Sink
To
Forget
Indagare sui
sentimenti che animassero le sue scelte non aveva mai rappresentato per Nami
una branca in cui eccellesse in modo particolare o vistoso. Era facile far
fruttare un discreto gruzzoletto contando sul proprio fiuto per gli affari,
come lo era il riconoscere tracce di tempesta in avvicinamento nell’infuriare
improvviso della brezza che accarezzava il pelo dell’acqua con docilità
ammansita d’un tratto illanguidita.
Nami possedeva un
sesto senso per quelle cose, ma non –appunto- per ciò che concerne il cuore.
L’aveva capito per
la prima volta a Coco Village e dopo Thriller Bark, in seguito al suo quasi
–fortunatamente scampato– matrimonio, le era capitato di riflettere su
questioni di delicata fattura sulle quali mai le era successo di indugiare
prima d’allora, o perlomeno non davvero.
Essere una
ragazza, nella fattispecie una gatta ladra, le si era ritorto contro in maniera
inaspettata e dolorosa.
E il non riuscire
a rubare, carpire con le unghie affilate qualcosa di irraggiungibile anche per
mani feline come le sue, ciò che aveva scoperto di volere tanto intensamente
per sé sola, la riempiva di un sentimento struggente di amarezza
compassionevole.
Gli occhi scuri
della navigatrice soppesarono il bicchiere che teneva tra le dita. Inclinando
la testa e socchiudendo lo sguardo, emise un basso schiocco di lingua dopo
averne mandato giù l’intero contenuto in un lungo sorso. Essere battuta al suo
stesso gioco, che le venisse sottratto da sotto il naso un tesoro tenacemente
cercato, la sua ingorda sete avida non riusciva a sopportarlo, come non
riusciva a sopprimere l’odiata sensazione di star sfumando una delle occasioni
più belle che, la coscienza si premuniva a farle presente con fastidiosa
insistenza e sicurezza, le sarebbero mai capitate.
Rise di sé con una
risata chioccia e roca e qualcuno di fianco a lei si affrettò a versarle qualcos’altro.
Nami scrutò con
affettuosità minacciosa il liquido ambrato, ne ammirò i riflessi aranciati alla
luce sporca delle lampade ad olio e perse qualche istante ad osservare
attraverso il vetro iridescente del boccale il bancone unto di grasso su cui
aveva appoggiato blandamente i gomiti.
Tra i vapori che
le aleggiavano intorno e quelli delle pietanze dal forte odore speziato, ancora
calde nei tegami di terracotta, riconobbe il ghigno sdentato del suo avventore.
Scosse la mano al suo indirizzo e quello dopo una lunga occhiata, vedendosi
sdegnosamente rifiutato, preferì concentrarsi sulla cameriera tutta curve che
gli stava servendo altra birra.
Lo vide con la
coda dell’occhio mimare il movimento di una pacca sul finire della schiena prona
di lei, dandole una mancia particolarmente generosa e quella allungarsi con
fare malizioso e sussurrargli qualcosa all’orecchio. I soldi furono intascati
con prontezza e la grande mano che era finita chissà come tra le sue cosce si rialzò
soddisfatta tra le pieghe della gonna. La cameriera china su di lui, una nuvola
dorata e riccia di capelli a coprirle il viso, aveva la bocca gonfia e bagnata.
Si umettò le labbra e l’altro se la portò in grembo con un ché di urgente che
la fece squittire acutamente. Mentre i due si davano alla baldoria più
sfrenata, il posto alla sua sinistra venne prontamente occupato. L’uomo
indossava un mantello scuro, il cappuccio ben calato, ed emanava un sentore di
salsedine e pioggia che le fece aggrottare le sopracciglia.
Non era previsto
che piovesse prima di un’ora almeno e la cosa- inutile dirlo- le guastava
irrimediabilmente l’umore già compromesso. Essere in torto benché le capitasse
di rado, era sempre difficile da mandare giù e l’imperizia di una sua
previsione lo era ancora più ferocemente.
