Libreria
a Palmer Street
di Elpis
C’era stato un
tempo nella sua vita, in cui aveva creduto che le fate potessero esistere, che i
draghi volassero nel cielo, sopra le nuvole, per non farsi vedere dagli esseri
umani; che in fondo al mare, dove il blu è quasi nero, ci fosse una città
popolata da strane creature, le quali non salivano mai in superficie per paura
dei terrestri.
Aveva creduto
ciecamente alle sue fantasie, le aveva reputate quasi reali, talmente tanto, che
nel momento in cui era cresciuta e si era resa conto dell’effimerità del mondo
che la circondava, un senso di tristezza e di abbandono l’aveva accompagnata per
settimane intere. Era stato come perdere un amico, una persona cara, il suolo
sotto ai piedi.
Anche le altre
persone avevano iniziato a relazionarsi con lei in modo diverso; se nei suoi
primi dieci anni di vita il mondo in cui viveva le era sembrato allegro, sicuro,
un posto dove nessuno soffriva, man mano che gli anni avanzavano scopriva che
niente di quello che credeva era reale. Era venuta a conoscenza di guerre, di fame, di
odio, immigrazioni, razzismo e tante altre cose che se gliele avessero solo
raccontate forse non ci avrebbe mai creduto. Purtroppo le vedeva tutti i giorni
alla televisione, sulla prima pagina del giornale che leggeva suo padre, mentre
faceva colazione al mattino; le sentiva alla radio.
Nonostante questo,
Olivia conservava quel briciolo d’immaginazione sufficiente a isolarsi dalla
quotidianità solo per qualche minuto. Si concedeva una pausa dai compiti e con
la mente viaggiava verso mete sconosciute, mondi paralleli; inventava storie e
personaggi.
Ma mai si era
immaginata quel posto.
Stava sognando, di
questo era fermamente convinta, ma doveva ammettere che tutto quello che la
stava circondando era talmente nitido nella sua testa e con così tanti dettagli,
che per un attimo ebbe paura che fosse reale. Era abbastanza fantasiosa da
credere che grazie a qualche marchingegno si fosse teletrasportata attraverso il
tempo e lo spazio, ma sapeva che ciò non era possibile nel mondo
reale.
Si trovava in una
strada larga e discretamente affollata, ma le persone sembravano non rendersi
conto della sua presenza. Le donne indossavano tutte gonne lunghe almeno sotto
il ginocchio e portavano i capelli stretti in acconciature più o meno elaborate;
gli uomini erano eleganti, vestivano camicie abbottonate fino al colletto e
soprabiti lunghi che li rendevano tutti professionali. Come riflesso
condizionato da quella visione, Olivia buttò un’occhiata ai suoi indumenti del
tutto fuori luogo: jeans, scarpe da ginnastica rovinate e un’anonima maglietta
verde pastello.
Un senso di inquietudine cominciò a farsi strada in ogni fibra del suo corpo.
Era in un sogno,
tutto quello che vedeva e percepiva era frutto della sua mente, per cui era
sciocco da parte sua farsi prendere dal panico. Eppure essere in quel posto del
tutto sconosciuto, con persone che erano così differenti da lei e che sembravano
così antiquate, tutto ciò la rendeva estremamente turbata. Non solo la gente era
diversa, ma anche gli edifici, le strade avevano un aspetto strano, quasi
vecchio. Le sembrava di stare in un film già visto, ma che allo stesso tempo non
conosceva.
Quando un bambino,
a pochi metri da lei, tirò la manica della giacca della madre e indicò nella sua
direzione con l’indice della mano, Olivia ebbe lo strano impulso di nascondersi,
infilandosi nel primo negozio che adocchiò sul lato della strada. Osservò dal
vetro opaco del negozio lo stesso bambino che si guardava intorno stranito e
tirò un sospiro di sollievo.
Il negozio in cui
era entrata era una vecchia libreria, illuminata soltanto dai raggi del sole che
entravano dalla porta aperta; era un luogo angusto, gli scaffali erano parecchi
e stracolmi di libri impolverati, molti dei quali Olivia non conosceva. Ne prese
uno a caso e cominciò a sfogliarlo senza un vero interesse, constatando però che
doveva essere molto vecchio perché le pagine avevano un colore leggermente
marroncino ed erano ruvide e dure al tatto.
