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Autore: Ernil    30/09/2010    7 recensioni
Sai cosa vorrei? Vorrei che tutta la feccia della Terra avesse una gola, e io avessi le mie mani attorno ad essa.
Genere: Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Sommario: Sai cosa vorrei? Vorrei che tutta la feccia della Terra avesse una gola, e io avessi le mie mani attorno ad essa.

Pairing: un po’ di Daniel/Rorschach, suppongo :D *saltella*

Rating: ...PG-13? Un pizzico di gore, anggggst, abuso violento di punteggiatura, possibile eccesso di citazioni (ma chi l’avrebbe mai detto), generale spaventosità, pretenziosità, metafore rivoltanti – insomma. È di Rorschach che stiamo parlando.  

Disclaimer: non possiedo Watchmen. Credo che altrimenti l’amabile cervello di Adrian sarebbe esploso per pressione interna, risparmiandoci dolori. Ecco.   

Beta: Geilie. L’ ho riempita di note idiote per questa fanfic. Credo di doverle un abbraccio, e una scatola di aspirine.  

Note dell’Autrice/1: 1977, post-Roche, ma pre-Keene.

Erano le due di notte, Alan Moore abbia pietà della mia anima peccatrice e non mi ingoi nella sua mostruosa barba gorgonica.

Also! Scritta nella benefica influenza di Emme (e un’altra bellissima slasher che purtroppo non è nel fandom), quindi tanto amore anche a loro. Dio sa se non si può dormire bene con qualcuno che scrive violentemente nel letto accanto, chiedendo caffè e sussurrando a mezza voce fra sé e sé.  

 

 

*

 

Sai cosa vorrei? Vorrei che tutta la feccia della Terra avesse una gola, e io avessi le mie mani attorno ad essa.

 

Le tue mani. Le lentiggini sembrano macchie di sangue, ma ora hai addosso i guanti, e i guanti sono immacolati. Puoi immaginare lo scricchiolio del cuoio attorno alla pelle molle del collo. Il calore insopportabile e il pulsare sotto le tue dita.

 

A volte, la notte è generosa con te.

 

Solo che questo è venuto dopo; prima, prima c’era –

 

*

 

Quando eri Walter avevi quindici anni, eri alto 5’40’’ (crescerai solo di pochi altri pollici, negli anni; prima di bruciare le tue magliette – le magliette di Kovacs, cioè – ti andavano ancora bene. Ridicolo.) e i guanti da boxe erano enormi pugni sulle tue dita. Enormi pugni per attenuare e attutire e non ti sono mai piaciuti, né il loro colore acceso né il flaccido tumpf che facevano quando colpivano; sempre sopra la cintura. Sempre morbidi, sempre non proprio dove volevi far male.

 

Quindici anni sono un anno prima, più o meno, della morte di tua madre; prima che le versino in gola il detersivo (forse così si sarà pulita la bocca prima di morire pensi, prima di dire Bene), prima che Kitty Genovese dia spettacolo serale al condominio, prima che i vestiti di Blaire escano in fumo dal comignolo; prima che il colpo si ripercuota lungo il braccio, e prima dello schizzo sulla maschera, e prima del cappello che cade nella furia e i bottoni che si staccano mentre la mannaia cala insieme alle palpebre di Kovacs; prima, prima, molto prima, immensamente prima, anni luce prima che un ragazzo vestito da gufo ti piombi davanti sulla strada di casa, chiedendoti se per caso hai visto un punk col naso rotto.

 

Il punk col naso rotto, quello coi capelli strani, quello che sembrava avere dietro le legioni dell’inferno? Sì, l’ hai visto. Glielo indichi senza parole, l’ammasso di carne accasciato contro il cassonetto. Il ragazzo vestito da gufo (ma tu lo conosci, sai chi è, di fama: Nite Owl. Te l’eri immaginato più vecchio) sembra sconvolto e divertito e poi i fari di un’auto che passa illuminano il tuo volto (anche se allora non era ancora il tuo volto; stupido; ingenuo; morbido). Nite Owl ti guarda, ti vede, e sembra sempre più sconvolto; non si era accorto di chi sei? Ed è così che la vostra conoscenza inizia alla luce dei fari di un’auto, mentre il punk rantola di sottofondo.

 

Ma questo, questo è dopo; prima c’è Walter Kovacs che è cinque piedi e qualcosa di bruttezza arancione, vestito di vestiti troppo larghi; che usa parole troppo grandi; che picchia troppo forte; che non piace veramente a nessuno, nemmeno a Padre Brown.