Scrollò le spalle
e il rum sbatacchiò vorticoso nel bicchiere contro il suo palmo, serrato in una
morsa furiosa, creando piccole onde concentriche. Il polso si muoveva veloce
facendo dondolare il bicchiere trattenuto in punta di dita e polpastrelli, come
in una danza.
Le soggiunse il
pensiero di Zoro con le sue spade. L’agilità e la destrezza di un’operazione
ripetuta così numerosamente da essere divenuta parte della propria essenza.
Scacciò con fastidio lo spadaccino dalla propria testa e centellinò la bevanda,
senza fretta questa volta.
Bassi gorgoglii di
risate spezzate, rumori fragorosi e spinti nelle orecchie già colme dello
schiamazzo generale. La cappa che le volute di fumo creavano come nebbia
impalpabile sul suo capo, ombre bronzee gettate sulle assi di legno del
pavimento marcio sotto ai piedi, tratti sguaiati e grotteschi intorno a lei.
Dovunque degrado e corruzione, l’irruenza dei sentimenti al loro stato brado e
senza i freni di una moralità ragionata e bigotta. Ambienti frequentati da
personalità sordide e prive di scrupoli forse, ma anche della maschera di
perbenismo che le faceva storcere il naso aristocraticamente sottile.
Tutto quello era
reale, tangibile, vero di una familiarità che era una spina nel fianco e
un’onta di cui andar fieri nonostante tutto. Lei conosceva entrambi i mondi, le
facce della medaglia che rappresentavano quell’era in decadimento e questo
avrebbe potuto renderla orgogliosa. Avrebbe, se solo fosse stata più sciocca e
vanesia. O meno dedita ad allentare la forza impressa dalle catene che l’ancoravano.
- Hai da
accendere?-
Fece scivolare la
propria attenzione sullo sconosciuto accanto a sé, una spanna a dividerli,
piacevolmente stupita dalla nota umana che la sua voce robusta possedeva, una
specie di vibrazione metallica(1).
– No- rispose e
quello annuì accondiscendente, quasi se lo fosse aspettato.
Richiamò con un
gesto il barista che si affrettò tra le bottiglie e le casse di liquore che
stava posando negli scaffali mezzi vuoti per raggiungerlo.
La sigaretta
penzolava tra indice e medio e andava lentamente consumandosi, la cenere
condensata come una macchia grigia bruciacchiata mentre una fragranza acre di
erbe simili a quelle che Sanji era solito usare per prepararle un the, riempiva
l’irrisorio spazio tra loro.
- Spero non ti dia
fastidio.-
Non le procurava
alcuna noia, ma una ragione inspiegabile la spinse ad osservare con tono meramente
dolce, una sfumatura di pigra indolenza:- Certamente no. L’aria in questo buco
non era abbastanza assuefatta allo sgradevole tanfo che l’appesta perché non se
ne aggiungesse altro.-
Lo sentì ridere in
modo distinto e s’imbronciò impercettibilmente, delusa.
Ora c’era il
ticchettio dei sandali alti che calzava, battuti ritmicamente sul bordo dello
sgabello a frantumare il silenzio tra loro e le unghie lucide della mano
elegante, affusolata che suonavano note inventate sul piano del bancone ad
allietare i commensali nei dintorni. Come se non fosse bastato il resto a
rendere vivacemente -e a ragione- chiassosi i bagordi di quei filibustieri che
nulla di piratesco avevano se non il gusto di alcool nel palato e ad inondare
le vene, il salmastro nelle mani callose e nel respiro affannoso.
Iridi quasi nere
che erano emblema di un’anima ingarbugliata, a celarne il subbuglio agitato e
smanioso, stemperate nel lucore delle fiammelle che galleggiavano sopra di
loro, bracci di ferro disposti in circolo appesi al soffitto con spesse catene,
ad accendere di barbagli luminescenti il profilo pallido.
