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Autore: Cara_Sconosciuta    01/10/2010    2 recensioni
I morti di Spoon River tornano a parlare con la voce del più famoso di loro, il violinista Jones, e le parole magiche e poetiche di Fabrizio De André, portate su carta dalle penne di due (reali) innamorati.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Allora allora...che dire di questa raccolta? Innanzitutto, forse, che sono secoli che voglio scriverla e che spero sia il primo di tanti racconti sulle canzoni del meraviglioso poeta De André.

Poi devo dire che è scritta a quattro mani con il mio meraviglioso fidanzato, e che è anche a lui dedicata, per dirgli che lo amo con tutto il cuore.

Ci prenderemo i nostri tempi per scriverla e sospetto che una buona parte sarà composta sul treno che mi porterà, sa lunedì, avanti e indietro da Milano.

Ci sono i nostri cuori in ogni parola e un commento sarebbe davvero un regalo stupendo per farci capire se siamo una buona squadra J

Da ultimo... la storia è così strutturata: un primo, lungo capitolo che sarà diviso in due o tre parti e poi otto capitoli lunghi, per ogni canzone dell’album “Non al denaro, non all’amore né al cielo”.

Tutti i testi appartengono al loro creatore, Fabrizio De André e la storia non è scritta a fini di lucro.

Detto ciò vi lascio alla lettura!!!

Temperance

Non al denaro

Non all’amore

Né al cielo

Una raccolta

di

Temperance_Booth  &  Dr.Bailey

 

-La Collina-

 

Arrivò nella cittadina di Spoon River che aveva poco più di vent’anni, un cappellaccio in testa, poche monete e il suo violino come unico bagaglio.

La collina, il cui verde lui, ragazzo di mare, così tante volte aveva invidiato, guardandolo da lontano, era ora bianca, totalmente ricoperta da una neve sottile e leggera.

Sembrava quasi che qualcuno vi avesse versato sopra il contenuto di un’immensa zuccheriera.

Era giovane, bello quanto basta per non essere mai solo e abbastanza bravo a suonare per non avere una casa né una donna.

Era un sognatore, insomma, un artista dall’aria disordinata che amava viaggiare e che pensava lo avrebbe fatto per tutta la vita.

Mai avrebbe pensato che Spoon River, la piccola Spoon River, a stento segnata sulle carte, sarebbe diventata la sua dimora per così tanto tempo.

Un tempo che nemmeno riusciva più a misurare.

Non seppe mai cosa lo spinse, quel giorno di tanti anni fa, ad andarvi, ed ancora meno cosa lo spinse a rimanervi, ma fu sempre più che certo che non avrebbe mai dimenticato quella forza irresistibile che lo attrasse verso la cancellata bassa e scura. Come un magnete, una calamita che gli prese il cuore e lo costrinse ad attraversare quegli angeli stilizzati, introducendosi nel luogo più meraviglioso, inquietante e, paradossalmente, più ricco di vita che gli fosse mai capitato di vedere.

Ed è proprio di questo luogo che io vi voglio parlare, figli del mondo.

Quando si pensa ad un cimitero la prima cosa che balza alla mente sono gli angeli di marmo, figure inquietanti che incombono come alati giustizieri su grandi lastre grigie effigiate di nomi e numeri.

Sono le tombe dei ricchi, di coloro che anche dopo la morte vogliono essere ricordati... se non altro per un’orrenda statua dagli occhi spenti. Però non sono queste le uniche, taciturne abitanti dei cimiteri, soprattutto non di quello di Spoon River.

Non ce n’erano poi molte, lì, delle persone che sono normalmente etichettate come importanti e non furono certo le tombe di quelle poche che, in quel giorno lontano, parlarono a Jones.

Camminando tra semplici lapide di pietra grigia e bianche croci militari, il musicista poté rendersi conto di ciò che quasi nessuno sa.

Jones il violinista giramondo capì, quel giorno, che i cimiteri sono tutt’altro che luoghi silenziosi e che ogni tomba ha moltissimo da dire... basta soltanto saperle ascoltare.

E chi, meglio di un musicista, sa che cosa significhi ascoltare?

 

Dove se n’è andato Elmer

Che di febbre si lasciò morire?

