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Autore: E u r eka    03/10/2010    2 recensioni
Rise di sé con una risata chioccia e roca e qualcuno di fianco a lei si affrettò a versarle qualcos’altro.
Nami scrutò con affettuosità minacciosa il liquido ambrato, ne ammirò i riflessi aranciati alla luce sporca delle lampade ad olio e perse qualche istante ad osservare attraverso il vetro iridescente del boccale il bancone unto di grasso su cui aveva appoggiato blandamente i gomiti.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro Personaggio, Nami
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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sink

Sink

            To

                   Forget

 

 

 

 

 

 

Indagare sui sentimenti che animassero le sue scelte non aveva mai rappresentato per Nami una branca in cui eccellesse in modo particolare o vistoso. Era facile far fruttare un discreto gruzzoletto contando sul proprio fiuto per gli affari, come lo era il riconoscere tracce di tempesta in avvicinamento nell’infuriare improvviso della brezza che accarezzava il pelo dell’acqua con docilità ammansita d’un tratto illanguidita.
Nami possedeva un sesto senso per quelle cose, ma non –appunto- per ciò che concerne il cuore.
L’aveva capito per la prima volta a Coco Village e dopo Thriller Bark, in seguito al suo quasi –fortunatamente scampato– matrimonio, le era capitato di riflettere su questioni di delicata fattura sulle quali mai le era successo di indugiare prima d’allora, o perlomeno non davvero.
Essere una ragazza, nella fattispecie una gatta ladra, le si era ritorto contro in maniera inaspettata e dolorosa.
E il non riuscire a rubare, carpire con le unghie affilate qualcosa di irraggiungibile anche per mani feline come le sue, ciò che aveva scoperto di volere tanto intensamente per sé sola, la riempiva di un sentimento struggente di amarezza compassionevole.
Gli occhi scuri della navigatrice soppesarono il bicchiere che teneva tra le dita. Inclinando la testa e socchiudendo lo sguardo, emise un basso schiocco di lingua dopo averne mandato giù l’intero contenuto in un lungo sorso. Essere battuta al suo stesso gioco, che le venisse sottratto da sotto il naso un tesoro tenacemente cercato, la sua ingorda sete avida non riusciva a sopportarlo, come non riusciva a sopprimere l’odiata sensazione di star sfumando una delle occasioni più belle che, la coscienza si premuniva a farle presente con fastidiosa insistenza e sicurezza, le sarebbero mai capitate.
Rise di sé con una risata chioccia e roca e qualcuno di fianco a lei si affrettò a versarle qualcos’altro.
Nami scrutò con affettuosità minacciosa il liquido ambrato, ne ammirò i riflessi aranciati alla luce sporca delle lampade ad olio e perse qualche istante ad osservare attraverso il vetro iridescente del boccale il bancone unto di grasso su cui aveva appoggiato blandamente i gomiti.
Tra i vapori che le aleggiavano intorno e quelli delle pietanze dal forte odore speziato, ancora calde nei tegami di terracotta, riconobbe il ghigno sdentato del suo avventore. Scosse la mano al suo indirizzo e quello dopo una lunga occhiata, vedendosi sdegnosamente rifiutato, preferì concentrarsi sulla cameriera tutta curve che gli stava servendo altra birra.
Lo vide con la coda dell’occhio mimare il movimento di una pacca sul finire della schiena prona di lei, dandole una mancia particolarmente generosa e quella allungarsi con fare malizioso e sussurrargli qualcosa all’orecchio. I soldi furono intascati con prontezza e la grande mano che era finita chissà come tra le sue cosce si rialzò soddisfatta tra le pieghe della gonna. La cameriera china su di lui, una nuvola dorata e riccia di capelli a coprirle il viso, aveva la bocca gonfia e bagnata. Si umettò le labbra e l’altro se la portò in grembo con un ché di urgente che la fece squittire acutamente. Mentre i due si davano alla baldoria più sfrenata, il posto alla sua sinistra venne prontamente occupato. L’uomo indossava un mantello scuro, il cappuccio ben calato, ed emanava un sentore di salsedine e pioggia che le fece aggrottare le sopracciglia.
Non era previsto che piovesse prima di un’ora almeno e la cosa- inutile dirlo- le guastava irrimediabilmente l’umore già compromesso. Essere in torto benché le capitasse di rado, era sempre difficile da mandare giù e l’imperizia di una sua previsione lo era ancora più ferocemente.