Odore di cera, sciolta
in liquame bianco composto di gocce calde come lacrime appena versate e un
sentore fragrante e asprigno di agrumi.
Pungente, la voce
di lei ora si fece ironica. – Ritiene sia uno spreco giustificato o è il
semplice gusto di ustionarsi la pelle?- domandò indicando il mozzicone quasi
spento da cui non aveva aspirato una sola volta.
Un’altra risata, vibrante
e meno silenziosa della precedente.
– Solo il piacere
di un pover’uomo che riscopre il profumo di casa- confessò ruvidamente.
Nami arricciò un
angolo di bocca in una forzatura di sorriso, indulgente, sfiorandosi con la
mano il collo e scostando i capelli. Si concesse un massaggio dietro la nuca che
lì rimase a mantenere la testa ciondolante.
Il barista tornò
con l’ordine precedentemente fatto e Nami occhieggiò il gotto di birra di
sottecchi.
Lui dovette
notarlo perché fece un vago cenno all’oste che si affrettò a portargliene un
altro e servirlo a lei.
- Mi auguro non
trovi sfacciato che uno sconosciuto offra da bere ad una signora. Dal mio canto
trovo sia poco allegro farlo se privati della compagnia adeguata.- Nella
penombra del cappuccio ancora abbassato, Nami distinse il luccichio di un
ghigno sardonico. Tuttavia non declinò l’offerta, intrigata dal mistero che
circondava quell’uomo.
- Cosa di preciso
non ritiene allegro del bere soli?- chiese con interesse, sorridendo a propria
volta e appressandosi come per meglio ascoltare.
- L’insieme di
cause scatenanti e conseguenze disastrose che un buon bicchierino portano da
sé. Si beve per darsi coraggio, per divertimento, ma ho sempre visto come atto
d’infantile capricciosità compierlo per dimenticare qualcosa o qualcuno- espose
lui con eloquenza incisiva, ferma.
Nel dirlo le
sembrò inspiegabilmente che la scrutasse con espressione incuriosita, ma
preferì soprassedere.
Lo osservò
portarsi la birra al cappuccio e trangugiarla d’un fiato, dopodiché posarla sul
bancone.
Sospirò con
soddisfazione piena e sussurrò qualcosa che non comprese, ma che le parve
associabile a “ché un boccale di birra è un pasto da
re(2)”.
Sentendosi
così studiato si girò e lei riuscì finalmente a scorgere la fisionomia del viso
nascosta tra i lembi scostati di velluto, ancora intriso dell’umidità esterna.
Capelli
scuri, occhi profondi e strani simboli rossastri di forma romboide a
sfregiargli un lato come cicatrici, simili a fiamme corrosive e grifagne
intrecciate tra loro.
Una
mandibola autoritaria e marcato un sorriso così cupo e pieno di presagi nefasti
che sentì brividi a fior di pelle scenderle lungo le braccia, refoli di terrore
innato e ingiustificabile.
Quegli
occhi erano abissi infernali- si ritrovò a pensare agghiacciata- esiziali per
chiunque non si riconoscesse in quelle stesse ombre perniciose; pullulavano di
spettri quanti lei mai ne aveva visti. Ferini e affilati, una severità
sbrigativa che metteva alle strette chiunque ne fosse oggetto.
Come
se avessero scrutato l’immane e catastrofica vastità delle camere segrete degli
inferi e ne fossero usciti indenni, ma non santificati. Assistere ai supplizi e
le torture tormentose, gli incubi e il patimento del vederli ripetersi ad uno
ad uno in un seguito senza fine. Lo sguardo maledetto e senza tempo di un uomo dannato;
un avversario da maneggiare con cura, qualunque fosse la natura a giustificare
le sue azioni.
