Allora allora...che dire di questa raccolta? Innanzitutto, forse,
che sono secoli che voglio scriverla e che spero sia il primo di tanti racconti
sulle canzoni del meraviglioso poeta De André.
Poi devo dire che è
scritta a quattro mani con il mio meraviglioso fidanzato, e che è anche a lui
dedicata, per dirgli che lo amo con tutto il cuore.
Ci prenderemo i
nostri tempi per scriverla e sospetto che una buona parte sarà composta sul
treno che mi porterà, sa lunedì, avanti e indietro da Milano.
Ci sono i nostri
cuori in ogni parola e un commento sarebbe davvero un regalo stupendo per farci
capire se siamo una buona squadra J
Da ultimo... la
storia è così strutturata: un primo, lungo capitolo che sarà diviso in due o
tre parti e poi otto capitoli lunghi, per ogni canzone dell’album “Non al
denaro, non all’amore né al cielo”.
Tutti i testi
appartengono al loro creatore, Fabrizio De André e la storia non è scritta a
fini di lucro.
Detto ciò vi lascio
alla lettura!!!
Temperance
Non al denaro
Non all’amore
Né al cielo
Una raccolta
di
Temperance_Booth & Dr.Bailey
-La
Collina-
Arrivò
nella cittadina di Spoon River che aveva poco più di vent’anni, un cappellaccio
in testa, poche monete e il suo violino come unico bagaglio.
La collina,
il cui verde lui, ragazzo di mare, così tante volte aveva invidiato,
guardandolo da lontano, era ora bianca, totalmente ricoperta da una neve
sottile e leggera.
Sembrava
quasi che qualcuno vi avesse versato sopra il contenuto di un’immensa
zuccheriera.
Era
giovane, bello quanto basta per non essere mai solo e abbastanza bravo a
suonare per non avere una casa né una donna.
Era un
sognatore, insomma, un artista dall’aria disordinata che amava viaggiare e che
pensava lo avrebbe fatto per tutta la vita.
Mai
avrebbe pensato che Spoon River, la piccola Spoon River, a stento segnata sulle
carte, sarebbe diventata la sua dimora per così tanto tempo.
Un
tempo che nemmeno riusciva più a misurare.
Non seppe
mai cosa lo spinse, quel giorno di tanti anni fa, ad andarvi, ed ancora meno cosa
lo spinse a rimanervi, ma fu sempre più che certo che non avrebbe mai
dimenticato quella forza irresistibile che lo attrasse verso la cancellata
bassa e scura. Come un magnete, una calamita che gli prese il cuore e lo
costrinse ad attraversare quegli angeli stilizzati, introducendosi nel luogo
più meraviglioso, inquietante e, paradossalmente, più ricco di vita che gli
fosse mai capitato di vedere.
Ed è
proprio di questo luogo che io vi voglio parlare, figli del mondo.
Quando
si pensa ad un cimitero la prima cosa che balza alla mente sono gli angeli di
marmo, figure inquietanti che incombono come alati giustizieri su grandi lastre
grigie effigiate di nomi e numeri.
Sono
le tombe dei ricchi, di coloro che anche dopo la morte vogliono essere
ricordati... se non altro per un’orrenda statua dagli occhi spenti. Però non
sono queste le uniche, taciturne abitanti dei cimiteri, soprattutto non di
quello di Spoon River.
Non ce
n’erano poi molte, lì, delle persone che sono normalmente etichettate come
importanti e non furono certo le tombe di quelle poche che, in quel giorno
lontano, parlarono a Jones.
Camminando
tra semplici lapide di pietra grigia e bianche croci militari, il musicista
poté rendersi conto di ciò che quasi nessuno sa.
Jones
il violinista giramondo capì, quel giorno, che i cimiteri sono tutt’altro che
luoghi silenziosi e che ogni tomba ha moltissimo da dire... basta soltanto
saperle ascoltare.
E chi,
meglio di un musicista, sa che cosa significhi ascoltare?
Dove se
n’è andato Elmer
Che di
febbre si lasciò morire?
La
prima lapide che gli parlò si trovava quasi nascosta dall’esagerato acero
piantato sulla tomba vicina.
Era
piccola e irregolare, con le incisioni tanto sbiadite da essere quasi
invisibili. Poco più di un sassolino su quella grande collina, insomma, eppure
fu proprio lei a chiamarlo, facendolo quasi cadere con uno sgambetto meschino.