 

La prima lapide che gli parlò si trovava quasi nascosta dall’esagerato acero piantato sulla tomba vicina.

Era piccola e irregolare, con le incisioni tanto sbiadite da essere quasi invisibili. Poco più di un sassolino su quella grande collina, insomma, eppure fu proprio lei a chiamarlo, facendolo quasi cadere con uno sgambetto meschino.

“Guardami”, gli disse la tomba, con quel suo dispetto.

E lui la guardò.

Non c’erano dediche né epitaffi e tutto ciò che gli fu dato sapere fu che lì sotto riposavano le spoglie di Elmer Lee, morto nel 1796 all’età di trentadue anni.

Non sembrava una lapide particolarmente loquace, e Jones stava già ponderando l’idea di passare oltre, ma poi la vide.

Ancora più piccola, più logora e più nascosta, la lapide gemella emergeva a stento dall’erba mal tagliata del camposanto, ma era comunque lì, ben visibile ad un occhio attento.

Il nome che recava era quello di Janet Lee, morta all’improvviso nel 1795.

E fu allora che la tomba incominciò a parlare.

 

Elmer Lee faceva le scarpe.

Gli stivaletti da lavoro di tutto il villaggio erano usciti, lucidi e forti, dalla sua bottega.

Le migliori suole chiodate che Spoon River avesse mai visto, aveva detto il reverendo Thomas, che aveva girato il mondo e di suole ne aveva viste parecchie.

Tutti conoscevano Elmer e tutti avevano comperato almeno una volta da lui, per pochi spiccioli, le fedeli compagne dei loro piedi.

Per questo, quando Elmer Lee si ammalò, tutta Spoon River fece la fila alla sua porta con frutti magici e balsami miracolosi che, a detta di tutti, gli avrebbero garantito una pronta guarigione.

Solo che Elmer non voleva guarire.

Spoon River, piccola e chiassosa, non aveva capito che Elmer Lee era morto già molto tempo prima che il suo feretro fosse calato nella fossa.

Erano giovani, nel giorno del loro matrimonio, ma in un villaggio di collina si invecchia in fretta e presto lui e Kate si erano ritrovati l’unica coppia della loro generazione a non possedere un erede.

Era triste e bellissima, Kate, ai suoi occhi, e l’amava come il primo giorno, ma lei soffriva la mancanza di un figlio e l’ingiustizia di una vita che non pareva avere spazio a sufficienza per la sua felicità.

Poi finalmente rimase incinta, e fu la gioia travolgente di quel nuovo amore a portarla, lentamente, verso ciò che, di solito, ha il nome di morte.

L’uccise il parto e la bambina non vide mai la luce, così come, da allora, cessarono di vederla gli occhi di Elmer.

Elmer Lee non voleva guarire e ringraziava ogni istante la febbre, che era arrivata tanto presto.

Dopotutto, pensava, morire d’amore era molto meglio che sentirsi portar via la vita da una pallottola nel cuore.

Il perché di una tomba tanto insignificante?

Semplicemente una piccola vendetta degli abitanti di Spoon River, che, da quel giorno, furon costretti a pagare prezzi più alti per scarpe più brutte.

 

Jones sorrise, amaro.

Sì, era una bella storia. Forse, dopotutto, era davvero andata così.

Il finale, poi, era più che plausibile: amare una persona in modo gratuito era fuori moda da un pezzo già ai tempi di Elmer Lee, ci avrebbe giocato il violino!

 

Dov’è Hermann bruciato in miniera?

 

Passandosi una mano tra i folti capelli, il musicista passò oltre, a spalla sempre il suo fedele violino, per avviarsi verso una lapide del tutto particolare e diversa da ogni altra.

Era grande, grande anche più degli scorbutici angeli dei ricchi, ma molto più degna di attenzione.

Si trattava di un alto e stretto parallelepipedo al quale stava come appoggiato un enorme piccone, anch’esso plasmato a partire da un blocco di marmo.

L’epitaffio era breve, conciso: qui riposano i nostri fratelli, i minatori di Spoon River, spentisi nell’incendio della miniera d’oro nostra, nell’anno del Signore 1835.

Seguiva una lunghissima lista di nomi e di età, quasi infinita.