- Cosa
succede? Non trovi la birra di tuo gusto?- l’incalzò irrisorio.
Atterrita
dall’improvvisa metamorfosi del timbro di voce, evidentemente camuffata in
precedenza e ora rauca, Nami fece per alzarsi, ma ancora si trattenne. Usop le
urlava di scappare a gambe in spalla, ma qualcos’altro, un’immagine evanescente
che si dissolse prima che lei riuscisse ad agguantarla e farla propria, riuscì
ad acquietare i battiti forsennati del sangue che le bombava impazzito e
amplificato.
Altri
occhi neri, altrettanto intensi e irrimediabilmente diversi, sbarazzini.
Accostò
con irruenza il boccale ancora pieno e l’orlo della birra s’infranse come
un’onda traboccando di poco in rivoli giallo scuro oltre i bordi sbeccati.
Calda
e pastosa le scese per la gola, dissetante e corroborante.
- Lei
è un pirata- considerò, un nervosismo un po’ gracchiante. Le parole le
graffiavano in un torrente acido riversandosi sulla lingua che sferzava come
una frusta l’interno dei denti.
Aveva
riacquistato la calma, un coraggio investito in schiuma di malto, sapore di
luppolo e il torbido opaco di quel colore lievitato. Sì, sicuramente un ottimo
impiego attraverso quello svolazzante uso improprio di cuor di leone che poco
le si confaceva.
Abbassò
il braccio, le guance tinte di un rosa innaturale sfumato nel rosso ciliegia
sugli zigomi. Affascinata dalla sua stessa temerarietà. Lo vide arcuare un
sopracciglio e corrugare la fronte, due vene pulsanti a solcargliela come le
nervature spesse delle ali di un coleottero.
- O forse
un marine- aggiunse Nami, ridacchiando dell’illazione appena fatta. Quell’uomo
sembrava tutto fuorché un pauroso marinaio.
Il suo
interlocutore si voltò a contemplare il bicchiere semivuoto che lei aveva davanti
a sé. – Nessuna delle due, temo- chiarì, probabilmente contrito dall’esserne
accumunato più che dalla richiesta sfacciata. - Ripongo in entrambe le categorie
ben poco credito.-
- E’ dunque
portato alla dispensa di nuovi ordini mondiali?- ribatté Nami saccente, resa
ardita dall’alcool. Le ciglia tremanti sulle palpebre a palpitare lievi in un
frullare di luce colante dall’alto.
L’altro era serio,
quasi compito nella spiegazione che le porse. - Questo è un mondo che va
cambiato dalle radici e strappando i rami che ne appesantiscono i tronchi
gravidi di foglie nuove. Sono orgoglioso di far parte delle scintille che ravvivano
il fuoco della libertà di pensiero.-
- Lei vive di
sogni- sbuffò picchiettando coll’indice l’ansa ricurva del boccale.
I sogni, quale
bizzarria unica rappresentavano per ogni portatore di fantasia.
L’uomo sogghignò
di fronte alla sua smorfia beffarda, all’incredulità che riconosceva, mista allo
scetticismo proprio di un carattere pratico, nella postura. – E cosa sarebbe un uomo se privato del suo
diritto a farne parte? Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni e la
nostra piccola vita è circondata dal sonno(3).-
- Una visione singolare
delle speranze – concesse Nami tra sé.
- Non riponi
alcuna fiducia nei sogni?- le chiese.
Nami strinse le
labbra in una linea dura, come se l’avesse appena offesa. I sogni per lei erano
qualcosa di astratto, effimero. L’illusione di un secondo speso a innalzarlo in
cielo come un castello, di un cuore e degli spasimi sanguinanti dati
dall’averlo già visto cadere in mille pezzi in quello successivo.
- Credo nelle
capacità di ognuno, nel coraggio e nelle promesse, ma i sogni diventano ben
poca cosa di fronte a ciò che li rinvigorisce- rispose seccamente, pensando a
cosa avrebbe detto lui sentendola parlare
a quel modo.