“Guardami”,
gli disse la tomba, con quel suo dispetto.
E lui
la guardò.
Non
c’erano dediche né epitaffi e tutto ciò che gli fu dato sapere fu che lì sotto
riposavano le spoglie di Elmer Lee, morto nel 1796 all’età di trentadue anni.
Non
sembrava una lapide particolarmente loquace, e Jones stava già ponderando
l’idea di passare oltre, ma poi la vide.
Ancora
più piccola, più logora e più nascosta, la lapide gemella emergeva a stento
dall’erba mal tagliata del camposanto, ma era comunque lì, ben visibile ad un
occhio attento.
Il
nome che recava era quello di Janet Lee, morta all’improvviso nel 1795.
E fu
allora che la tomba incominciò a parlare.
Elmer Lee faceva
le scarpe.
Gli stivaletti da
lavoro di tutto il villaggio erano usciti, lucidi e forti, dalla sua bottega.
Le migliori suole
chiodate che Spoon River avesse mai visto, aveva detto il reverendo Thomas, che
aveva girato il mondo e di suole ne aveva viste parecchie.
Tutti conoscevano
Elmer e tutti avevano comperato almeno una volta da lui, per pochi spiccioli,
le fedeli compagne dei loro piedi.
Per questo,
quando Elmer Lee si ammalò, tutta Spoon River fece la fila alla sua porta con
frutti magici e balsami miracolosi che, a detta di tutti, gli avrebbero
garantito una pronta guarigione.
Solo che Elmer
non voleva guarire.
Spoon River,
piccola e chiassosa, non aveva capito che Elmer Lee era morto già molto tempo
prima che il suo feretro fosse calato nella fossa.
Erano giovani,
nel giorno del loro matrimonio, ma in un villaggio di collina si invecchia in
fretta e presto lui e Kate si erano ritrovati l’unica coppia della loro
generazione a non possedere un erede.
Era triste e
bellissima, Kate, ai suoi occhi, e l’amava come il primo giorno, ma lei
soffriva la mancanza di un figlio e l’ingiustizia di una vita che non pareva
avere spazio a sufficienza per la sua felicità.
Poi finalmente
rimase incinta, e fu la gioia travolgente di quel nuovo amore a portarla,
lentamente, verso ciò che, di solito, ha il nome di morte.
L’uccise il parto
e la bambina non vide mai la luce, così come, da allora, cessarono
di vederla gli occhi di Elmer.
Elmer Lee non
voleva guarire e ringraziava ogni istante la febbre, che era arrivata tanto presto.
Dopotutto,
pensava, morire d’amore era molto meglio che sentirsi portar via la vita da una
pallottola nel cuore.
Il perché di una
tomba tanto insignificante?
Semplicemente una
piccola vendetta degli abitanti di Spoon River, che, da quel giorno, furon costretti a pagare prezzi più alti per scarpe più
brutte.
Jones
sorrise, amaro.
Sì,
era una bella storia. Forse, dopotutto, era davvero andata così.
Il
finale, poi, era più che plausibile: amare una persona in modo gratuito era
fuori moda da un pezzo già ai tempi di Elmer Lee, ci avrebbe giocato il
violino!
Dov’è
Hermann bruciato in miniera?
Passandosi
una mano tra i folti capelli, il musicista passò oltre, a spalla sempre il suo
fedele violino, per avviarsi verso una lapide del tutto particolare e diversa
da ogni altra.
Era
grande, grande anche più degli scorbutici angeli dei ricchi, ma molto più degna
di attenzione.
Si
trattava di un alto e stretto parallelepipedo al quale stava come appoggiato un
enorme piccone, anch’esso plasmato a partire da un blocco di marmo.
L’epitaffio
era breve, conciso: qui riposano i nostri
fratelli, i minatori di Spoon River, spentisi nell’incendio della miniera d’oro
nostra, nell’anno del Signore 1835.
Seguiva
una lunghissima lista di nomi e di età, quasi infinita.
Faceva
spavento, pensò Jones, rendersi conto che lì sotto giacevano le ossa o le
ceneri di così tante persone che, una volta, come lui, avevano mosso i loro
passi su quella stessa terra.
