Paola
chiuse gli occhi percependo una
nuova fitta che le attanagliò la parte destra del capo, la
luce intensa del
mattino le impediva di aprirli così indossò gli
occhiali da sole, almeno
avrebbe posto un ulteriore schermo difensivo tra sé e quella
masnada di
ragazzetti insulsi. Quando aveva accettato quel lavoro da tutor era
entusiasta,
sentiva di poter davvero contribuire proficuamente all’
orientamento di quegli
studenti che si sarebbero voluti rivolgere a lei. Era piena di idee, di
gioia
di vivere, di voglia di trasmettere la necessità di avere
una passione nella
vita, di qualsiasi genere, per poterla difendere con le unghie e con i
denti.
Galileo si era fatto mettere al rogo per difendere una propria
convinzione.
Si
era dovuta invece confrontare con sguardi
vacui e capacità lessicali ignobili, per non parlare poi
dell’aspetto con cui
si presentavano. Non era mai stata una maniaca dell’ordine,
ma quando si vedeva
un coglioncello (o coglioncella) con una felpa tutta storta, i jeans
calati sui
fianchi che non lasciavano alcunché
all’immaginazione, biancheria stropicciata,
gomme da masticare ruminate a bocca aperta senza sosta, i cinque minuti
le
giravano. Eccome se le giravano.
Certo
se sotto quell’aspetto avessero
nascosto un minimo di spessore non avrebbe tanto storto il naso, ed
invece le
conversazioni andavano avanti in questa maniera: - Mi dai la guida
dello
studente? – Buongiorno innanzi tutto! –
Sì, vabbè. Sta guida? – Per quale
facoltà sei propenso? – Pro … che?
– Che studi ti piacerebbe fare! Sbottava, la
pazienza già notevolmente provata. – Ah! Boh!
Quello che ha scelto il mio
amico. Dice che se facciamo Lingue ci sono diverse pollastrelle in
giro. A quel
punto prendeva un lungo, lunghissimo respiro e posava con cura la guida
sul
banco per evitare di sbatterla sulla testa del vichingo di turno
… aveva
veramente il terrore del suono che potesse produrre il vuoto spinto
sepolto
sotto quei capelli ingelatinati.
Il
peggio del peggio erano le giornate
come quelle: l’evento dell’orienteering. Doveva
accogliere nel suo amato
dipartimento di studi classici un’intera classe di liceali in
piena crisi
ormonale. Non avevano rispetto per nulla, strappavano arance
dall’alberello nel
cortine, calpestavano e gettavano rifiuti d’ogni genere sul
prezioso lastricato
in pietra, e la cosa peggiore; il motivo per cui li schifava con tutta
se
stessa, era che passavano oltre senza degnare d’uno sguardo
la finestra. Ma
come potevano essere così tanto vuoti, così tanto
disinteressati alla bellezza
fino al punto di non riuscire a riconoscerla nemmeno se veniva loro
parata
dinanzi agli occhi.
Si
sentiva sconfitta, amareggiata. Non
pretendeva tanto, solo un po’ di curiosità. Doveva
inoltre essere del tutto
sincera con se stessa, dopo le prime esperienze catastrofiche si era
lasciata
abbattere, inorridita, e non aveva tentato più il minimo
approccio con i
ragazzi. Dava loro ciò che chiedevano, tanti saluti e grazie.
Quella
mattina la scolaresca sembrava
abbastanza disciplinata, erano entrati, tutti più o meno con
gli auricolari alle
orecchie, e ciondolanti si erano diretti verso il salone centrale dove
ci
sarebbe stata l’accoglienza e poi una breve presentazione del
piano di studi da
parte della professoressa Gemma. Laura, la docente, era molto
più conciliante
di lei, le sorrideva bonaria blandendola, dicendole che quello schifo
che
provava era a causa della sua giovane età. Col tempo avrebbe
imparato ad
apprezzarli, a capirli, a trovare le chiavi giuste per dischiudere i
loro
gusci, aiutandoli a nascere come studenti e poi successivamente come
uomini.
I
ragazzi erano già tutti entrati. Aveva
il tempo di rilassarsi per alcuni minuti. Si voltò e lo
sguardo le cadde su una
coppia di adolescenti. Un ragazzo ed una ragazza che si tenevano per
mano,
fermi, impalati dinanzi alla finestra. Incuriosita li raggiunse.
– Voi non
entrate? La presentazione sta per iniziare. – Oh. Ci scusi.
Noi, a dir la
verità sappiamo già cosa vogliamo fare, non
potremmo rimanere ancora un attimo
qui? Paola li aveva osservati con più attenzione, erano
graziosi nelle loro
magliette a mezze maniche. Soprattutto quella di lui la
colpì, David Bowie. Un
ragazzo che ascoltava il Duca Bianco non poteva esser cattivo.
– E cosa
vorreste studiare? – Storia dell’arte. Aveva
risposto lei all’istante. Una
vocetta dolce, infantile. Teneri. Erano davvero teneri. –
D’accordo, nel salone
sulla destra potrete trovare diverse brochure, guide, vi accompagno.