- E cosa di
preciso se mi è lecito chiederlo?-
- I sorrisi- svelò
candida. Possedere quel sorriso era
uno dei suoi desideri preminenti, qualcosa che schiacciava qualsiasi altro.
Chiuse i pugni quasi volesse raccogliere una manciata di quei sorrisi sparsi
come pietre sulla sabbia della battigia, più forte, ancora più forte fino a
quando non percepì un dolore fitto e penetrante salire tra le nocche bianche,
bruciare pulsante nella carne tenera. Nulla in confronto alla sofferenza che la
brama insoddisfatta le lasciava in petto, qualcosa di cavo a raschiare via ciò
che gli era estraneo, lavorando con l’efficacia delle trivelle costruite da
Franky che tranciavano ogni oggetto non identificato incontrassero nel loro
cammino.
Lo sguardo
contratto nel riverbero, Nami si perse negli anfratti di quegli angoli bui
nella penombra del locale con un’amorevolezza benevola, come una carezza intima
e sollecita.
Il sorriso che le
piegava le labbra era disincantato, vacuo così come il suono delle risate alticce
che si susseguirono. Una gattina che faceva le fusa all’oscurità, al nero
appena illuminato dallo scoppiettare delle fiamme regredite a polvere di ossa
cineree.
- Mio figlio
dovrebbe avere press’a poco la tua età.- Nami non si chiese perché le stesse
raccontando qualcosa di sé. Le appariva naturale, benché in qualche modo quella
stessa considerazione bastasse a spaventarla. La semplicistica constatazione di
essere in un locale a parlare di argomenti di tema filosofico e morale con un
perfetto sconosciuto, era assurdo e così fuori dagli schemi nel suo caso che fu
tentata ancora una volta dallo scoppiare a ridere, istericamente stavolta.
- Appena nato era
una cosa tutta spiegazzata e urlante, un impiastro- ghignò.
Si astenne dal
fargli presente che nessun bambino appena nato – dopo un sofferto travaglio era
da aggiungere specificatamente- potesse spiccare per un sorriso gioioso o una
pelle liscia e luminosa, preferendo tenere per sé quel pensiero.
- Non faceva altro
che strillare e piangere, ma quando l’ho preso in braccio sorrideva e non lo
scorderò mai.-
Erano ricordi che
entravano dentro i più felici, diventando parte dell’anima, delle esperienze
indimenticabili che la componevano e la rendevano quel che era, insieme ad
altri meno facili da tollerare. Serrò i pugni.
- E’ perché ognuno
abbia quel sorriso che faccio quel che devo.-
Aveva preso
un’altra sigaretta nel frattempo. L’accese con meticolosità, tenendola nella
stessa posizione di quella che le era stata precurritrice e l’aria si riempì di
una nebbiolina traslucida e azzurrina.
Aveva mani grandi,
falangi nodose con un ché di scarno, che si muovevano a tratti scostanti, ma
decisi, quasi galleggiando nel vuoto con una monotonia uniforme e selvaggia
insieme, creando figure spigolose.
- Cosa le fa
presumere sia l’uno o l’altro?- domandò lei, gettando forse incautamente ogni
precauzione alle ortiche.
- Questo- spiegò
semplicemente additando il tatuaggio sul braccio – ha posto fine ad ogni mio
dubbio.-
Nami toccò il
punto indicato, gli occhi liquidi e distanti. - E’ il mio lasciapassare nel
mondo, rappresenta quel che sono.- Un sospiro e un sorriso tiepido, orgoglioso,
il mento alzato fieramente. - La navigatrice che disegnerà le carte geografiche
del mondo.- Non sapeva perché fosse così loquace con quello sconosciuto. Forse
era la malinconia nostalgica dei suoi compagni a renderla prolissa nelle
chiacchiere e garrula nelle risate, la solitudine del saperli così distanti, ma
poco importava.