Scrollò le spalle e il rum sbatacchiò vorticoso nel bicchiere contro il suo palmo, serrato in una morsa furiosa, creando piccole onde concentriche. Il polso si muoveva veloce facendo dondolare il bicchiere trattenuto in punta di dita e polpastrelli, come in una danza.
Le soggiunse il pensiero di Zoro con le sue spade. L’agilità e la destrezza di un’operazione ripetuta così numerosamente da essere divenuta parte della propria essenza. Scacciò con fastidio lo spadaccino dalla propria testa e centellinò la bevanda, senza fretta questa volta.
Bassi gorgoglii di risate spezzate, rumori fragorosi e spinti nelle orecchie già colme dello schiamazzo generale. La cappa che le volute di fumo creavano come nebbia impalpabile sul suo capo, ombre bronzee gettate sulle assi di legno del pavimento marcio sotto ai piedi, tratti sguaiati e grotteschi intorno a lei. Dovunque degrado e corruzione, l’irruenza dei sentimenti al loro stato brado e senza i freni di una moralità ragionata e bigotta. Ambienti frequentati da personalità sordide e prive di scrupoli forse, ma anche della maschera di perbenismo che le faceva storcere il naso aristocraticamente sottile.
Tutto quello era reale, tangibile, vero di una familiarità che era una spina nel fianco e un’onta di cui andar fieri nonostante tutto. Lei conosceva entrambi i mondi, le facce della medaglia che rappresentavano quell’era in decadimento e questo avrebbe potuto renderla orgogliosa. Avrebbe, se solo fosse stata più sciocca e vanesia. O meno dedita ad allentare la forza impressa dalle catene che l’ancoravano.
- Hai da accendere?-
Fece scivolare la propria attenzione sullo sconosciuto accanto a sé, una spanna a dividerli, piacevolmente stupita dalla nota umana che la sua voce robusta possedeva, una specie di vibrazione metallica(1).
– No- rispose e quello annuì accondiscendente, quasi se lo fosse aspettato.
Richiamò con un gesto il barista che si affrettò tra le bottiglie e le casse di liquore che stava posando negli scaffali mezzi vuoti per raggiungerlo.  
La sigaretta penzolava tra indice e medio e andava lentamente consumandosi, la cenere condensata come una macchia grigia bruciacchiata mentre una fragranza acre di erbe simili a quelle che Sanji era solito usare per prepararle un the, riempiva l’irrisorio spazio tra loro.
- Spero non ti dia fastidio.-
Non le procurava alcuna noia, ma una ragione inspiegabile la spinse ad osservare con tono meramente dolce, una sfumatura di pigra indolenza:- Certamente no. L’aria in questo buco non era abbastanza assuefatta allo sgradevole tanfo che l’appesta perché non se ne aggiungesse altro.-
Lo sentì ridere in modo distinto e s’imbronciò impercettibilmente, delusa.
Ora c’era il ticchettio dei sandali alti che calzava, battuti ritmicamente sul bordo dello sgabello a frantumare il silenzio tra loro e le unghie lucide della mano elegante, affusolata che suonavano note inventate sul piano del bancone ad allietare i commensali nei dintorni. Come se non fosse bastato il resto a rendere vivacemente -e a ragione- chiassosi i bagordi di quei filibustieri che nulla di piratesco avevano se non il gusto di alcool nel palato e ad inondare le vene, il salmastro nelle mani callose e nel respiro affannoso.
Iridi quasi nere che erano emblema di un’anima ingarbugliata, a celarne il subbuglio agitato e smanioso, stemperate nel lucore delle fiammelle che galleggiavano sopra di loro, bracci di ferro disposti in circolo appesi al soffitto con spesse catene, ad accendere di barbagli luminescenti il profilo pallido.
Odore di cera, sciolta in liquame bianco composto di gocce calde come lacrime appena versate e un sentore fragrante e asprigno di agrumi.
Pungente, la voce di lei ora si fece ironica. – Ritiene sia uno spreco giustificato o è il semplice gusto di ustionarsi la pelle?- domandò indicando il mozzicone quasi spento da cui non aveva aspirato una sola volta.
Un’altra risata, vibrante e meno silenziosa della precedente.
– Solo il piacere di un pover’uomo che riscopre il profumo di casa- confessò ruvidamente.
Nami arricciò un angolo di bocca in una forzatura di sorriso, indulgente, sfiorandosi con la mano il collo e scostando i capelli. Si concesse un massaggio dietro la nuca che lì rimase a mantenere la testa ciondolante.