 

Prima c’è Walter, e Walter, beh. Non è Rorschach.

 

*

 

Walter non è Rorschach; tu non sei Rorschach. Tu sei un ragazzino, e tutti i ragazzini hanno... qualcosa nel cassetto.

 

Il tuo cassetto cigola quando lo apri, e dentro c’è: una Bibbia (sgualcita, edizione 1943, piena di pieghe fatte furiosamente dalle tue dita magre e dalle tue unghie mangiate); un diario (intonso, ma praticamente senza pagine: quasi tutte scritte e poi strappate arrotolate gettate); penne dai tappi sbrindellati; la tua idea.

 

L’idea è quella di una persona che non conosci; è quella di una persona senza forma, ma con un sesso – è una donna. Decisamente una donna. Indubbiamente una donna. Il suo viso è senza lineamenti, il suo corpo vago: un collage dei corpi che hai visto e che ti sono piaciuti (senza che tu sia disposto ad ammetterlo); e non sei esattamente certo di come sia la sua voce; i suoi capelli; i suoi hobby. Ma c’è, e prima o poi la incontrerai... riuscirai a riconoscerla, quando la incontrerai, non è forse così? Anche se non ha un volto, per ora, e il suo aspetto è per te ancora un’ombra nella nebbia.

 

Se c’è una cosa di cui sei certo, però, è che le sue mani non sono grandi mani sporche di grasso; i suoi capelli sono lunghi (nessuna donna reazionaria, grazie), e non dovrebbero puzzare di gasolio; il suo corpo è come quello delle donne (preferisci non pensarci; la morte di tua madre non è ancora avvenuta, ma è così vicina – respira sul tuo collo) e per dio, non è un maschio adulto.

 

Non è un maschio adulto. È bianca. Non è ebrea, ed è religiosa. Rispettosa. Non liberale. Non fuma. Non... non è...

 

*

 

Le mani di Daniel, però, sono grandi e c’è sicuramente, sotto i guanti di Nite Owl, del grasso sulle sue unghie. Stava lavorando ad Archie prima del giro di ronda.

 

In questo momento, le mani di Daniel sono anche a un pollice, mezzo pollice, dai tuoi polsi. Sono infilate in guanti scuri; potrebbero essere le mani di chiunque. Ma i suoi capelli puzzano di gasolio sotto il sudore e anche attraverso il cappuccio, ed è inconfondibile.

 

Le sue mani sono aperte e spalancate sopra i tuoi polsi; i tuoi polsi sono quasi visibili fra la manica dell’impermeabile e i tuoi guanti di pelle; i tuoi polsi sono quasi nudi.

 

Le mani di Daniel sembrano enormi sopra le tue; non toccano la tua pelle, non ancora... un attimo ancora... I guanti sono scuri e umidi di qualcosa che probabilmente è sangue (una corolla di teppisti agonizzanti si stende attorno a voi), e i fari di un’auto che passa fanno brillare le nocche come strani diamanti violenti; sembrano...

 

Il pensiero ti sfugge. Cosa irritante. Non insolita. Non quando pensi a Daniel. (Non dovresti, ma...)

 

Sembra che le mani di Daniel esitino sulle tue per anni luce; per milioni di secondi; per una vita intera. Forse è solo un attimo, perché hai il tempo di sentire qualcosa di molto aspro e penetrante nella schiena (potresti elencare il nome dei muscoli che il proiettile sta lacerando, ma, stranamente, non ne hai voglia) e le mani di Daniel piombano sui tuoi polsi come treni in corsa; come artigli di un uccello da preda.

 

Le tue mani stringono i suoi avambracci prima che tu ci possa pensare, e un attimo dopo la tua faccia è nell’incavo del suo collo e c’è qualcuno che sta dicendo il tuo nome (il tuo vero nome; l’unico nome a cui tu risponda; il tuo nome di battesimo di sangue). Il tuo respiro è crollato tutto ad un tratto, e lo senti pesante e ruvido nella bocca, come ogni muscolo nel tuo corpo. 

 

Dicono che a volte si formano legami come quelli di sangue fra le persone; legami come tendini tesi fra le persone; forse è questo quello che intendevano dire, pensi: hai del sangue in bocca (c’è qualcosa di fisiologicamente sbagliato, qui; ma ancora: ti sfugge) e senti la tua faccia bagnarsi e sporcarsi, e la tua testa è da qualche parte nel collo di Nite Owl; senti benissimo il battito nella sua carotide, mentre gli vomiti addosso sangue. La tua faccia ti ostacola; ci sono rivoletti che si fanno strada fra la pelle bianca e nera e quella sudata di sotto, e qualcosa di caldo scorre lungo il collo e si riversa oltre i bordi della tua faccia; spiacevole...