Faceva spavento, pensò Jones, rendersi conto che lì sotto giacevano le ossa o le ceneri di così tante persone che, una volta, come lui, avevano mosso i loro passi su quella stessa terra.

Cercò con gli occhi un nome, tra tutti quelli, che potesse parlargli, come aveva fatto la tomba di Elmer Lee, deliziargli le orecchie con la musica di una triste storia lontana.

Perché che fosse triste, non esisteva neppure il minimo dubbio.

Lo colpì al cuore l’età di un ragazzo, morto nell’incendio a soltanto sedici anni, senza aver mai conosciuto la vita.

Hermann Butler era il suo nome.

La sua storia solo una mesta ballata nella testa di un suonatore.

 

Avrebbe voluto fare il dottore.

Questo pensava Hermann Butler, sedici anni, tra un colpo di piccone e l’altro sulle pareti della miniera, onore e ricchezza del villaggio di Spoon River.

Avrebbe voluto fare il dottore, come Matthew Gallagher, suo coetaneo più ricco, che studiava nella grande città.

Matthew Gallagher però aveva ciò che a lui mancava: dei genitori che gli pagassero ogni capriccio.

Lui invece no.

Lui aveva un padre morto, una madre per metà paralitica e quattro sorelle.

Quattro femmine inutili, che però mangiavano più di lui, unico in grado di lavorare.

Invidiava Matthew Gallagher con ogni fibra del suo essere.

Forse lo odiava.

Anzi, lo odiava di sicuro.

Stava giusto pensando che sarebbe stato non troppo difficile uccidere Matthew Gallagher, dare la colpa a qualcun altro e rubargli tutti i soldi, quando un boato sordo proveniente dal fondo della galleria in cui stava scavando gli gelò letteralmente il sangue nelle vene.

Un’esplosione in miniera non era mai cosa buona.

Era proprio ciò che gli avevano insegnato a temere.

E corse, Hermann Butler, maledicendo suo padre, sua madre, le sue sorelle, Matthew Gallagher e quel Dio che lo aveva fatto nascere povero e crescere minatore.

Fu solo quando vide le fiamme avvicinarsi che si rese conto di non avere più il tempo di amare nessuno.

Chissà se qualcuno scorse mai, tra le ceneri del suo volto annerito, il solco lasciato dall’unica lacrima che il fuoco gli concesse di versare...

 

 

Jones si sentì scorrere su per la schiena un brivido lento in modo del tutto innaturale.

Provava una repulsione terribile per le fosse comuni.

Secondo il suo modesto parere, erano una delle cose più tristi che il mondo avesse mai partorito, vera espressione dell’indifferenza umana.

Lo facevano piangere, le fosse comuni, e, dunque, decise che allontanarsene il più in fretta possibile fosse in assoluto la miglior cosa da fare.

C’erano tante altre tombe che aspettavano di raccontargli la loro storia, e lui non vedeva l’ora di ascoltarla.

 

Dove sono Bert e Tom,

il primo ucciso in una rissa

e l’altro che uscì già morto di galera?

 

Quelle esattamente davanti a lui, a pochi passi da quell’orrendo buco dai troppi nomi, quelle, ad esempio, promettevano molto bene.

Due grosse lapidi di identico squallore, coperte dall’erica in modo troppo massiccio perché fosse possibile leggere le lettere incise in esse.

Jones si chinò, scostando un poco le piccole foglie della pianta, fino ad essere in grado di distinguere due nomi, scritti di fretta e male, dalla medesima mano maldestra.

Robert e Thomas.

Nessun cognome, nessuna data.

Quelle sì che erano tombe interessanti.

Antiche dimore eterne di povera gente... chissà quante cose avevano da dirgli.

 

Ogni sera percorreva quella via, sperando di intravedere il suo viso affacciato alla piccola finestra della camera dove viveva.

Lo chiamavano l’illuso, Tom, e lui lo sapeva, eppure non gli importava delle dicerie che i suoi coetanei che, dal fondo della piccola strada che si inerpicava a fatica sul fianco di quella collina, utilizzavano per farsi beffe di lui... Tom, il giovane figlio del postino, così sciocco da essersi invaghito di Maggie, la prostituta di Spoon River, famosa tra gli uomini e malvoluta dalle mogli.