– Noi …
veramente … ci può dire di che anno è
questa finestra? Paola strabuzzò gli
occhi. Non ci poteva credere. – Vi interessa la finestra?
– Sì, perché? E’ un
reato? Aveva sghignazzato il ragazzo con una punta di sarcasmo. Quei
due le
piacevano sempre più – No, certo che no. Se avete
tempo vi posso raccontare la
storia di questa finestra. – Sì. Se non le da
disturbo. – Mi disturba molto di
più che nessuno me lo chieda.
Si
erano seduti su una panca di pietra
posta davanti alla finestra e con un profondo sospiro di soddisfazione
Paola
aveva cominciato:
Questa
finestra … è
speciale. E’ stata datata intorno al XVII secolo, ma le
origini non sono certe.
Ha però un storia, una leggenda molto romantica.
In questa casa viveva
una ricca famiglia di nobili. Essi avevano una figlia, Lavinia, la cui
bellezza
era rinomata nelle corti vicine e lontane. Aveva i capelli neri come
l’ebano e grandi
occhi da cerbiatto. Ma la fanciulla era cieca per cui passava la
maggior parte
del tempo chiusa nella propria stanza. Diversi pretendenti si
proponevano ai
genitori della ragazza, ma Lavina li respingeva tutti. Amava la
solitudine, e
soprattutto amava cantare. Aveva una voce limpida e cristallina.
Un
giorno un giovane
falegname di nome Bassanio passava sotto la finestra della ragazza, e
appena la
vide se ne innamorò all’istante. Trascorreva ore
in silenzio in questo cortile
a contemplarla, sulla panchina dove noi siamo seduti,
finché, pazzo d’amore,
col disperato bisogno di parlarle, un giorno si arrampicò ad
una siepe che
cresceva di lato alla finestra e lasciò alla fanciulla un
fiore intagliato nel
legno sul davanzale. Ogni giorno, al tramonto, le lasciava un piccolo
dono,
solo per vedere il suo meraviglioso volto illuminarsi di gioia e ridere
felice.
Una
volta mentre lui era
intento a lasciare una delle sue sculture Lavinia si
affacciò, e, avvertendo la
sua presenza, chiese spaventata – Chi sei? Il falegname
all’inizio non rispose,
poi le sussurrò - Un’anima che ti ama. Da quel
momento i due giovani passarono
sempre l’ora del crepuscolo insieme, mormorandosi dolci
parole d’amore finché
lei lo pregò di rivelarsi, e lasciare che lo potesse vedere,
facendosi toccare
il volto. Ma Bassanio troppo intimorito e spaventato dalla bellezza
della
ragazza le confessò di essere un fantasma. Lei, per il
dolore, cadde ammalata.
Il giovane falegname era disperato. I nobili genitori cercarono ogni
cura per
guarire la loro figlioletta ma nulla sembrava efficace. Stava morendo.
Il
falegname allora
si presentò ai genitori di Lavinia, promettendo una cura per
la loro adorata
figlia. Chiese di poterla vedere sola nelle sue stanze, ed i parenti
pronti a
qualsiasi cosa, acconsentirono. Quando fu al capezzale della ragazza si
sedette
accanto a lei mormorandole – Amore mio. Sono qui.
Sono io. Ma lei non
poteva credergli. Allora Bassanio le raccontò ogni cosa e le
promise che
l’avrebbe sposata , poi la baciò delicatamente
sulle labbra.
La ragazza guarì ma i suoi genitori non acconsentirono al
matrimonio,
inorriditi dalla natura sociale inferiore del falegname. Lui, senza
arrendersi,
ogni notte saliva alla finestra di Lavinia e per dimostrarle di non
essere un
fantasma intagliava un pezzo della finestra, chiedendo in cambio un
bacio. Una
notte, prima che lui potesse incominciare, Lavinia prese per mano
Bassanio e lo
condusse nella propria stanza, fermandosi accanto al proprio letto.
Quel
giaciglio coperto da lenzuola bianche, di cotone, quel letto intatto,
puro,
parvero al falegname il simbolo dell’innocenza
dell’amata. La fanciulla sciolse
la stretta e tremando lasciò cadere la veste candida che le
scivolò ai piedi
con un fruscio, modellandosi in morbide onde. Gli apparve in tutta la
sua
delicatezza e fragilità, una bimba, il suo corpo minuscolo
avvolto nella
sottoveste avorio. Il corpo illuminato dalla luce eterea della luna, le
mani
dalle dita sottili e vibranti strette nervosamente in grembo, in attesa.
Bassanio
cadde ai suoi
piedi, sopraffatto, la cinse tra le braccia stringendola, sentendo le
sue gambe
sottili tremare sotto di sé. Piangeva, vinto
dall’emozione, dalla paura di non
sapere come fare, come amarla. Lavinia
s’inginocchiò anch’ella prendendo il
viso dell’amato tra le mani, baciandolo, facendolo sospirare.
Lui la prese tra
le braccia e la adagiò delicatamente sul letto.