 

Le mani di Nite Owl sono immerse nelle tue spalle; sei certo di stare correndo, anche se non con le tue gambe (come nel tuo sogno; quel vecchio sogno, a tredici anni. Ballavano uno strano ballo e inciampavano come inciampa adesso Daniel. I suoni erano molto simili e... ) Le dita di Nite Owl sono ancora come artigli nella tua schiena; come artigli che non lasceranno andare, come uncini; ti ricorda la sera che hai passato a studiare il fucile che Daniel ti ha regalato. Hai passato il palmo sopra il manico e i tuoi guanti erano così consunti sulle punte delle dita che potevi sentire il freddo dell’acciaio ricurvo contro la pelle.

 

(Daniel ha rimediato anche a quello, poi. Ti ha regalato un paio di guanti viola. A Natale. In quell’occasione, sei stato felice che ci fosse una faccia di cui ti fidi fra te e lui. Hai aspettato di tornare a casa per cambiarti i guanti, perché non mostravi mai pezzi di carne nuda a Daniel; erano perfetti.)

 

Le mani di Nite Owl ti tengono stretto contro di lui; sta correndo, lo sai. Ti sta tenendo in braccio, sai anche questo. Speri che nessuno vi veda. Può essere... fraintendibile. Specie perché ora la tua faccia è intrisa di sangue, e ti ricorda il velo della Veronica; un pensiero inopportuno e vagamente profano, mentre seppellisci la faccia nel collo di Daniel e ascolti il suo battito per cercare di non ascoltare il tuo; il proiettile brucia come l’inferno dentro di te e hai sentito che...

 

Hai sentito che la prima volta fa sempre molto male...

 

La tua faccia è umida di sangue e ogni respiro sembra dover risucchiare il tessuto nella tua bocca; la tua faccia è logora come le punte dei guanti, e puoi quasi sentire la pelle di Daniel; la pelle morbida del suo collo.

 

Sotto di te, l’asfalto continua a scorrere senza che tu ti muova; ricordi che una volta...

 

*

 

...una volta, hai visto il corpo di un ragazzino, sull’asfalto, e quella volta era il sangue del ragazzino che si muoveva anche se il ragazzino non si muoveva. Il sangue si rovesciava in una cascata giù dal marciapiede.

 

Ma questo è dopo; molto dopo. Anni luce dopo. Quello a cui pensi è avvenuto quando Rorschach non era ancora nemmeno nato, e Rorschach è un tale ignorante di certe cose. È stato partorito a morsi dalla testa di Walter, e necessariamente qualcosa – qualcosa è andato perso.

 

(Cordoni ombelicali non chiusi in nodi perfetti e impermeabili, però, pensi, e ti fa storcere il naso. Delle sere, ti ritrovi a staccarti ancora la placenta di dosso, in viscidi pezzi lucenti che si scollano come grasso animale dalla tua pelle...)

 

Questo è prima di Rorschach. Questo ricordo – risale a tempi così antichi che sembrano non essere mai esistiti. (Le fondamenta non si vedono mai dall’alto, anche quando sono costruite su cadaveri; ma la loro puzza, quella può arrivare fino ai piani più alti). Una volta, eri in classe; ricordi la faccia molle e bianca di padre Brown, e ricordi la parabola: il figliol prodigo. Prevedibile, tenero. Non interessante.

 

(Questo è quello che pensa Rorschach, però; Rorschach non crede in dio come Walter era solito fare. Rorschach non accende candele e non va in chiesa e no, Rorschach ha smesso di inginocchiarsi per scendere a compromessi con Colui che abita il vuoto appartamento nell’alto dei Cieli. Ma questo, questo è ancora un ricordo di Walter...)