«Posso esserle
d’aiuto, signorina?»
«Gesù!» sussultò
Olivia, facendo cadere il libro dello spavento.
«Non proprio, anche
se ammetto che esserlo potrebbe essere divertente».
Un vecchio canuto
la stava osservando amichevolmente mentre trasportava una pila di libri
all’apparenza nuovi di zecca. Depositò i volumi su uno scaffale e si affrettò a
raccogliere il libro che Olivia aveva fatto cadere, lo spolverò con la manica
della camicia e glielo porse gentilmente.
«Mi spiace di
averla spaventata» si scusò, guardandola al di sopra dei suoi occhiali tondi.
Con sommo orrore,
Olivia notò che il vecchio aveva cominciato a guardare il modo in cui era
vestita e temette che potesse farle delle strane domande, alle quali
difficilmente avrebbe potuto dare una risposta.
«Cercava qualcosa
in particolare?» chiese invece l’uomo, senza abbandonare le sue maniere
cortesi.
«No, niente. Davo
solo una piccola occhiata» la voce di Olivia tremò leggermente verso il
finale.
Il proprietario del
negozio annuì con la testa e tornò al suo lavoro, cominciando a mettere negli
scaffali giusti i libri che aveva appena portato.
Olivia passeggiò
ancora qualche minuto fra gli stretti corridoi della libreria, pensando più al
da farsi che guardando i volumi esposti. Continuava a ripetersi che presto si
sarebbe svegliata nel salotto di casa sua, sul divano, e che non avrebbe
ricordato nulla di quel posto, che sembrava uscito da un vecchio film degli anni
Cinquanta del Novecento. Solo che la sensazione che tutto quello non fosse solo
frutto della sua immaginazione cominciava a spaventarla seriamente, dal momento
che ovunque si fosse diretta, avrebbe attirato l’attenzione delle
persone.
Alla fine arrivò
alla conclusione che in ogni caso avrebbe dovuto trovare un modo per andarsene
di lì, cominciando col capire dove si trovasse. Per sua fortuna, il vecchio
sembrava gentile e pensò che non si sarebbe rifiutato di rispondere a qualche
domanda per lei.
Gli si avvicinò
cautamente, attirando l’attenzione con un colpo di tosse. Il proprietario si
voltò nella sua direzione, curioso.
«Mi spiace
interrompere il suo lavoro, ma potrebbe dirmi dove ci
troviamo?»
«Questa è
Palmer Street, signorina. A Londra».
Questa risposta
confortò Olivia: adesso era sicura che almeno si trovava ancora sulla
Terra.
«Potrebbe dirmi
anche che giorno è oggi?»
«E’ il sedici
aprile».
«Di che
anno?»
«2062».
Al contrario,
questo non la rassicurava.
Cercando di
mantenere la calma e di non lasciar trapelare il suo turbamento, Olivia
abbandonò il negozio cominciando a correre verso ovest, non sapendo minimamente
dove sarebbe arrivata. Aveva avuto il sospetto di non essere più nel 2010, ma un
conto era pensarlo, un conto era scoprire che si trovava ben più di
cinquant’anni dopo!
Affaticata e
sconcertata si fermò, appoggiandosi contro il muro di un’abitazione; i volti
delle persone che le passeggiavano davanti non smettevano di fissarla curiosi.
Osservando ancora il modo in cui vestiva quella gente, un dubbio si insinuò
nella sua mente: come era possibile trovarsi nel futuro, se tutto quello che
vedeva le ricordava così tanto il passato? Non conosceva abbastanza bene Londra
da poter avere un giudizio preciso, ma sicuramente non sembrava affatto una
città moderna! Sembrava che invece di evolversi fosse tornata indietro negli
anni.
All’improvviso un
ragazzo alto le si avvicinò, anche lui aveva il fiatone e la guardava
interrogativo.
«Sei per caso la
“ragazza vestita in modo strano” che è appena uscita dalla libreria di mio
nonno?»
Olivia si ritrovò
ad annuire in silenzio, ancora persa nelle sue considerazioni.
«Mi spiace di
averti seguita, ma quel vecchio becero non si fa mai gli affari suoi! Ha notato
che eri leggermente turbata per qualcosa e voleva sapere se avevi bisogno di
aiuto: non sembri di queste parti.»