L’aveva veduta per la prima volta in un giorno d’estate.

L’aveva veduta mentre camminava lungo Field Street.

L’aveva veduta, e da allora mai una parola, mai uno sguardo o un gesto gli erano stati rivolti dalla fanciulla dai capelli corvini.

Sapeva che lei si faceva pagare per fare l’amore, eppure era solo per lei che batteva il cuore del giovane Tom, che aveva persino accettato di fare il tanto odiato mestiere del padre, pur di trovarsi sovente a passare per il bordello, dimora e prigione della bella Maggie.

Quella sera, come ogni sera, lo stridere della bicicletta rompeva il silenzio che, inesorabile, aveva preso a scendere su Spoon River.

Era novembre.

I freni fischiarono forte, quasi urlando di dolore, quando gli occhi di Tom scorsero la sagoma di Maggie, accasciata sull’uscio del bordello.

La sua pelle non era più rosea e il rosso delle sue labbra lasciava irrimediabilmente spazio al blu, che piano piano si stava impossessando di tutto il suo corpo.

Era morta, Maggie, con la paura negli occhi, in quegli stessi occhi che, prima di chiudersi per sempre, si fermarono in quelli di Tom, chiedendo un ultimo, disperato aiuto.

Chiedevano di strapparla alla vista di quell’animale le cui carezze l’avevano uccisa, quell’animale che si era impossessato di lei con l’impareggiabile che solo Bert, vecchio lupo di mare abbrutito da onde e salsedine, poteva possedere.

Se ne stava in piedi, ubriaco ed immobile, davanti al giovane corpo senza vita, l’attonito Bert, con il capo della ragazza riverso, vicinissimo alla punta delle scarpe di consumato cuoio nero.

La bicicletta cadde a terra e Tom, con il cuore spezzato dal dolore atroce di chi perde una parte di sé e folle di rabbia, si avventò sull’artefice dell’omicidio.

Non una parola da parte di Bert, non un cenno di movimento.

Non tentava di sfuggire alla furia di Tom, che estrasse dalla tasca sinistra un tagliacarte, inserito mesi prima nei suoi pantaloni con la convinzione che, prima o poi, gli sarebbe tornato utile.

Quella sera, l’innocuo oggetto fu impugnato vigorosamente da una mano pallida, quasi infantile, e fatto penetrare ferocemente nell’addome del vecchio marinaio.

Uno, due, tre, cinque, venti pugnalate trafissero un corpo ormai a terra, senza più l’ombra di una vita dedita all’alcool, alle donne e al mare.

Tom guardava, impietoso, Bert disteso in un lago di sangue, sgorgato copioso a causa della violenza dei colpi.

Gli schizzi gli avevano imbrattato di rosso vivo il viso e gli indumenti, raggiungendo anche gli scoloriti muri del bordello.

In quei folli momenti, il ragazzo era giunto persino a dimenticare tutto l’amore che nutriva per Maggie, riversa a terra, gli occhi ancora aperti.

Se ne ricordò solo quando udì in lontananza gli zoccoli del cavallo dello sceriffo che, allertato dalla proprietaria del bordello che aveva assistito alla scena, poco dopo l’avrebbe scortato alle porte della galera.

Arrivato in cella dopo un breve interrogatorio, Tom si distese sulla branda.

Dormì bene, quella notte, non un accenno di pensiero a quanto era accaduto poche ore prima.

Sognò.

Sognò un vecchio dall’aspetto gaio che suonava per lui il suo violino, mentre la brezza primaverile gli accarezzava il viso, posato di lato sull’erba verdissima.

La mattina seguente, Tom fu svegliato dal rumore del manganello della guardia, battuto ripetutamente sulle sbarre delle celle.

Ancora intontito, fu trascinato per un braccio nelle fila dei detenuti destinati al primo turno delle docce.

Un’acqua arancione di ruggine bagnava il suo corpo esile.

Freddo.

Fece solo in tempo a vedere il rosso del suo sangue mischiarsi all’acqua che, nel frattempo, aveva raggiunto il traguardo della limpidezza.

Poi più niente.

Anche la vita di Tom volò via per un coltello e una scommessa tra i detenuti destinati all’ergastolo.