 

La sabbia della clessidra continuava a scorrere, dalla sua postazione sulla cattedra. La sabbia era violacea e non faceva rumore mentre cadeva senza interrompersi, apparentemente ignara della parabola, del suo significato, dello sguardo di Kovacs addosso a lei. Il figliolo lasciava la casa; la sabbia scorreva. Stava ancora scorrendo quando il figliolo tornava a casa. Uno degli orologi più primitivi del mondo deglutiva il tempo, prima di venir voltato da una pallida mano umana e rigurgitarlo fuori, per sempre. Immagini che sia questo che intendono quando dicono che il tempo è solo una concezione. Se non ci fosse stata la pallida mano di padre Brown, forse –

 

Ma non era quello che stavi pensando in quel momento. Allora, la sabbia continuava a scorrere davanti agli occhi di Kovacs; non sembrava conoscere pietà, e non si fermò fino all’ultimo granello. In questo momento, sei aggrappato al collo di Nite Owl, il petto ti brucia e fili di sangue scivolano da sotto la tua faccia, sulla sciarpa; fino all’ultimo granello?, pensi. C’è il rombo della sabbia nelle tue orecchie. Sotto di te, l’asfalto corre, e...

 

*

 

Il divano si piega sotto di te, in una maniera inaspettata. È troppo grande, troppo enorme, troppo morbido e in un certo senso troppo profumato. Ci metti un attimo a capire che non è il divano: è il letto. C’è odore di Daniel ovunque; probabilmente gli stai sporcando le coperte, come prima hai lasciato tracce del tuo sangue per tutta la curva parete metallica della Owlship.

 

Gli ansiti sono i tuoi? Sembrano indecenti; su un letto, facendo un suono simile. È indecente. Qualcosa si muove attorno al tuo stomaco e poi senti i bottoni scivolare dalle asole, e quando c’è un suono ruvido capisci che quelli che ora stanno atterrando leggermente su una sedia erano i tuoi pantaloni.

 

La ferita è allo stomaco, o da qualche parte, puoi sentirla quando respiri... i pantaloni non erano necessari nell’ordine delle cose.

 

« Daniel » dici. L’ombra che sta operando per dissezionare la tua divisa (la tua pelle) è ai piedi del letto, e anche se si è tolto l’armatura – quando? – non puoi confonderti. Daniel ti guarda per un attimo e poi ricomincia il massacro dei bottoni. Sembra che le mani gli tremino troppo per poterli togliere senza strapparli. Ti irrita. Hai sempre saputo che avresti dovuto trovare qualcuno con le mani piccole.

 

« Fermo ».

 

Non ti risponde neanche, e quando cerchi di raddrizzarti il dolore esplode come milioni di improvvisi petardi nella tua testa, facendo urlare il tuo cervello e le tue orecchie e la tua gola, e le unghie, anche le unghie oltre i guanti, perché si seppelliscono nelle coperte e stringi il materasso fra le dita pensando che dopo di questo, se sarai ancora vivo, lascerai che Daniel... che Daniel... perché non può essere peggio di questo, e Daniel...

 

La mano di Daniel sembra grande abbastanza da poter coprire tutto il tuo petto, e stringere il tuo cuore nel suo pugno; è calda e sicura e tocca il tuo ombelico, e il contatto della sua pelle nuda (odore di grasso, qui, e olio) contro la tua pelle nuda ti fa pensare a tutto quello che hai sentito dire.

 

Dicono che se è quello giusto ti scoppiano i fuochi d’artificio. Dicono che se è quello giusto, allora, a volte, è come una piccola morte.

 

*

 

Vuole portarti all’ospedale; riesci a capirlo quando l’eco dei petardi smette di urlare nella tua testa e quando Daniel comincia a infilarti qualcosa su per le gambe. Le sue mani sono fredde e umide di sudore e paura e decisamente sporche di grasso di Archie, fra le altre cose; quando toccano le tue cosce, tu tremi.

 

Ti sta infilando in abiti da civile, lo sai. Ti sta vestendo con vestiti troppo grandi (certe cose non cambiano mai) e sono vestiti che sanno di Daniel: il tuo naso è pieno dell’odore di Daniel, fino a farti lacrimare gli occhi.

 

« Fermo » dici ancora una volta, e non sei sicuro di non averlo detto solo nella tua testa, perché Daniel non dà segno di averti sentito mentre sfila la tua maglietta, e ora sei sul letto di Daniel, sei ferito, indossi qualcosa che sembrano i suoi jeans, e il tuo petto è un coso rovente e doloroso, e ti sembra che dove prima Daniel ti abbia toccato con la sua mano nuda sulla tua pelle nuda, sia rimasto un segno; come quello di Caino.

 

(E questa non è la parabola del figliol prodigo; questa non è una storia a lieto fine.)

 

Le mani di Daniel sono sul tuo petto e la luce è accesa: forse lo era fin dall’inizio, ma te ne accorgi solo ora. La lampadina sembra un occhio arrabbiato sopra di te e tu la guardi male in rimando, mentre le mani di Daniel si muovono sul tuo petto toccando e tastando e sussurrando da pelle a pelle e da bocca a bocca. C’è più dolore, ma a parte ciò, questo è esattamente tutto quello che avevi sempre immaginato.