Cercò
con gli occhi un nome, tra tutti quelli, che potesse parlargli, come aveva
fatto la tomba di Elmer Lee, deliziargli le orecchie con la musica di una
triste storia lontana.
Perché
che fosse triste, non esisteva neppure il minimo dubbio.
Lo
colpì al cuore l’età di un ragazzo, morto nell’incendio a soltanto sedici anni,
senza aver mai conosciuto la vita.
Hermann
Butler era il suo nome.
La sua
storia solo una mesta ballata nella testa di un suonatore.
Avrebbe voluto
fare il dottore.
Questo pensava
Hermann Butler, sedici anni, tra un colpo di piccone e l’altro sulle pareti
della miniera, onore e ricchezza del villaggio di Spoon River.
Avrebbe voluto
fare il dottore, come Matthew Gallagher, suo coetaneo più ricco, che studiava
nella grande città.
Matthew Gallagher
però aveva ciò che a lui mancava: dei genitori che gli pagassero ogni
capriccio.
Lui invece no.
Lui aveva un
padre morto, una madre per metà paralitica e quattro sorelle.
Quattro femmine
inutili, che però mangiavano più di lui, unico in grado di lavorare.
Invidiava Matthew
Gallagher con ogni fibra del suo essere.
Forse lo odiava.
Anzi, lo odiava
di sicuro.
Stava giusto
pensando che sarebbe stato non troppo difficile uccidere Matthew Gallagher,
dare la colpa a qualcun altro e rubargli tutti i soldi, quando un boato sordo
proveniente dal fondo della galleria in cui stava scavando gli gelò
letteralmente il sangue nelle vene.
Un’esplosione in
miniera non era mai cosa buona.
Era proprio ciò
che gli avevano insegnato a temere.
E corse, Hermann
Butler, maledicendo suo padre, sua madre, le sue sorelle, Matthew Gallagher e
quel Dio che lo aveva fatto nascere povero e crescere minatore.
Fu solo quando
vide le fiamme avvicinarsi che si rese conto di non avere più il tempo di amare
nessuno.
Chissà se
qualcuno scorse mai, tra le ceneri del suo volto annerito, il solco lasciato
dall’unica lacrima che il fuoco gli concesse di versare...
Jones
si sentì scorrere su per la schiena un brivido lento in modo del tutto
innaturale.
Provava
una repulsione terribile per le fosse comuni.
Secondo
il suo modesto parere, erano una delle cose più tristi che il mondo avesse mai
partorito, vera espressione dell’indifferenza umana.
Lo
facevano piangere, le fosse comuni, e, dunque, decise che allontanarsene il più
in fretta possibile fosse in assoluto la miglior cosa da fare.
C’erano
tante altre tombe che aspettavano di raccontargli la loro storia, e lui non
vedeva l’ora di ascoltarla.
Dove
sono Bert e Tom,
il
primo ucciso in una rissa
e
l’altro che uscì già morto di galera?
Quelle
esattamente davanti a lui, a pochi passi da quell’orrendo buco dai troppi nomi,
quelle, ad esempio, promettevano molto bene.
Due
grosse lapidi di identico squallore, coperte dall’erica in modo troppo
massiccio perché fosse possibile leggere le lettere incise in esse.
Jones
si chinò, scostando un poco le piccole foglie della pianta, fino ad essere in
grado di distinguere due nomi, scritti di fretta e male, dalla medesima mano
maldestra.
Robert
e Thomas.
Nessun
cognome, nessuna data.
Quelle
sì che erano tombe interessanti.
Antiche
dimore eterne di povera gente... chissà quante cose avevano da dirgli.
Ogni sera
percorreva quella via, sperando di intravedere il suo viso affacciato alla
piccola finestra della camera dove viveva.
Lo chiamavano
l’illuso, Tom, e lui lo sapeva, eppure non gli importava delle dicerie che i
suoi coetanei che, dal fondo della piccola strada che si inerpicava a fatica
sul fianco di quella collina, utilizzavano per farsi beffe di lui... Tom, il
giovane figlio del postino, così sciocco da essersi invaghito di Maggie, la
prostituta di Spoon River, famosa tra gli uomini e malvoluta dalle mogli.
L’aveva veduta
per la prima volta in un giorno d’estate.
L’aveva veduta
mentre camminava lungo Field Street.