 

Il musicista accarezzò il violino, compiaciuto.

Trovava di un certo romanticismo l’idea che due nemici riposassero eternamente vicini e la figura di Maggie, poi, sembrava uscita da una delle sue canzoni, quella scritta in Italia, in quella stupenda Via del Campo.

Il fatto che l’illuso in questione fosse lui... beh, questo non faceva differenza.

Il vecchio violinista nel sogno, poi, era proprio un tocco di classe.

Sorrise.

Si sentiva quasi un piccolo Dio a ridare vita a tutte quelle persone.

Forse Bert e Tom erano stati fratelli, cugini o amanti... non importava, non a lui.

Quello era il suo gioco, solo suo, di lui, che di giocare con i morti non aveva paura.

 

E cosa ne sarà di Charley

Che cadde mentre lavorava

E dal ponte volò e volò sulla strada?

 

 

Decise di chiudere gli occhi e lasciarsi portare dal caso.

Posò delicatamente il violino sulla tomba di Tom, accarezzandolo piano, perché sapeva che probabilmente avrebbe inciampato e non voleva rischiare di danneggiare lo strumento.

Non avrebbe mai potuto permettersene un altro... lo sapeva bene quando aveva venduto le terre.

E così chiuse gli occhi.

Avanzò piano tra le tombe, le mani che ondeggiavano leggere ai suoi fianchi, tenendo un ritmo regolare.

Non cadde.

Il suo piede si fermò appena prima di sforare la pietra nuda e grezza di una tomba senza lapide.

La punta slabbrata della scarpa non era lontana più di pochi millimetri, quasi come se qualcuno l’avesse fermata di proposito.

Jones sorrise, leggendo il nome scritto sulla lastra, inciso a fatica da una mano affettuosa che aveva voluto porre riparo al furto della parte superiore della sepoltura.

Evidentemente, Charles J. Conrad non voleva farlo cadere...

 

Charles Joseph Conrad amava il suo lavoro, e non erano in molti a Spoon River a poter dire lo stesso.

Era un manovale, un muratore. Un mestiere umile, che per lui aveva però qualcosa di mistico, di incredibilmente simile all’arte.

Lui costruiva, con calce e mattoni, le vite delle persone che avrebbero abitato quelle case.

Mura solide per solidi amori... questa era la sua filosofia.

Per un uomo che lavora in alto, sui tetti, però, è terribilmente pericoloso essere filosofo.

Stava guardando la collina, quel giorno.

La guardava dall’alto del campanile, il cui tetto necessitava di una riparazione, e pensava che Dio si era davvero impegnata nel crearla.

Il dolce pendio più verde della speranza scendeva piano, senza imperfezioni, fino alla valle vicina, che pareva disegnata dalla mano esperta di un pittore di quelli che vivevano nelle città e che facevano l’arte vera.

Gli sarebbe piaciuto fare il pittore.

O lo scultore, magari.

Sì, con i sassi ci sapeva fare.

Senza un motivo apparente, il suo sguardo si posò sul cimitero, le cui croci bianche rilucevano in lontananza.

Li avrebbe fatti lui, gli angeli del cimitero, se fosse stato uno scultore.

Li avrebbe fatti lui e sarebbero stati molto più belli di quegli uccellacci di pietra.

Avrebbero volato davvero, i suoi angeli, con delle ali di una pietra tanto sottile da parere trasparente, e i loro occhi non sarebbero stati vuoti e tristi, ma buoni e misericordiosi, come quelli del buon Dio.

La gente avrebbe fatto a gara per avere i suoi angeli a vegliare per sempre.

Pensò poi che anche volare gli sarebbe piaciuto.

Magari su un pallone, alla moda francese.

Sarebbe stato meraviglioso, volare...

Charles nemmeno si accorse di aver messo un piede in fallo.

Riuscì solo a pensare, per un istante, che era vero, stava volando sul serio, prima che il suo corpo si ricongiungesse con la terra a cui tutti gli uomini appartengono.

Solo Spoon River poteva vantare un manovale filosofo, un muratore che voleva volare...e che riposa per sempre sotto una lastra di pietra senza angeli a vegliarne il sonno.

 

Dormono dormono sulla collina,

dormono dormono sulla collina...

 

Continua...

   
 
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