 

(Ti odi anche solo per averlo immaginato; averlo addirittura ammesso a te stesso giustifica la presenza del dolore. Non puoi credere che tutto questo stia accadendo a te; stai per morire, morire nell’adempimento del dovere, e perché nessuno domanda il tuo ultimo desiderio? Qualcuno non dovrebbe chiederti se vuoi un padre accanto a te?)

 

« Fermo » dici; la tua voce è così strana che non la riconosci. È questo il tuo ultimo desiderio, questo; Daniel dovrebbe ascoltarlo. Fermo, pensi. Fermo, fermo, fermo, fermo.

 

Le mani di Daniel premono un punto così doloroso che la testa ti si ribalta di lato, e quando tenti di parlare senti qualcosa di umido e appiccicaticcio alla bocca, ed è la tua faccia umida di sangue. Le dita di Daniel si allontanano, ma solo dopo aver toccato. San Tommaso, pensi. San Tommaso.

 

« Ti porto all’ospedale » dice Daniel. Lo sai. Le dita di Daniel si sono allontanate un attimo ma adesso sono tornate, e stanno spingendo su per le tue braccia qualcosa di ruvido e fresco che sembra una giacca. « Rorschach – Rorschach? »

 

Le sue mani si chiudono sulle tue spalle e tu lo guardi. La sua faccia è da bambino e preoccupata, stagliata contro la pupilla feroce della lampadina, i colori sono troppo vividi e sei claustrofobico all’interno della tua stessa pelle; deve sentirsi così la sabbia della clessidra, quando tenta di fuggire da un estremo all’altro...

 

« La tua – la maschera. Rorschach. Devo... »

 

La mia maschera, pensi, e lo guardi. Non riesci a inclinare la testa di lato, ma vorresti. La tua maschera? Di cosa sta parlando? È venuta via da un pezzo. Si è staccata a colpi di mannaia, nel giardino sul retro dove Blaire è stata seppellita nello stomaco dei cani. Vorresti dirgli di cercare là tua maschera. Quando tenti di muovere la lingua, mastichi sangue.

 

« Devo toglierla » dice Daniel; indossa gli occhiali normali, in un qualche modo, storti e scivolano lentamente giù per il ponte sudato del suo naso; e la lampadina riflette la sua luce sulle lenti: sembrano soli luminosi...

 

« No » dici; se non ha esaudito il tuo precedente desiderio, almeno questo: questo no. La faccia resta. Le mani di Daniel sono già attorno al tuo collo, e anche se sai cosa vuole fare (strapparti vivo la pelle di dosso, farti lo scalpo, denudarti), per un attimo sembra che voglia soffocarti. È decisamente preferibile. Per un attimo, le sue dita sono così vicine alla pelle della tua gola che ciò che sarebbe un No! esce come un gorgoglio di sangue.

 

Questo sembra decidere Daniel. (O è Nite Owl? È sempre tutto così confuso, con lui... e tu non sai quale preferisci. Nite Owl combatte e stringe la tua mano; Daniel ti offre il caffè e trova guanti viola per te.) Le sue dita sono attorno al tuo collo mentre saliva sfugge giù dagli angoli della tua bocca, ed è un attimo perché la faccia scivoli via, con un rumore umido mentre il sangue si scolla dalla pelle.

 

Senza la tua faccia, la luce della lampadina è come quella di un sole; come le lenti degli occhiali di Daniel. Chiudi gli occhi e così perdi la faccia di Daniel mentre ti guarda; mentre per la prima volta guarda Rorschach travestito da Kovacs.

 

(Kovacs impara così a travestirsi per tanto tempo da Rorschach; a giocare a fare Rorschach come i bambini giocano a fare la guerra coi fucili di plastica. Kovacs impara la lezione e impara a non osare tornare a galla...)

 

Qualcuno ti solleva fra le braccia e tu sai che l’ospedale non è abbastanza lontano per morire nel tragitto; speri che Daniel sappia cosa sta facendo. (Daniel, o Nite Owl? Il primo ha le dita sporche di grasso; il secondo di sangue. Nessuno ha mani anche solo vagamente femminili.) La tua testa si nasconde alla luce dentro il collo di Daniel, e anche quando uscite nella notte, non la sollevi. Non ne hai la forza, e Kovacs è così insidioso a volte...

