende la bellezza di un momento come
l’averlo perduto, insomma, perché in quella luce soffusa non c’è abbastanza
oscurità perché si profilino pure le ombre.
Ricordava il suo ego bambino, sporco di polvere o fango - uno
shuriken tra le labbra, perché il rispetto nasceva anche da una recitata
durezza. Da una strana mascherata - e quel ragazzo bellissimo e distante, dai
lunghi capelli d’ebano e dagli occhi dorati come quelli di un rapace. O di un
felino predatore. O di un serpente.
C’era un’indolenza quasi meridionale nei suoi gesti mai
affettati, intrisi di un’eleganza che avresti detto genetica, perché di chi
l’aveva generato non restava più nulla. Neppure la candida spoglia di una muta o
una crisalide buona a consolare almeno la nostalgia.
Orochimaru parlava poco, sorrideva di un sorriso enigmatico e
freddo, scoprendo appena quei suoi denti perlacei, piccoli e curiosamente
appuntiti. Forse non erano belli, ma ad Anko piacevano: perché le piaceva quel
sorriso, come ogni più piccolo dettaglio lo riguardasse.
Da dove era discesa quella strana venerazione? Forse dalla
spontaneità con cui la bellezza cattura naturalmente lo sguardo, oppure quel
carisma così percettibile persino sulla distanza: l’aura potente del
dominatore.
Più probabile ancora tutto fosse nato da una di quelle trame
con cui il Destino amministra se stesso e si diverte a combinare le fila di ogni
storia in una sua personalissima trama.
Era inverno: e Anko lo ricordava bene, fosse pure perché non
c’è nulla come la stagione dei fuochi conservi inalterata l’impronta delle
memorie più dolci. Si era azzuffata con un gruppo di giovanissimi genin, senza
neppure interrogarsi sull’assurdità di una simile pretesa. Non era neppure
un’aspirante, all’epoca: era solo un giovane concentrato di rabbia e ambizione e
frustrazione purissima. Da che aveva ricordo, c’era sempre stato in lei quel
fuoco inesausto, associato, a tratti, a una pigra indolenza: ossimori che
Orochimaru aveva saputo cogliere e apprezzare. Oppure sfruttare, come tutto quel
che stringeva tra le sue dita affusolate ed eleganti.
Non era stata un’idea grandiosa: a ponderare gli eventi sulla
distanza, anzi, poteva anche dirsi come quell’insania meritasse ben più di un
rimprovero; la prima regola di un ninja, del resto, era una misura di umiltà e
di controllo. Aveva ricevuto quel che meritava, in ogni caso: pesta e sporca di
ghiaia rugginosa e fango, non aveva però mai abbassato lo sguardo. Come gli
avrebbe detto un maestro amato-odiato, c’era la fierezza di una lupa nei suoi
occhi. C’era una volontà di potenza ch’era sua, tutta sua: il fuoco
dell’ambizione che solo un altro ambizioso poteva forse cogliere e coltivare.
Orochimaru era arrivato all’improvviso: un’ombra incisa nei
contrasti e colori stridenti contro la sua retina. La divisa dei guerrieri non
gli avrebbe mai donato quanto quegli abiti più lascivi ed eleganti in cui la sua
autentica natura si mostrava con l’efficace evidenza di un sigillo: era quasi
indossasse fin d’allora una maschera persino costrittiva, dai cui bordi
slabbrati, però, l’essenza già s’intravedeva.
Non l’aveva visto compiere un solo gesto, né il suo timbro si
era increspato oltre la monocorde e quieta cadenza che gli era propria: eppure i
suoi aggressori si erano dileguati come uno stormo di uccelli al tramonto. Con
il senno di poi avrebbe forse letto in quella fuga un’allegoria di caccia,
perché anche gli storni si chiudono in una massa impenetrabile per sfuggire alla
voracità delle aquile, ma non allora: sul momento, suo era stato piuttosto il
sollievo umiliato della vittima. Se non aveva accennato il minimo riconoscimento
o saluto, nei fatti, era stato anche e soprattutto per non ammettere quanta
gratitudine respirasse nella profondità di un simile bisogno: ma Orochimaru non
se n’era adontato, né aveva mostrato il minimo stupore.
Fin d’allora, era quasi sapesse leggerle dentro e intuire in
profondità la marca della sua più autentica essenza. Forse era un esteta. Forse
uno stupido: ma era anche indubbio sapesse come sedurre più di mille altri.
“Tieni a mente questo, se vuoi sopravvivere: la difesa e
l’attacco non devono mai possedere un’evidenza che ti renda vulnerabile. Un
avversario che vede, è un avversario che intuisce e che risponde.”