Olivia avrebbe
voluto rispondere che, tanto per essere precisi, non era nemmeno di quel tempo,
ma preferì tacere, sorridendo in direzione del ragazzo e annuendo con la testa.
Per indole non era molto loquace e men che meno lo sarebbe stata in quella
situazione: aveva paura di dire qualcosa di sbagliato o di
compromettente.
«Hai per caso perso
la lingua? Non posso aiutarti, se non mi dici che cosa ti
serve».
La ragazza vagliò
varie opzioni: parlare e dire la verità facendosi passare per pazza, oppure
rimanere zitta e continuare a vagare per quella città fino alla fine dei suoi
giorni. Nessuna delle due sembrava convincerla.
«Mio nonno dice che
sei strana: vesti come vestiva mia nonna quando era giovane!» osservò il ragazzo
ridendo.
«Se ti dico che
forse potrei venire dagli anni in cui tua nonna era giovane, mi prenderesti per
folle?» si lasciò sfuggire Olivia, scrutando il volto del
ragazzo.
«Probabilmente sì.
Ma è anche vero che i tuoi vestiti, uniti all’espressione della tua faccia, mi
fanno pensare a tutto il contrario, ovvero che stai dicendo la verità. In questo
caso sarei io il folle, perché ti sto dando retta.»
«Sagace».
«Lo
so».
Quel ragazzo era
riuscito a tranquillizzarla e Olivia decise che a quel punto era meglio fidarsi
e chiedergli un po’ di informazioni. Ora come ora, non aveva nulla da
perdere.
«Mi chiamo Leo, a
proposito.»
«Olivia. Posso
davvero chiederti tutto quello che voglio, anche se le mie domande ti
sembreranno assurde e fuori dal comune?»
Leo sorrise ancora,
sembrava non fare altro, e la invitò a seguirlo: parlare in mezzo alla strada
come se niente fosse non gli sembrava un’idea molto saggia. Imboccarono delle
viuzze strette e piene di ciarpame, delle scorciatoie che si snodavano tra gli
edifici di Londra. Sbucarono a St. James’s Park e presero posto sotto un grosso
albero, lontani da occhi e orecchie indiscreti.
«Deduco che tu non
possa sapere del perché mi trovi nel futuro, vero?»
«No, la mia
intelligenza non arriva fino a questo punto.»
«Perfetto. Quindi
non sai nemmeno come possa tornarmene a casa mia.»
«Infatti.»
«E allora mi dici
come puoi essermi d’aiuto?»
Leo si mise a
giocare con i fili d’erba, puntando lo sguardo al laghetto davanti a
loro.
«Non ti sei chiesta
perché nel 2062 il mondo sembra essere tornato indietro?»
«Veramente sì, ma
non è la mia principale preoccupazione al momento».
«Dovrebbe invece.
Non so perché sei capitata qui, ma un motivo c’è di
sicuro.»
«Di che stai
blaterando? Che vuol dire?»
«Dico che, se sei
qui adesso, è perché qualcuno voleva che tu vedessi dove è arrivata la civiltà
umana».
Olivia continuava a
non capire. Non credeva nel destino, era fermamente convinta che ognuno fosse
l’artefice del proprio avvenire e che se davvero quella era la Londra del 2062,
non era necessario che ci fosse solo quella realtà. Magari, in un’altra
dimensione c’era quella stessa città, nello stesso anno, ma con un’esistenza
diversa: magari con macchine volanti e grattacieli galleggianti, chi poteva
dirlo.
«Ti piace il mondo
del 2010, Olivia?» le chiese Leo con uno sguardo enigmatico, come di chi sta
cercando di far ragionare una bambina piccola.
«Diciamo che
potrebbe essere migliore. Sai, non tutti gli esseri umani sono intelligenti,
alcuni ti fanno cascare le braccia! Ma credo che sia una caratteristica presente
in tutte le epoche storiche della Terra.»
«Gli uomini hanno
fatto anche cose buone».
«Sì, ma se le
paragoni a quelle non buone… non c’è confronto, dai!»
Leo sembrò
riflettere seriamente all’ultima affermazione di Olivia.
«Permettimi di
raccontarti una storia» le disse, sistemandosi a sedere più comodamente
sull’erba.