Quella notte di
tempesta era sua, sua e di nessun altro.
- Un progetto
ambizioso- commentò, dopo un istante di silenzio, meditabondo. - Dovrai
viaggiare a lungo per fare ciò che vuoi realizzare.-
- Ho tutto il
tempo del mondo- assicurò lei.
L’uomo spazzò via
le tracce lasciate dalla sigaretta sul bancone e prese con sé il mozzicone
arso.
- Un giorno
piacerebbe anche a me vedere tutte le terre prendere forma sotto i miei occhi,
anche se in forma cartacea- disse con partecipazione, quasi il pensiero lo
affascinasse in modo particolare.
Si alzò, il
mantello che strusciava sul pavimento pieno di sabbia e trucioli e a Nami
sembrò più imponente che mai. – C’è odore di tempesta- valutò asciutto. Nami
cincischiò con il log pose, sistemandolo. – Tra due ore arriverà un tifone-
chiosò senza guardarlo, professionale. Non si accorse del breve sguardo di
apprezzamento che lui le lanciò. – Non hai mentito- approvò.
- Perché avrei
dovuto?- borbottò corrucciata e lui sghignazzò. Perché nascondere quel che era
ed era ben lontana anche dal non apparire agli altri?
- Buonsenso.-
- L’ho
immagazzinato a dosi massicce nella testa del mio capitano- sorrise lei.
- Almeno è
abbastanza intelligente da ascoltare i consigli di chi gli sta attorno.-
Nami scosse il
capo. Rufy faceva solo ciò che voleva, che sentiva giusto. Si chiese
distrattamente se sarebbe capitato mai che avessero opinioni discordanti, così
differenti da far dividere le loro strade. Il sorriso le morì sulle labbra. Preferiva
dimenticare quella paura pericolosa affogandola in rum scadente e risse di poco
conto.
- Il vento parla
in un linguaggio tutto suo e io ho la fortuna di comprendere quel che dice a
volte. Mi auguro spiri nella direzione giusta con te.-
Sollevò lo sguardo,
la bocca sgranata sull’uomo che si allontanava, sorpresa.
- Mi chiamo Nami- si
presentò prima che fosse troppo lontano per sentirla, un sussurro sommesso che
giunse fino a lui. I passi si fermarono. Ci fu un lampo indefinibile ad
attraversargli il volto e poi un sorriso sghignazzante.
Uno così ampio da
riempire metà faccia, tutto denti come quello di Rufy- pensò con un sussulto.
- Il mio nome
rimane mio perché tu possa continuare a vivere gatta ladra, ma gradirei avere
indietro il mio portafoglio- ghignò, senza rabbia o tracce di seccatura.
Scoperta, ma per
nulla umiliata, Nami percepì sulla schiena il peso del suo strano sorriso
mentre si chinava a riprenderlo, come se qualcosa lo rallegrasse profondamente,
un’informazione conosciuta solo da lui e perciò comprensibile solo a sé.
Quando si rialzò
era prevedibilmente scomparso. La porta sbilenca della locanda era spalancata per
permettere di uscire ad un uomo chiaramente ubriaco che dondolava come se non
riuscisse a bilanciare il peso della pancia pronunciata. Lasciava intravedere uno
spicchio del cielo scuro saturo di pioggia e filtrare un soffio gelido che fece
levare un coro di lamento da parte di un paio di clienti.
Lo sgabello
sgombro e la porzione di bancone ripulita alla bell’e meglio, il boccale
vacante.
Nami lanciò in
alto il borsellino e lo riprese lesta, sorridendo lieta. Era pieno al tatto,
traboccante di banconote, ma all’interno come scoprì in seguito, un semplice
foglio di giornale spiegazzato a renderlo mancante del piccolo tesoro che
sperava di aver racimolato.