Era stato il primo insegnamento le avesse elargito: e non
l’aveva mai dimenticato, come nulla, in fin dei conti, si legasse a quell’uomo
bello, pericoloso e indecifrabile come un’orchidea.
Da quel giorno, in ogni caso, aveva cominciato a seguirlo:
come un cane, diceva chi non la conosceva abbastanza da temere l’inevitabile
risposta (e Anko era qualcuno che largheggiava in azioni, più che in verbosità
gratuite). Come un’ombra, chi coglieva già il seme della sudditanza che
covava, come un germoglio prezioso e come un lascito generoso.
Prima che il Destino naturalmente la votasse a quell’uomo,
Anko non aveva mostrato la minima esitazione nel voler essere sua: e Orochimaru,
con quella sua leggerezza da seduttore nato, da stratega e da attore, l’aveva
accontentata senza che potesse comprendere le implicazioni di un bacio.
Anko poteva far scivolare i polpastrelli contro la carne e
sentirlo ancora: il suggello di un connubio maledetto e di una promessa
infranta.
Era trascorso appena un pugno di settimane dal giorno in cui
era divenuta genin - e nel privilegio di quella fascia aveva letto soprattutto
una via diretta al cuore del proprio maestro - quando Orochimaru l’aveva
condotta oltre i limiti di Konoha.
Anko aveva imparato ad apprezzare quelle escursioni
apparentemente insensate, ma che riservavano sorprese macabre e al contempo
esaltanti: ogni jutsu proibito che assimilava con la voracità di una giovane
spugna, era una goccia di balsamo e di veleno insieme.
Orochimaru non somigliava a nessuno dei ninja che pure le
gerarchie del villaggio le avevano insegnato a rispettare: il rigore dell’etica
di Konoha, ai suoi occhi, era soprattutto un obbligo di fedeltà a se stesso, ai
propri disegni, alle proprie sconfinate ambizioni. I suoi asserti paideutici
erano le lame affilate di interrogativi senza risposta, che la lasciavano nuda e
fragile davanti alla spaventosa grandezza di chi la fronteggiava.
Perché sì: c’è qualcosa di eroico persino nella degradazione
morale di un uomo, laddove spinta oltre i confini stessi dell’ambizione.
Quel giorno, però, la marcia verso la radura nascosta in cui
fiorivano serpenti come digitali purpuree e velenose, si era interrotta prima
del previsto. Orochimaru si era arrestato, precedendola di pochi passi, e poi
l’aveva chiamata a sé, con uno di quei gesti impregnati di consapevole
paternalismo che non avrebbe perdonato ad alcuno, se non a lui: signore
padrone maestro.
Le aveva detto “Avvicinati, Anko. C’è qualcosa che voglio
mostrarti.” Ed erano i passi di una bambina già condannata e già venduta, che
pure non vede non sa non anticipa e dunque neppure teme. “Vuoi davvero che il
tuo chakra fiorisca sino a somigliare a questi alberi, alla loro frondosa
maestà?”
E una bambina non sceglie non riflette non pondera. È puro
istinto e canina devozione.
Gli si era appressata con l’ansia gioiosa che guidava allora
ogni suo passo: Orochimaru si era piegato su di lei e con la grazia di una
mantide le aveva rubato insieme l’amore e la vita.
Anko ricordava bene la sensazione di tiepida consolazione che
le aveva offerto il primo contatto con le labbra di lui. Erano calde ed erano
morbide contro la sua pelle: erano qualcosa che risvegliava un istinto sensuale
e sessuale troppo acerbo perché trovasse una qualunque risposta. Ricordava solo
di aver chiuso gli occhi, estenuata da un piacere immaginato prima ancora che
vissuto, perché la voracità con cui era stata divorata non lasciava dei
sentimenti neppure la più blanda illusione.
La lingua di Orochimaru aveva percorso la sua epidermide
inviolata e fragile con la lentezza esasperante di una tenerezza deviata. Era
quasi godesse sottilmente dei piccoli brividi che la scotevano in ondate
successive, come una delle verdi foglie di una foresta che non le era mai parsa
tanto buia e tanto indifferente.
E poi il dolore, infine. Tanto forte da togliere il senno:
così indimenticabile da posarsi sul suo cuore come quelle lacrime mai piante.
Quasi un tizzone l’avesse lambita e poi straziata e infine
ancora aggredita per mangiare quanto di più puro e indifeso, istintivo e
irragionevole possedeva, aveva avvertito quel bacio farsi morso ed entrarle
dentro come la cuspide avvelenata e maledetta di uno scorpione assassino.