«Immagina che il
mondo, il tuo mondo, sia arrivato al
capolinea. L’uomo ha inventato grandi cose, come le macchine, le fabbriche, le
navi, i cellulari e qualsiasi cosa ti possa venire in mente! Ha migliorato la
sua vita, l’ha resa più comoda; ma a quale prezzo? Io non mi reputo un esperto,
ma se c’è qualcosa che ho imparato è che da sempre l’uomo ha la brama di avere
ogni volta di più, di non accontentarsi mai: siamo egoisti, ammettiamolo.
Il troppo stroppia
e infatti ci siamo ritrovati con l’effetto serra e l’inquinamento dovuto
praticamente a qualsiasi cosa».
«Però pensa anche,
Leo, che è inevitabile che la società progredisca. L’essere umano è l’unico
animale dotato della ragione ed è impensabile che la usi solo per mangiare e
fare la pipì!»
Leo rise di gusto,
osservando la faccia seria con cui
Olivia aveva appena parlato.
«Bè, non lo trovi
un paradosso interessante?»
«Interessante ed
estremamente pessimistico».
«Ma reale. E’
quello che è successo qui, sai? Il mondo è arrivato al culmine verso il 2012.
L’uomo aveva scoperto e inventato di tutto, dalle cose essenziali a quelle
pienamente futili; così invece di continuare ad andare avanti, stiamo
regredendo».
Olivia rimase in
silenzio, registrando attentamente le parole di Leo. Tutta la fatica delle varie
civiltà per migliorare le proprie condizioni sarebbe sfumata poco a poco,
ritornando alle origini.
«Per questo sembra
di essere negli anni Cinquanta o giù di lì?» chiese
ingenuamente.
«Sì. Potremmo
chiamarla “punizione”. Continueremo ad andare indietro fino all’età della
pietra, alle glaciazioni, magari ai dinosauri».
«E a quel punto? Ci
autodistruggeremo con un Big Bang?»
«O forse
ricominceremo di nuovo a progredire, fino ad arrivare a un nuovo culmine. Magari
però inventando cose diverse, che riescano a tutelare anche la natura del nostro
pianeta, dato che nell’ultimo secolo non ci è riuscito molto
bene».
Rimasero in
silenzio per diversi minuti, nei quali Olivia pensò seriamente al suo mondo nel
2010: non le piaceva effettivamente, trovava che al potere ci fossero persone
non competenti, che i soldi fossero nei conti correnti delle persone sbagliate e
che tutti erano troppo pigri per cercare davvero di migliorare le cose. Ma
nonostante tutta la spazzatura che ci poteva essere, lei ci abitava, era nata lì
e le sarebbe dispiaciuto sapere che un giorno la Terra sarebbe addirittura
tornata indietro.
«Potrebbero
cambiare le cose?» chiese allora a Leo.
«Forse, io non
posso saperlo».
Olivia
annuì.
«Credo che sia
l’ora di tornare a casa».
«E come ci torno,
volando?» domandò la ragazza, alzando un sopracciglio
scettica.
Leo scoppiò
nuovamente a ridere e il rumore delle sue risate fu l’ultima cosa che udì
Olivia, prima di essere sommersa
nel buio.
Quando riaprì gli
occhi, era di nuovo a casa, sul suo divano rosso, proprio come aveva
immaginato.
Era stato un sogno,
uno come tanti altri, ma questa volta le aveva lasciato un sapore amaro in
bocca, una consapevolezza nel cuore che la fece sorridere tristemente. Chissà se
Leo esisteva davvero in qualche parte del mondo, o era stata semplicemente la
sua fantasia a concepirlo, come una specie di grillo
parlante.
«Ah, ti sei
svegliata».
Sua madre si
affacciò dalla porta della cucina, sorridendole.
«Hai dormito per
quasi tre ore, hai fatto un bel sogno?»
«Uno come tanti» si
limitò a rispondere la giovane, mettendosi in posizione eretta e stiracchiando
le braccia.
«Sai mamma, il
sedici aprile del 2062 vorrei andare a Londra» dichiarò poco dopo, con lo
sguardo pensoso.
«E a fare che?»
domandò la donna, curiosa.
«Sai, voglio controllare se a Palmer Street c’è una libreria…»
Note:
Ho scritto questo racconto per un compito scolastico.
Ad alcune persone è molto piaciuto, quindi non so, magari piace anche a voi :D