Ghignò,
intimamente divertita. Messa nel sacco da uno sconosciuto che almeno aveva
avuto il buongusto di pagare prima di andarsene- ragionò osservando i berry
ripiegati con cura. Da qualche parte là fuori, tra le raffiche di vento e l’acqua gelata che la tempesta sbatteva
contro lo sparuto numero di passanti, uno in particolare si ritrovò a ghignare
ai lampi che saettavano nella notte come filamenti d’argento.
In quell’avventura
suo figlio aveva trovato alleati preziosi a quanto sembrava.
N/A:
Ok
è una schifemenza ( schifezza+scemenza= *-*), lo sapevo io mentre la vedevo assumere
forma scrivendola, lo so adesso che l’ho pubblicata e ora lo sapete anche voi
che l’avete letta. Mi verrebbe voglia di cancellarla seduta stante perché, per
un sacco di ragioni a ben vedere, ma non lo farò. Sono fondamentalmente pigra e
ho impiegato il tempo che ho impiegato nel pensarla indi per cui rimane qui
ù_ù. A che pro dirvi tutto questo? Non ne ho la più pallida idea XD.
Ad
ogni buon conto Dragon, sì è lui lo sconosciuto – oddio non s’era capito O.o?
Spero di non avervi guastato la sorpresa- è un personaggio che compare poco, ma
per quanto rare siano state le sue comparse fino ad ora io l’ho sempre
immaginato come un uomo colto, ispirato da concetti fortemente idealisti,
caratterizzato da una profonda lealtà verso i suoi sottoposti e con un sorriso
tutto denti XD. Lo so che quest’ultima è una stupidaggine, ma dopotutto è
partorita dalla mia testa che aspettarsi? I dialoghi non mi convincono appieno,
troppo filosofeggianti per i miei gusti e Nami non rispecchia propriamente la
solita Nami vero? E’ un po’ troppo depressa, accartocciata su se stessa se
capite quel che intendo, ma l’intera situazione aveva come perno proprio la
malinconia provata dalla navigatrice e quindi ho lasciato stare, forse calcando
un po’ la mano. Ci sono accenni sparsi qua e là se ci avete fatto caso, che
lasciano intuire quanto lei percepisca la mancanza dei suoi compagni e da brava
Runami quale sono, indizi su un coinvolgimento più particolare e intimo per il
capitano il cui nome guarda caso salta fuori solo alla fine. Tutto alla fin
fine è lasciato al caso così come questo molto improbabile incontro, Dio come
mi sia venuta quest’idea non so spiegarlo neppure io… forte indigestione credo…
Che
dire di più? Per quanto riguarda le noticine o numeretti accanto ad alcune
frasi il motivo è presto detto: non appartengono a me, ma ai corrispettivi
autori che nell’ordine, che spero d’aver azzeccato, sono Emilio Salgari e
William Shakespeare ( Wikiquote docet).
(1):
da “Il Corsaro Nero”
(2):
da “Il racconto d’inverno”
(3):
da “La tempesta”
Ultima
cosa giuro e poi mi azzittisco -e sarebbe anche ora penseranno probabilmente
alcuni-. Riguarda il titolo, sink, la
prima cosa idiota che mi sia venuta in mente. Il parto del titolo si è rivelato
in conclusione più difficile di tutto il resto, la sua traduzione controversa e
perciò scelta. Può essere tradotto come affondare, ma anche naufragare… sì alla
fin fine mi ha soddisfatto perché rispecchia il clima che volevo e ho provato a
creare. Una Nami a cui sembra di star già disimparando a sognare lontana dai
suoi compagni, di affogare nei ricordi et cetera et cetera. Ringrazio
anticipatamente chi avrà il buon cuore di commentare, mi farebbe davvero
piacere sapere cosa ne pensate, se è totalmente assurda o come dico io una
schifemenza XD. Un forte abbraccio virtuale a tutti ;)