Era caduta sul fianco, rantolante: e con quegli occhi
pallidi, velati dall’agonia, si era cercata in una pietà che non era mai giunta:
Orochimaru non ne provava. Forse neppure conosceva il potere soave e lenitivo di
quel sentimento.
Ma Orochimaru non si era neppure mai allontanato: era rimasto
ad accarezzarle i capelli, blandendola con parole ch’erano l’ennesimo insulto al
buonsenso. O una privatissima canzone d’amore.
Nell’orgoglio d’essere sopravvissuta, all’improvviso, forse
respirava esattamente il fiore di quel sentimento devastato e devastante,
com’era tutto quel che riguardava il suo maestro. Un legame avvelenato, eppure
dolce come il miele: Anko, che nel suo destino aveva letto la cifra difficile e
gloriosa della donna di un eroe, a quella profezia si era pure affidata con
tutta se stessa.
Credendovi, soprattutto, come solo una bambina può fare: e
gli occhi dei bambini, è provato, registrano la verità secondo colori che l’età
spegne o cancella del tutto.
Era stato davvero il tempo a guarirla? La razionalità che
cresce con il corpo e ti corrompe l’anima? Oppure un tarlo chiamato gelosia?
O il disgusto per un piccolo amore e per una grande follia?
Sapeva solo che un giorno s’era svegliata: e le parole di
Orochimaru avevano assunto suoni e significati ostili, obbrobriosi persino
all’orecchio di un’incondizionata devozione.
Immortalità, fama, potere, tecniche sempre più raffinate
e sempre più spaventose, perché non c’è nulla di più orribile e pericoloso di un
uomo che non si contenta di sfidare Dio: ma vuol rubargli il seggio.
E allora, davanti al deliquio lucido di un pazzo amatissimo,
all’improvviso, aveva sentito quella catena sciogliersi e un’altra, più potente
ancora, stringere il suo cuore: non era mai stato odio, ma un amore ingenuo e
bamboleggiante, come bamboleggiante e ingenua era lei.
Lasciarlo per indurlo a cambiare? Abbandonarlo per
trasformare l’inseguitore in preda?
Ma Orochimaru le aveva semplicemente chiesto di dimenticare:
la luce obliqua delle foglie nella foresta d’estate, l’odore muschioso di quei
sentieri in autunno e la canzone minacciosa della Konoha segreta, nelle notti di
tempesta. Le aveva chiesto di rinnegarlo, come in fondo l’aveva rinnegata lui: e
davanti a un mare sconfinato e freddo, quale era il loro rapporto di superfici
accoglienti e abissi insondabili, infine l’aveva abbandonata.
Anko ricordava alla perfezione l’abisso che le si era allora
aperto nel petto e la straniante sensazione di fissare un cielo vuoto dal fondo
di un pozzo di pietra, stretto e angusto come un futuro ben diverso da quello
che aveva immaginato: ma la vita – e la crescita – era anche il timido
radicare in un deserto disilluso, anziché abbandonarsi alle dita rapaci di chi
mirava unicamente all’effimera bellezza di una corolla.
Kimimaro, no. Kimimaro era pura accettazione e totale
bisogno: era il capro sacrificale di quell’ambizione e una pedina persino troppo
umile per il compito che le labbra velenose di Orochimaru gli avevano dato.
L’aveva guardato con sospetto, Anko: con distacco e con
gelosia. Di nuovo figlia di Konoha, al Suono vedeva offerto qualcuno che il
proprio stesso clan aveva ripudiato: ma nella cui bellezza, per l’ennesima
volta, le ambre fredde di quegli occhi avevano letto un messaggio cifrato ed
essenziale.
Kimimaro era morto: proprio come un fiore reciso.
Si era visto cogliere e blandire e accarezzare da quell’inumana
ambizione, senza nutrire mai un dubbio, un’incertezza, un’esitazione, una sola
briciola di disgusto.
Anko poteva invidiarlo per quello: e compatirlo, perché alle
sue radici recise non era rimasta che la crudeltà di una morte inutile e
prematura.
Un altro fiore, in fin dei conti, avrebbe preso il suo posto.
E un altro ancora, all’infinito: perché Orochimaru era
esattamente l’affascinante demone che coglieva i boccioli più belli per nutrire
la sua lucida follia.
Finché, nell’eterno inaspettato della storia, un fiore non
aveva colto lui.
Quel giorno la notizia serpeggiava sulle labbra di chiunque
avesse ascoltato la voce del vento e della rabbia di Konoha: eppure Anko aveva
abbassato lo sguardo, per abbeverare in un’ultima lacrima le fragili radici
strappate a un perverso, indimenticabile amore.