Provò a seguire con la punta
delle dita una vena che correva, palpitando, dalla base della sua gola
fino al
seno. Lo strinse con delicatezza nel palmo della mano, sotto la sua
pelle
poteva sentire il suo cuore battere al ritmo del suo respiro tremante.
–
Lavinia, mia dolce Lavina. Mormorò
lui impacciato - Insegnami come fare, mostrami tu
come amarti. Io non posso, dinanzi a questo io sono niente. E lei,
cieca,
mostrò a lui i sentieri del suo corpo. Guidò le
sue mani, le sue labbra,
creando dal nulla un mondo privato, fatto di silenzi e sospiri, di
carezze e
baci che sapevano di frutta, un mondo scuro eppure luminoso. Quando la
prese la
sentì completamente abbandonarsi a lui, concedersi con tutta
se stessa, senza
paura, senza timore. E Bassanio seppe in quell’istante che
non era lei a non
vedere, era sempre stato lui, lui, lui!
Lui
a non
immaginare, a non capire cosa fosse l’amore,
l’abbandono, il trasporto. Si
muoveva in lei piano, dolcemente e la sentiva fremere, legarlo con
braccia e
gambe a sé, ma non ce n’era bisogno. Era suo, lo
sarebbe stato per sempre.
Lavinia aveva visto per la prima volta chi lui fosse veramente,
l’amava per ciò
che era, gli stava donando la completezza di sentirsi uomo, in tutta la
propria
pochezza, fragilità. E lei comunque lo amava. Amava il
falegname, amava il
fantasma codardo, amava lui. Sentì il suo corpo vibrare come
la corda di uno
strumento musicale e la sua anima di riempì di un delicato
languore, mentre lei
si sollevava contro di lui in un ultimo spasmo. Si abbandonò
a quella
sensazione poggiando il mento alla sua spalla, la guancia premuta al
suo collo
mentre il piacere giungeva come una cascata d’acqua limpida
che lo travolse e
gli fece dimenticare di esistere, di essere un uomo, perché
in quel momento non
c’era lui, non c’era lei, ma una cosa sola.
Sfinito, completamente tramortito,
giacque su di lei, il respiro affannoso, il corpo disfatto. Le prese la
mano,
la baciò e poi se la portò alla guancia, sul
cuore, la strinse nella propria
mano, e poi dov’erano uniti per mostrare a lei quel che aveva
sentito lui. I
loro corpi fusi in un unico abbraccio, le loro anime che ormai si
appartenevano. – Sposami mia piccola Lavinia. Rendimi
meritevole d’essere uomo.
Sii mia anche se mai potrò meritarti. –
Sì, mio dolce Bassanio. Come puoi
pensare che non mi meriti? Io non voglio altri che te.
Il
giovane,
impazzito di gioia, scolpì un cuore nella finestra dicendole
che quello era il
suo pegno per la ragazza. Le donava tutto il suo amore, tutto il suo
cuore. Le
promise che avrebbe messo ogni cosa a posto e la notte seguente
l’avrebbe
portata via con sé.
Ma un pretendente respinto vide il falegname uscire all’alba
dalla stanza della
ragazza e raccontò ai suoi genitori ogni cosa. Bassanio
venne ucciso. Quando
Lavinia lo seppe si avvelenò per raggiungere il proprio
amore. Ma un angelo
clemente trasformò la ragazza in una scultura. Da allora,
ogni tanto, nelle
notti buie si può sentire il rumore di uno scalpello
risuonare in questo
giardino e una voce cristallina cantare.
- Vedete ragazzi, la scultura è il bassorilievo in basso a
sinistra e accanto
alle mani della fanciulla potete notare un piccolo cuore. Paola si
voltò,
ancora emozionata dal racconto. I due ragazzi si stringevano
l’una all’altro.
Lui la teneva stretta al petto, e lei sembrava piangere. –
Cosa c’è? Stai male?
– No. Aveva risposto il ragazzo con gli occhi lucidi. Paola
lo guardò con più
attenzione, era davvero bello, gli occhi castani liquidi, i lineamenti
armoniosi ma forti, la linea del naso diritta e severa, le labbra piene
– E’
che … lei si chiama Lavinia. Paola sorrise dolcemente,
avrebbe voluto
accarezzare quei meravigliosi capelli neri, lucidi come
l’involucro di un
castagna, sulla testolina piegata. Poi un pensiero le
attraversò all’improvviso
la mente e senza nemmeno rendersene conto gli chiese – E tu?
Lui aveva sorriso
e aveva avvolto Lavinia ancora più a sé, come a
volerla tenere tutta. – Io non
mi vergognerò mai più del mio nome. Non
rimprovererò mai più l’amore di mia
madre per Shakespeare. Io mi chiamo Bassanio.
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Il
racconto di Lavinia e Bassanio è presente in una mia
storia ma l’idea mi piaceva particolarmente così
ho deciso di svilupparlo e
inserirlo tra le storie originali. Spero lo possiate apprezzare. I nomi
dei
protagonisti appartengono a una tragedia di Shakespeare che amo
particolarmente: il Tito Andronico. La storia della finestra
è naturalmente
originale ma purtroppo questa finestra non esiste.