 

La tua bocca sporca di sangue è contro il collo di Daniel, e questo è come un bacio; e se questo è come una piccola morte, stai per morire sottovoce.

 

Non te ne accorgi quasi...

 

*

 

I dottori fanno un sacco di domande. Puoi sentirli, da qualche parte. I dottori. Sono fantasmi nella tua mente; fantasmi bianchi. I loro camici cancellano i loro lineamenti e distruggono i loro corpi in qualcosa di neutrale e asettico (come il sesso, pensi, il sesso degli angeli), e le loro voci sono gentili e le loro mani esperte e pulite; ti ricordano qualcosa che avevi. Qualcosa che Walter aveva; sogni d’amore con qualcuno senza volto ma davvero perfetto. Kovacs e perfetto non dovrebbero stare nella stessa frase, pensi, no, mentre le forme dei dottori si fanno difficili da catturare.

 

Ti chiedi se questo sia uno di quei ricordi di Walter che sia scampato per caso alla pulizia etnica, alla guerra senza quartiere che Rorschach ha messo in atto; perché se è così, ora che è stato catturato va soppresso.

 

Qualcosa che era prima; prima della foto di una bambina di sei anni nella tua tasca; prima dell’odore di carne umana bruciata fra i tuoi capelli, fin dentro le tue orecchie; prima dei guanti viola e prima che delle mani sporche di grasso sotto le unghie si ficcassero nel buco che il proiettile ti ha aperto nello stomaco. Prima dei tuoi ultimi desideri, nessuno dei quali esaudito (e se nel profondo del buco scavato dal proiettile c’è qualcosa che si nasconde in attesa di essere toccato ancora, allora si chiuderà insieme alla ferita e non vedrà mai più, mai più la luce).

 

Se era di Kovacs, è qualcosa che va dimenticato: ci sono nuovi canoni rispetto ai tuoi quindici anni. Forse non è poi così necessario che le sue mani siano piccole. Forse non è poi così necessario, se solo tu avessi più tempo per pensare più... lucidamente...

 

Afferri le lenzuola, e scivolano sotto le tue unghie. Le tue mani sono nude e fredde, e senti la mancanza dei tuoi guanti, della tua pelle viola e screpolata attorno alle nocche. I guanti sono sempre stati caldi attorno alle tue dita, e, cosa più importante, non hanno mai attenuato né attutito i colpi della vita. Hanno sempre afferrato tutto senza esitazioni; colpito dove chiedevi loro di colpire; ora, invece, le forme di un ricordo sfumano ogni volta che stringi le dita e gli occhi per catturarle.

 

Poi, i camici asessuati attorno a te si moltiplicano; i tuoi occhi sono stanchi; Kovacs è molto, molto insidioso, e le palpebre si chiudono.

 

*

 

Il proiettile non è che un altro buco aperto nella rete di cicatrici. Quando per la prima volta ti alzi e ti sfiori lo stomaco, è un’insignificante depressione nella tua pelle.

 

Daniel è alle tue spalle, e ti guarda, e tu fai una smorfia all’uomo nello specchio (un uomo brutto coi capelli arancio; non sei tu; ricordi a stento il suo nome) e ti volti. Lo sguardo di Daniel ti segue mentre controlli che la porta della stanza d’ospedale sia chiusa, e incastri una sedia sotto la maniglia bianca.

 

Puoi sentire i suoi occhi sulla tua schiena e puoi sentire il fantasma delle sue dita sulla tua pelle; ma questo è, appunto: un fantasma. Come le ombre bianche dei dottori, anche le dita di Daniel sono collegate a un ricordo che non riesci a catturare. Sospetti che sia qualcosa appartenuto a Kovacs (è il nome dell’uomo nello specchio) e che quindi sia andato distrutto tempo prima.

 

Non può essere stato nulla di importante.

 

*

 

La faccia torna sulla pelle di Kovacs, ed è una corona che ti sei messo sulla testa, e guai a chi te la tocca. Le macchie nere ruotano come una giostra impazzita di gioia su di te: fiori; nuvole; farfalle sporche di sangue volano sui tuoi occhi al ritmo del tuo cuore, e ogni battito è un disegno. O forse: ogni disegno, un battito. Ti fa sentire felice. Il mondo nero sotto i tuoi piedi ricomincia a girare cupamente su se stesso, una trottola sul suo asse che decade, divorato dalle tarme, e ora puoi sentirlo, ora puoi, ogni sordido lurido scricchiolante meccanismo, ora puoi affrontarlo. Ora puoi. Ora puoi.