Il barista tornò con l’ordine precedentemente fatto e Nami occhieggiò il gotto di birra di sottecchi.
Lui dovette notarlo perché fece un vago cenno all’oste che si affrettò a portargliene un altro e servirlo a lei.
- Mi auguro non trovi sfacciato che uno sconosciuto offra da bere ad una signora. Dal mio canto trovo sia poco allegro farlo se privati della compagnia adeguata.- Nella penombra del cappuccio ancora abbassato, Nami distinse il luccichio di un ghigno sardonico. Tuttavia non declinò l’offerta, intrigata dal mistero che circondava quell’uomo.
- Cosa di preciso non ritiene allegro del bere soli?- chiese con interesse, sorridendo a propria volta e appressandosi come per meglio ascoltare. 
- L’insieme di cause scatenanti e conseguenze disastrose che un buon bicchierino portano da sé. Si beve per darsi coraggio, per divertimento, ma ho sempre visto come atto d’infantile capricciosità compierlo per dimenticare qualcosa o qualcuno- espose lui con eloquenza incisiva, ferma.  
Nel dirlo le sembrò inspiegabilmente che la scrutasse con espressione incuriosita, ma preferì soprassedere.
Lo osservò portarsi la birra al cappuccio e trangugiarla d’un fiato, dopodiché posarla sul bancone.
Sospirò con soddisfazione piena e sussurrò qualcosa che non comprese, ma che le parve associabile a “ché un boccale di birra è un pasto da re(2)”. 
Sentendosi così studiato si girò e lei riuscì finalmente a scorgere la fisionomia del viso nascosta tra i lembi scostati di velluto, ancora intriso dell’umidità esterna.
Capelli scuri, occhi profondi e strani simboli rossastri di forma romboide a sfregiargli un lato come cicatrici, simili a fiamme corrosive e grifagne intrecciate tra loro.
Una mandibola autoritaria e marcato un sorriso così cupo e pieno di presagi nefasti che sentì brividi a fior di pelle scenderle lungo le braccia, refoli di terrore innato e ingiustificabile.
Quegli occhi erano abissi infernali- si ritrovò a pensare agghiacciata- esiziali per chiunque non si riconoscesse in quelle stesse ombre perniciose; pullulavano di spettri quanti lei mai ne aveva visti. Ferini e affilati, una severità sbrigativa che metteva alle strette chiunque ne fosse oggetto.
Come se avessero scrutato l’immane e catastrofica vastità delle camere segrete degli inferi e ne fossero usciti indenni, ma non santificati. Assistere ai supplizi e le torture tormentose, gli incubi e il patimento del vederli ripetersi ad uno ad uno in un seguito senza fine. Lo sguardo maledetto e senza tempo di un uomo dannato; un avversario da maneggiare con cura, qualunque fosse la natura a giustificare le sue azioni.
- Cosa succede? Non trovi la birra di tuo gusto?- l’incalzò irrisorio.
Atterrita dall’improvvisa metamorfosi del timbro di voce, evidentemente camuffata in precedenza e ora rauca, Nami fece per alzarsi, ma ancora si trattenne. Usop le urlava di scappare a gambe in spalla, ma qualcos’altro, un’immagine evanescente che si dissolse prima che lei riuscisse ad agguantarla e farla propria, riuscì ad acquietare i battiti forsennati del sangue che le bombava impazzito e amplificato.
Altri occhi neri, altrettanto intensi e irrimediabilmente diversi, sbarazzini.  
Accostò con irruenza il boccale ancora pieno e l’orlo della birra s’infranse come un’onda traboccando di poco in rivoli giallo scuro oltre i bordi sbeccati.
Calda e pastosa le scese per la gola, dissetante e corroborante.
- Lei è un pirata- considerò, un nervosismo un po’ gracchiante. Le parole le graffiavano in un torrente acido riversandosi sulla lingua che sferzava come una frusta l’interno dei denti. 
Aveva riacquistato la calma, un coraggio investito in schiuma di malto, sapore di luppolo e il torbido opaco di quel colore lievitato. Sì, sicuramente un ottimo impiego attraverso quello svolazzante uso improprio di cuor di leone che poco le si confaceva.
Abbassò il braccio, le guance tinte di un rosa innaturale sfumato nel rosso ciliegia sugli zigomi. Affascinata dalla sua stessa temerarietà. Lo vide arcuare un sopracciglio e corrugare la fronte, due vene pulsanti a solcargliela come le nervature spesse delle ali di un coleottero.
- O forse un marine- aggiunse Nami, ridacchiando dell’illazione appena fatta. Quell’uomo sembrava tutto fuorché un pauroso marinaio.