L’aveva veduta, e
da allora mai una parola, mai uno sguardo o un gesto gli erano stati rivolti
dalla fanciulla dai capelli corvini.
Sapeva che lei si
faceva pagare per fare l’amore, eppure era solo per lei che batteva il cuore
del giovane Tom, che aveva persino accettato di fare il tanto odiato mestiere
del padre, pur di trovarsi sovente a passare per il bordello, dimora e prigione
della bella Maggie.
Quella sera, come
ogni sera, lo stridere della bicicletta rompeva il silenzio che, inesorabile,
aveva preso a scendere su Spoon River.
Era novembre.
I freni
fischiarono forte, quasi urlando di dolore, quando gli occhi di Tom scorsero la
sagoma di Maggie, accasciata sull’uscio del bordello.
La sua pelle non
era più rosea e il rosso delle sue labbra lasciava irrimediabilmente spazio al
blu, che piano piano si stava impossessando di tutto
il suo corpo.
Era morta,
Maggie, con la paura negli occhi, in quegli stessi occhi che, prima di
chiudersi per sempre, si fermarono in quelli di Tom, chiedendo un ultimo,
disperato aiuto.
Chiedevano di
strapparla alla vista di quell’animale le cui carezze l’avevano uccisa,
quell’animale che si era impossessato di lei con l’impareggiabile che solo
Bert, vecchio lupo di mare abbrutito da onde e salsedine, poteva possedere.
Se ne stava in
piedi, ubriaco ed immobile, davanti al giovane corpo senza vita, l’attonito Bert,
con il capo della ragazza riverso, vicinissimo alla punta delle scarpe di
consumato cuoio nero.
La bicicletta
cadde a terra e Tom, con il cuore spezzato dal dolore atroce di chi perde una
parte di sé e folle di rabbia, si avventò sull’artefice dell’omicidio.
Non una parola da
parte di Bert, non un cenno di movimento.
Non tentava di
sfuggire alla furia di Tom, che estrasse dalla tasca sinistra un tagliacarte,
inserito mesi prima nei suoi pantaloni con la convinzione che, prima o poi, gli
sarebbe tornato utile.
Quella sera,
l’innocuo oggetto fu impugnato vigorosamente da una mano pallida, quasi
infantile, e fatto penetrare ferocemente nell’addome del vecchio marinaio.
Uno, due, tre,
cinque, venti pugnalate trafissero un corpo ormai a terra, senza più l’ombra di
una vita dedita all’alcool, alle donne e al mare.
Tom guardava,
impietoso, Bert disteso in un lago di sangue, sgorgato copioso a causa della
violenza dei colpi.
Gli schizzi gli
avevano imbrattato di rosso vivo il viso e gli indumenti, raggiungendo anche
gli scoloriti muri del bordello.
In quei folli
momenti, il ragazzo era giunto persino a dimenticare tutto l’amore che nutriva
per Maggie, riversa a terra, gli occhi ancora aperti.
Se ne ricordò
solo quando udì in lontananza gli zoccoli del cavallo dello sceriffo che,
allertato dalla proprietaria del bordello che aveva assistito alla scena, poco
dopo l’avrebbe scortato alle porte della galera.
Arrivato in cella
dopo un breve interrogatorio, Tom si distese sulla branda.
Dormì bene,
quella notte, non un accenno di pensiero a quanto era accaduto poche ore prima.
Sognò.
Sognò un vecchio
dall’aspetto gaio che suonava per lui il suo violino, mentre la brezza
primaverile gli accarezzava il viso, posato di lato sull’erba verdissima.
La mattina
seguente, Tom fu svegliato dal rumore del manganello della guardia, battuto
ripetutamente sulle sbarre delle celle.
Ancora intontito,
fu trascinato per un braccio nelle fila dei detenuti destinati al primo turno
delle docce.
Un’acqua
arancione di ruggine bagnava il suo corpo esile.
Freddo.
Fece solo in tempo
a vedere il rosso del suo sangue mischiarsi all’acqua che, nel frattempo, aveva
raggiunto il traguardo della limpidezza.
Poi più niente.
Anche la vita di
Tom volò via per un coltello e una scommessa tra i detenuti destinati
all’ergastolo.
Il
musicista accarezzò il violino, compiaciuto.