 

Lentamente, il colore torna sulle tue guance, e le tue sopracciglia, le tue ciglia, le tue lentiggini scompaiono. La tua faccia emerge in un’ombra simmetrica nello specchio in cui ti guardi. E nello specchio puoi vedere Daniel, incorniciato dalla porta. Attraverso il vapore del bagno, è una forma sfocata e incerta. Inclinando leggermente la testa di lato, stringendo gli occhi, però, puoi catturare le sue spalle, e le sue mani sono aperte e vuote ai suoi fianchi. Ti sta guardando. Tu lo guardi in rimando. Poi cominci a vestirti.

 

Se quella era una morte, rimetterti l’uniforme è tornare in vita. Le righe sui pantaloni sono come inflessibili sbarre di prigione; una prigione per il mondo, non per te. Una prigione per intrappolare Daniel lontano da te, e la dolcezza con cui la giacca scivola sulle tue spalle è quasi come un abbraccio, uno di quelli che Daniel non ti ha dato. (Le tue braccia si alzano sempre solo in difesa; le tue.)

 

Daniel fa un passo avanti mentre ti allacci i bottoni. (Li ha riparati, in un qualche modo; in un qualche modo goffo e incerto, e dovrai strapparli e attaccarli di nuovo, ma ha riparato la tua giacca.) Ne fa un altro mentre allacci i polsini, e vorresti chiudere le sbarre più velocemente senza far vedere la tua paura che Daniel sia lì prima che tu abbia finito. Il soprabito, ora, e nel momento in cui allunghi una mano per prendere la sciarpa, ti accorgi che non c’è. Alzi lo sguardo e Daniel è già arrivato.

 

È parecchio più alto di te. La sciarpa è fra le sue mani. Le sue dita non sono sporche di grasso (né di sangue), ma è solo un caso. Il tessuto della sciarpa sembra più chiaro del solito, e ci metti un attimo a capire che deve averla lavata, insieme al resto dei tuoi vestiti. La sciarpa scivola fra le dita di Daniel, e tu devi alzare lo sguardo per guardare Daniel in faccia.

 

Le mani di Daniel si posano sulle tue spalle, e la sciarpa viene arrotolata attorno al tuo collo. Nodo semplice. Daniel lo sa – nel caso qualcuno ti afferrasse per la sciarpa, è quello più facile da sciogliere. Così non finiresti soffocato dalla tua divisa. Daniel lo sa. Il pensiero è a metà fra spiacevole (quanto sa di te quest’uomo, ora? Da quanto lo sa?) e caldo (ma puoi pensare che sia caldo solo per la sciarpa, non è così).

 

Le mani di Daniel spingono la sciarpa nel cappotto. La tua gola è chiusa; continua a toccarti. Continua a toccarti, e sfiora la tua guancia in un gesto imbarazzato dopo aver lisciato la sciarpa. Senti le macchie impazzire attorno alla lievissima pressione del suo dito, in un picco di calore che è l’Hiroshima della tua pelle, e poi esplodere in un fiore quando la mano di Daniel cade in basso. L’effetto è a domino e ci vuole una frazione di secondo prima che tu senta che le macchie sono tornate nelle righe, in cerchi e ali e grotte inesplorate sui tuoi zigomi.

 

Abbassi lo sguardo e prendi le tue mani.

 

« Il caffè è pronto » dice Daniel. Il guanto sinistro schiocca debolmente sulla pelle del tuo polso. Davanti a te, il vapore del bagno si esaurisce in volute incerte che ricordano vagamente forme femminili. Le tue dita di pelle le dissipano, e afferri il cappello nel seguire Daniel fuori dal bagno. Non lo indossi; lo tieni sul petto, sul cuore, mentre scendi le scale.

 

*

 

Bevi il caffè come se fosse l’ultimo; forse, se hai abbastanza forza e determinazione, lo sarà. Potrebbe essere l’ultimo; potrebbe esserla ogni zolletta che lasci cadere, ma prima che tu te ne accorga ce ne sono sei in una sola tazza, e ti costringi a smettere e a mescolare il caffè.

 

Daniel è davanti a te, con la sua tazza intoccata fra le mani, e ti guarda. Non ti piace. Ti volti leggermente sulla destra prima di sollevare la faccia e bere. Non abbastanza perché lui non veda, ma abbastanza perché capisca.

 

Daniel sospira e si gira e ti lascia a bere il caffè senza guardarti. Lo zucchero si scioglie nella tua bocca. Il sapore del sangue e della pelle di Daniel è quasi sparito. Forse questo sarà l’ultimo caffè.