Il suo interlocutore si voltò a contemplare il bicchiere semivuoto che lei aveva davanti a sé. – Nessuna delle due, temo- chiarì, probabilmente contrito dall’esserne accumunato più che dalla richiesta sfacciata. - Ripongo in entrambe le categorie ben poco credito.-
- E’ dunque portato alla dispensa di nuovi ordini mondiali?- ribatté Nami saccente, resa ardita dall’alcool. Le ciglia tremanti sulle palpebre a palpitare lievi in un frullare di luce colante dall’alto.  
L’altro era serio, quasi compito nella spiegazione che le porse. - Questo è un mondo che va cambiato dalle radici e strappando i rami che ne appesantiscono i tronchi gravidi di foglie nuove. Sono orgoglioso di far parte delle scintille che ravvivano il fuoco della libertà di pensiero.-
- Lei vive di sogni- sbuffò picchiettando coll’indice l’ansa ricurva del boccale.
I sogni, quale bizzarria unica rappresentavano per ogni portatore di fantasia.
L’uomo sogghignò di fronte alla sua smorfia beffarda, all’incredulità che riconosceva, mista allo scetticismo proprio di un carattere pratico, nella postura.  – E cosa sarebbe un uomo se privato del suo diritto a farne parte? Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni e la nostra piccola vita è circondata dal sonno(3).-
- Una visione singolare delle speranze – concesse Nami tra sé.
- Non riponi alcuna fiducia nei sogni?- le chiese.
Nami strinse le labbra in una linea dura, come se l’avesse appena offesa. I sogni per lei erano qualcosa di astratto, effimero. L’illusione di un secondo speso a innalzarlo in cielo come un castello, di un cuore e degli spasimi sanguinanti dati dall’averlo già visto cadere in mille pezzi in quello successivo.
- Credo nelle capacità di ognuno, nel coraggio e nelle promesse, ma i sogni diventano ben poca cosa di fronte a ciò che li rinvigorisce- rispose seccamente, pensando a cosa avrebbe detto lui sentendola parlare a quel modo.
- E cosa di preciso se mi è lecito chiederlo?-
- I sorrisi- svelò candida. Possedere quel sorriso era uno dei suoi desideri preminenti, qualcosa che schiacciava qualsiasi altro. Chiuse i pugni quasi volesse raccogliere una manciata di quei sorrisi sparsi come pietre sulla sabbia della battigia, più forte, ancora più forte fino a quando non percepì un dolore fitto e penetrante salire tra le nocche bianche, bruciare pulsante nella carne tenera. Nulla in confronto alla sofferenza che la brama insoddisfatta le lasciava in petto, qualcosa di cavo a raschiare via ciò che gli era estraneo, lavorando con l’efficacia delle trivelle costruite da Franky che tranciavano ogni oggetto non identificato incontrassero nel loro cammino.
Lo sguardo contratto nel riverbero, Nami si perse negli anfratti di quegli angoli bui nella penombra del locale con un’amorevolezza benevola, come una carezza intima e sollecita.
Il sorriso che le piegava le labbra era disincantato, vacuo così come il suono delle risate alticce che si susseguirono. Una gattina che faceva le fusa all’oscurità, al nero appena illuminato dallo scoppiettare delle fiamme regredite a polvere di ossa cineree.
- Mio figlio dovrebbe avere press’a poco la tua età.- Nami non si chiese perché le stesse raccontando qualcosa di sé. Le appariva naturale, benché in qualche modo quella stessa considerazione bastasse a spaventarla. La semplicistica constatazione di essere in un locale a parlare di argomenti di tema filosofico e morale con un perfetto sconosciuto, era assurdo e così fuori dagli schemi nel suo caso che fu tentata ancora una volta dallo scoppiare a ridere, istericamente stavolta.
- Appena nato era una cosa tutta spiegazzata e urlante, un impiastro- ghignò.
Si astenne dal fargli presente che nessun bambino appena nato – dopo un sofferto travaglio era da aggiungere specificatamente- potesse spiccare per un sorriso gioioso o una pelle liscia e luminosa, preferendo tenere per sé quel pensiero. 
- Non faceva altro che strillare e piangere, ma quando l’ho preso in braccio sorrideva e non lo scorderò mai.-
Erano ricordi che entravano dentro i più felici, diventando parte dell’anima, delle esperienze indimenticabili che la componevano e la rendevano quel che era, insieme ad altri meno facili da tollerare. Serrò i pugni.
- E’ perché ognuno abbia quel sorriso che faccio quel che devo.-
Aveva preso un’altra sigaretta nel frattempo. L’accese con meticolosità, tenendola nella stessa posizione di quella che le era stata precurritrice e l’aria si riempì di una nebbiolina traslucida e azzurrina.
Aveva mani grandi, falangi nodose con un ché di scarno, che si muovevano a tratti scostanti, ma decisi, quasi galleggiando nel vuoto con una monotonia uniforme e selvaggia insieme, creando figure spigolose.     - Ti rivolgo la stessa domanda ora- disse riscuotendola dalle sue riflessioni. – Non penso tu sia un marine, ma non riesco a capire quale ragione spingerebbe un pirata in un posto del genere senza la sua ciurma.-