Trovava
di un certo romanticismo l’idea che due nemici riposassero eternamente vicini e
la figura di Maggie, poi, sembrava uscita da una delle sue canzoni, quella
scritta in Italia, in quella stupenda Via del Campo.
Il fatto
che l’illuso in questione fosse lui... beh, questo non faceva differenza.
Il
vecchio violinista nel sogno, poi, era proprio un tocco di classe.
Sorrise.
Si
sentiva quasi un piccolo Dio a ridare vita a tutte quelle persone.
Forse
Bert e Tom erano stati fratelli, cugini o amanti... non importava, non a lui.
Quello
era il suo gioco, solo suo, di lui, che di giocare con i morti non aveva paura.
E cosa
ne sarà di Charley
Che
cadde mentre lavorava
E dal
ponte volò e volò sulla strada?
Decise
di chiudere gli occhi e lasciarsi portare dal caso.
Posò
delicatamente il violino sulla tomba di Tom, accarezzandolo piano, perché
sapeva che probabilmente avrebbe inciampato e non voleva rischiare di
danneggiare lo strumento.
Non
avrebbe mai potuto permettersene un altro... lo sapeva bene quando aveva venduto
le terre.
E così
chiuse gli occhi.
Avanzò
piano tra le tombe, le mani che ondeggiavano leggere ai suoi fianchi, tenendo
un ritmo regolare.
Non cadde.
Il suo
piede si fermò appena prima di sforare la pietra nuda e grezza di una tomba
senza lapide.
La
punta slabbrata della scarpa non era lontana più di pochi millimetri, quasi
come se qualcuno l’avesse fermata di proposito.
Jones
sorrise, leggendo il nome scritto sulla lastra, inciso a fatica da una mano
affettuosa che aveva voluto porre riparo al furto della parte superiore della
sepoltura.
Evidentemente,
Charles J. Conrad non voleva farlo cadere...
Charles Joseph
Conrad amava il suo lavoro, e non erano in molti a Spoon River a poter dire lo
stesso.
Era un manovale,
un muratore. Un mestiere umile, che per lui aveva però qualcosa di mistico, di
incredibilmente simile all’arte.
Lui costruiva,
con calce e mattoni, le vite delle persone che avrebbero abitato quelle case.
Mura solide per
solidi amori... questa era la sua filosofia.
Per un uomo che
lavora in alto, sui tetti, però, è terribilmente pericoloso essere filosofo.
Stava guardando
la collina, quel giorno.
La guardava dall’alto
del campanile, il cui tetto necessitava di una riparazione, e pensava che Dio
si era davvero impegnata nel crearla.
Il dolce pendio
più verde della speranza scendeva piano, senza imperfezioni, fino alla valle
vicina, che pareva disegnata dalla mano esperta di un pittore di quelli che
vivevano nelle città e che facevano l’arte vera.
Gli sarebbe
piaciuto fare il pittore.
O lo scultore,
magari.
Sì, con i sassi
ci sapeva fare.
Senza un motivo
apparente, il suo sguardo si posò sul cimitero, le cui croci bianche rilucevano
in lontananza.
Li avrebbe fatti
lui, gli angeli del cimitero, se fosse stato uno scultore.
Li avrebbe fatti
lui e sarebbero stati molto più belli di quegli uccellacci di pietra.
Avrebbero volato
davvero, i suoi angeli, con delle ali di una pietra tanto sottile da parere
trasparente, e i loro occhi non sarebbero stati vuoti e tristi, ma buoni e
misericordiosi, come quelli del buon Dio.
La gente avrebbe
fatto a gara per avere i suoi angeli a vegliare per sempre.
Pensò poi che anche
volare gli sarebbe piaciuto.
Magari su un pallone,
alla moda francese.
Sarebbe stato
meraviglioso, volare...
Charles nemmeno
si accorse di aver messo un piede in fallo.
Riuscì solo a
pensare, per un istante, che era vero, stava volando sul serio, prima che il
suo corpo si ricongiungesse con la terra a cui tutti gli uomini appartengono.
Solo Spoon River
poteva vantare un manovale filosofo, un muratore che voleva volare...e che
riposa per sempre sotto una lastra di pietra senza angeli a vegliarne il sonno.
Dormono
dormono sulla collina,
dormono
dormono sulla collina...
Continua...