 

Alle tue spalle, il sole comincia a tramontare. Per quanto Daniel l’abbia lavato, la macchia sul tuo cappotto rimane, come un’ombra debole ma non dimenticata. Mai dimenticata. Può non esserci alla vista; ma rimane, rimane. I bottoni che mancano sul lato sinistro sono una dichiarazione di quello che hai perso, sono le stelle assenti sulla tua divisa, sono...

 

La certezza matematica che tutto quello che Kovacs meritava sulla sua tomba erano due bottoni e un sussurro a propria madre come sermone d’addio. Ti chiedi quali saranno le ultime parole che usciranno dalla tua bocca, ora che non hai più una madre da invocare; adesso posi la tazza e ti dirigi verso la finestra per uscire. Non il seminterrato, non la Owlship: non puoi più sopportare la docilità di Daniel, il modo in cui le sue mani fermano i tuoi polsi, il modo in cui dice il tuo nome come per richiamarti indietro, e non lo vede? Davvero non lo può vedere? Non sei sicuro di volergli mostrare l’abisso da cui non puoi staccare lo sguardo.

 

« Non vieni con me? »

 

Sei quasi issato fuori dalla finestra della cucina quando te lo chiede, il cappello è a metà strada per la tua testa. La sua voce non è una supplica. Non è una domanda. È la voce di Nite Owl. Quando ti volti e lo guardi, c’è Nite Owl in cucina. Anche senza maschera, anche senza costume... anche senza niente. Nite Owl. Non sembra per niente una ragazza, e nel profondo della tua mente una voce chiede perché dovrebbe sembrarlo? Secondo quali canoni, in nome di dio? Sì, giusto, in nome di quale dio?

 

« A piedi » dici. Le tue parole, nella tua mente, erano qualcosa come “Preferisco andare a piedi”, ma sono sempre più smozzicate e corte, si perdono fra te e gli altri. Anche nel tuo diario lo sono. Basta cercare conforto nel virtuosismo letterario; basta provare ad elevarsi con lunghe lussureggianti parole con cui gli uomini si sorridono e ammiccano; basta nascondersi sotto il buon odore... basta guardare le strade dall’alto della Owlship. Basta parlare.

 

« Dammi un attimo per vestirmi » dice Nite Owl, e scompare nel seminterrato, e lo sta facendo: verrà a piedi con te nelle strade. Verrà a piedi con te nella polvere che non riuscirete mai a scuotere del tutto dai vostri stivali. Guardi la porta aperta che conduce sotto, la porta in cui è scomparso Daniel, il rettangolo nero da cui uscirà Nite Owl. Aspetti che esca.

 

(Nessuno esce, pensi, e per un attimo senti il rumore scoppiettante dei polmoni che esplodono dentro la casa in fiamme. Ma Nite Owl tornerà. Torna sempre.)

 

Quando torna, i guanti gli nascondono le mani. Conosci la forma del suo costume meglio di chiunque altro; è qualcosa di impresso a fuoco nella tua mente, attaccato saldamente. Ha usurpato un altro ricordo per conquistarsi quel posto. Qualcosa è andato perduto per questo, e lo sai, mentre guardi Nite Owl scivolare giù dalla finestra dopo di te. Cosa, non lo sai, e non ti tocca. Non ti importa. Probabilmente, non era nulla di importante.

 

Il vento invernale minaccia di trascinarti via il cappello, e calchi più saldamente la tua corona sulla testa mentre lo spirito del ’77 comincia a soffiare nei vicoli, e Nite Owl canticchia al tuo fianco un grido di guerra. 

 

 

Credits:

“You know what I wish? I wish all the scum of the heart had one throat, and I had my hands about it” è una frase che Rorschach non pronuncia mai nella GN, ma che compare in diverse locandine di Watchmen. È datata 1975, quindi, uh. Canon!

Velo della Veronica: qua. Ci sono un sacco di riferimenti biblici, ma non voglio far esplodere il mio nerdometro e ho il sospetto che non siano interessanti :D

Ci ho messo un po’ a capirlo, ma Rorschach che sente il rombo della sabbia nelle orecchie è dovuto a Il Gattopardo, se la mia memoria non mi tradisce.

 

 

Note dell’Autrice:

Io, uh, andrò a dormire prima d’ora in avanti?

Critiche e commenti sono l’amore... ma se riuscite a lurkare in un fandom di quattro gatti e due liocorni, avete tutta la mia stima.

   
 
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