- Cosa le fa presumere sia l’uno o l’altro?- domandò lei, gettando forse incautamente ogni precauzione alle ortiche.
- Questo- spiegò semplicemente additando il tatuaggio sul braccio – ha posto fine ad ogni mio dubbio.-
Nami toccò il punto indicato, gli occhi liquidi e distanti. - E’ il mio lasciapassare nel mondo, rappresenta quel che sono.- Un sospiro e un sorriso tiepido, orgoglioso, il mento alzato fieramente. - La navigatrice che disegnerà le carte geografiche del mondo.- Non sapeva perché fosse così loquace con quello sconosciuto. Forse era la malinconia nostalgica dei suoi compagni a renderla prolissa nelle chiacchiere e garrula nelle risate, la solitudine del saperli così distanti, ma poco importava.
Quella notte di tempesta era sua, sua e di nessun altro.
- Un progetto ambizioso- commentò, dopo un istante di silenzio, meditabondo. - Dovrai viaggiare a lungo per fare ciò che vuoi realizzare.-
- Ho tutto il tempo del mondo- assicurò lei.
L’uomo spazzò via le tracce lasciate dalla sigaretta sul bancone e prese con sé il mozzicone arso.
- Un giorno piacerebbe anche a me vedere tutte le terre prendere forma sotto i miei occhi, anche se in forma cartacea- disse con partecipazione, quasi il pensiero lo affascinasse in modo particolare.
Si alzò, il mantello che strusciava sul pavimento pieno di sabbia e trucioli e a Nami sembrò più imponente che mai. – C’è odore di tempesta- valutò asciutto. Nami cincischiò con il log pose, sistemandolo. – Tra due ore arriverà un tifone- chiosò senza guardarlo, professionale. Non si accorse del breve sguardo di apprezzamento che lui le lanciò. – Non hai mentito- approvò.
- Perché avrei dovuto?- borbottò corrucciata e lui sghignazzò. Perché nascondere quel che era ed era ben lontana anche dal non apparire agli altri?
- Buonsenso.-
- L’ho immagazzinato a dosi massicce nella testa del mio capitano- sorrise lei.
- Almeno è abbastanza intelligente da ascoltare i consigli di chi gli sta attorno.-
Nami scosse il capo. Rufy faceva solo ciò che voleva, che sentiva giusto. Si chiese distrattamente se sarebbe capitato mai che avessero opinioni discordanti, così differenti da far dividere le loro strade. Il sorriso le morì sulle labbra. Preferiva dimenticare quella paura pericolosa affogandola in rum scadente e risse di poco conto.
- Il vento parla in un linguaggio tutto suo e io ho la fortuna di comprendere quel che dice a volte. Mi auguro spiri nella direzione giusta con te.-
Sollevò lo sguardo, la bocca sgranata sull’uomo che si allontanava, sorpresa.
- Mi chiamo Nami- si presentò prima che fosse troppo lontano per sentirla, un sussurro sommesso che giunse fino a lui. I passi si fermarono. Ci fu un lampo indefinibile ad attraversargli il volto e poi un sorriso sghignazzante.
Uno così ampio da riempire metà faccia, tutto denti come quello di Rufy- pensò con un sussulto.  
- Il mio nome rimane mio perché tu possa continuare a vivere gatta ladra, ma gradirei avere indietro il mio portafoglio- ghignò, senza rabbia o tracce di seccatura.
Scoperta, ma per nulla umiliata, Nami percepì sulla schiena il peso del suo strano sorriso mentre si chinava a riprenderlo, come se qualcosa lo rallegrasse profondamente, un’informazione conosciuta solo da lui e perciò comprensibile solo a sé.
Quando si rialzò era prevedibilmente scomparso. La porta sbilenca della locanda era spalancata per permettere di uscire ad un uomo chiaramente ubriaco che dondolava come se non riuscisse a bilanciare il peso della pancia pronunciata. Lasciava intravedere uno spicchio del cielo scuro saturo di pioggia e filtrare un soffio gelido che fece levare un coro di lamento da parte di un paio di clienti.
Lo sgabello sgombro e la porzione di bancone ripulita alla bell’e meglio, il boccale vacante.
Nami lanciò in alto il borsellino e lo riprese lesta, sorridendo lieta. Era pieno al tatto, traboccante di banconote, ma all’interno come scoprì in seguito, un semplice foglio di giornale spiegazzato a renderlo mancante del piccolo tesoro che sperava di aver racimolato.
Ghignò, intimamente divertita. Messa nel sacco da uno sconosciuto che almeno aveva avuto il buongusto di pagare prima di andarsene- ragionò osservando i berry ripiegati con cura. Da qualche parte là fuori, tra le raffiche di vento  e l’acqua gelata che la tempesta sbatteva contro lo sparuto numero di passanti, uno in particolare si ritrovò a ghignare ai lampi che saettavano nella notte come filamenti d’argento.
In quell’avventura suo figlio aveva trovato alleati preziosi a quanto sembrava.  

                

 

N/A:

Ok è una schifemenza ( schifezza+scemenza= *-*), lo sapevo io mentre la vedevo assumere forma scrivendola, lo so adesso che l’ho pubblicata e ora lo sapete anche voi che l’avete letta. Mi verrebbe voglia di cancellarla seduta stante perché, per un sacco di ragioni a ben vedere, ma non lo farò. Sono fondamentalmente pigra e ho impiegato il tempo che ho impiegato nel pensarla indi per cui rimane qui ù_ù. A che pro dirvi tutto questo? Non ne ho la più pallida idea XD.
Ad ogni buon conto Dragon, sì è lui lo sconosciuto – oddio non s’era capito O.o? Spero di non avervi guastato la sorpresa- è un personaggio che compare poco, ma per quanto rare siano state le sue comparse fino ad ora io l’ho sempre immaginato come un uomo colto, ispirato da concetti fortemente idealisti, caratterizzato da una profonda lealtà verso i suoi sottoposti e con un sorriso tutto denti XD. Lo so che quest’ultima è una stupidaggine, ma dopotutto è partorita dalla mia testa che aspettarsi? I dialoghi non mi convincono appieno, troppo filosofeggianti per i miei gusti e Nami non rispecchia propriamente la solita Nami vero? E’ un po’ troppo depressa, accartocciata su se stessa se capite quel che intendo, ma l’intera situazione aveva come perno proprio la malinconia provata dalla navigatrice e quindi ho lasciato stare, forse calcando un po’ la mano. Ci sono accenni sparsi qua e là se ci avete fatto caso, che lasciano intuire quanto lei percepisca la mancanza dei suoi compagni e da brava Runami quale sono, indizi su un coinvolgimento più particolare e intimo per il capitano il cui nome guarda caso salta fuori solo alla fine. Tutto alla fin fine è lasciato al caso così come questo molto improbabile incontro, Dio come mi sia venuta quest’idea non so spiegarlo neppure io… forte indigestione credo…
Che dire di più? Per quanto riguarda le noticine o numeretti accanto ad alcune frasi il motivo è presto detto: non appartengono a me, ma ai corrispettivi autori che nell’ordine, che spero d’aver azzeccato, sono Emilio Salgari e William Shakespeare ( Wikiquote docet).

(1): da “Il Corsaro Nero”

(2): da “Il racconto d’inverno”

(3): da “La tempesta”

Ultima cosa giuro e poi mi azzittisco -e sarebbe anche ora penseranno probabilmente alcuni-. Riguarda il titolo, sink, la prima cosa idiota che mi sia venuta in mente. Il parto del titolo si è rivelato in conclusione più difficile di tutto il resto, la sua traduzione controversa e perciò scelta. Può essere tradotto come affondare, ma anche naufragare… sì alla fin fine mi ha soddisfatto perché rispecchia il clima che volevo e ho provato a creare. Una Nami a cui sembra di star già disimparando a sognare lontana dai suoi compagni, di affogare nei ricordi et cetera et cetera. Ringrazio anticipatamente chi avrà il buon cuore di commentare, mi farebbe davvero piacere sapere cosa ne pensate, se è totalmente assurda o come dico io una schifemenza XD. Un forte abbraccio virtuale a tutti ;)

  
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