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Autore: Scarcy90    05/10/2010    25 recensioni
*Nell'estate 2024 questa storia diventerà un romanzo self su Amazon. Al più presto avrete una data.* Valeria frequenta l'ultimo anno di Liceo. E' sempre stata una studentessa nella media e insieme alle sue due migliori amiche, Amy e Marti, ha trascorso in relativa tranquillità il suo periodo da liceale. Ma proprio all'inizio di quell'ultimo anno accade qualcosa che sconvolgerà il suo mondo di pace. Un litigio, durante la ricreazione, darà la scossa definitiva perché la vita di Vale cambi per sempre. La chiave di volta di questo cambiamento è Massimiliano Draco, il figlio della temuta professoressa D'Arcangelo, acerrima nemica della protagonista. Una storia che ha il solo scopo di raccontare i sentimenti e le traversie di una ragazza come tante.
||Il Sequel di questa storia è Verso La Maturità||
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Figlio Della Prof Serie's '
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La Perenne Tentazione Della Vita
E’ Quella Di Confondere I Sogni Con La Realtà
Jim Morrison
 
 


 Capitolo 2: Ripetizioni Di Matematica

 
 Amy ed io sfrecciavamo sulla strada veloci come al solito, mi piaceva andare veloce, mi donava un’ebbrezza che niente sapeva darmi.
 Come ogni giorno non ci stavamo dirigendo subito a casa. Perché? Amy doveva sempre fare una piccola e, secondo me, assurda e morbosa deviazione: dovevamo controllare suo fratello.
 Amy viene da una famiglia di quattro figli: due maschi e due femmine che si alternano, cioè maschio femmina maschio femmina come se i loro genitori lo avessero programmato.
 Roberto era il maggiore, più grande di noi di tre anni, frequentava il secondo anno all’università alla facoltà di psicologia; Amy era la seconda e Caterina la più piccola di soli sei anni. Quello che interessava in questo momento a noi era però il fratello di mezzo, che veniva subito dopo Amy: Luca. Frequentava il secondo superiore al Liceo Scientifico De Giorgi. Pieno di sé e sofferente di smanie di protagonismo, a volte sapeva essere anche gentile. Amy lo adorava, però aveva anche una strana forma di iperprotezione verso di lui e nonostante avesse ormai quindici anni continuava a controllarlo peggio di una madre apprensiva. I loro genitori cercavano di dargli più spazio e lei cercava di toglierlo.
 Probabilmente per uno spettatore esterno, come me, quella situazione era assolutamente assurda, ma per loro era del tutto normale, anzi ormai non ci facevano più caso. Tranne il povero Luca che doveva sopportare il comportamento idiota di Amy.
 L’estate precedente, quando ancora non mi ero resa a conto a che livello fosse arrivata l’idiozia di Amy, ero andata al mare con tutta la famiglia Tarantino al completo. Insieme a noi c’era anche qualche amico di Luca.
 Amy ed io ce ne stavamo in acqua a fare bagno, quando lei a un certo punto ha espresso il vivo desiderio di fare una nuotata, il che mi è sembrato strano visto che lei odiava nuotare, ma ho accettato. Appena siamo partite ha cominciato a nuotare come una pazza e andava anche parecchio di fretta; ci eravamo allontanate notevolmente dalla riva e avevo cercato di farglielo notare, ma lei non mi dava retta. Alla fine, quando ormai stavo per morire di stanchezza, siamo arrivate vicino ad un pedalò ed Amy si è fermata di colpo.
 Mi sono voltata verso la spiaggia e con sommo terrore notai che era lontanissima, gli ombrelloni sembrava i piccoli pezzi di una scacchiera colorata.  
 Ad un tratto ho sentito la voce imbestialita di Luca che stava litigando con Amy. Luca? In mezzo al mare? Ovviamente era sul pedalò che aveva affittato insieme ai suoi amici e ce l’aveva con Amy perché lo aveva praticamente pedinato- già pedinare una persona sulla terraferma denota una certa assenza di neuroni ma seguirla a nuoto era troppo.
 Senza pensarci due volte diede subito ragione a Luca, anche perché quella stupida aveva rischiato di farci annegare tutte e due a costo di seguirlo. Gli amici di Luca mi chiesero se volevo salire a bordo per riprendermi, dovevo sembrare un cadavere vivente; avevo accettato con gioia ma Luca urlò un secco “no”. A quel punto non sapevo più se strozzare Amy o annegare Luca, le mie priorità erano piuttosto confuse in quel momento.
 I suoi amici lo mandarono a quel paese e mi allungarono una mano per aiutarmi a salire, ma lui si era messo alla postazione di guida ed era partito a razzo, in pochi attimi era lontano centinai di metri. Annegare lui arrivò all’improvviso in cima alla lista delle cose da fare appena fossi riuscita a riprendermi dalla stanchezza.
 Così io ed Amy, lasciate a noi stesse senza un briciolo di pietà, tornammo lentamente, ma molto lentamente, a riva. Gliene dissi così tante che tutti in spiaggia si voltarono a guardarci, ma non me ne importava niente, era già tanto se non la strozzavo davvero.
 Da quel giorno avevo deciso di non assecondare mai più Amy quando si trattava di Luca, ma lei mi aveva pregato di accompagnarla ogni tanto alla scuola di suo fratello per dargli un’occhiata visto che secondo lei si stava comportando in modo insolito. Inizialmente ero stata categorica, non avevo alcuna intenzione di essere coinvolta ancora, però alla fine anch’io avevo notato qualche piccolo cambiamento in Luca, niente che potesse preoccupare ma le paranoie di Amy avevano amplificato tutto a tal punto che avevo deciso di aiutarla. Finché Luca non si fosse accorto di niente sarebbe filato tutto il liscio, e se ci avesse scoperte, be’… avrei mollato Amy lì a vedersela con le ire di suo fratello e sarei scappata via alla velocità della luce. Ci mancava solo che venissi rimproverata da un ragazzino.
 Come ogni giorno mi fermai una ventina di metri prima dell’ingresso dello Scientifico ed Amy scese senza togliersi il casco: aveva la ferma convinzione che se anche Luca l’avesse vista non l’avrebbe mai riconosciuta con indosso il casco. Io ero altamente scettica su questo punto, ma era inutile ribattere con lei quindi la lasciavo fare.
 Luca non tardò ad uscire, insieme al resto dell’istituto, appena la campanella suonò. Amy si nascose dietro un albero, mentre io continuavo a starmene annoiata sul mio scooter.
 -Vale, nasconditi anche tu-, mi bisbigliò contrariata.
 -Come te lo devo dire che non ne ho alcuna intenzione. Io non sono tua complice, sono solo il tuo mezzo di trasporto.-
 -Ma se ti vede?-
 -Tuo fratello vede solo le ragazzine carine che gli girano intorno, non ha occhi per vedere me ce li ha coperti da fette di falsa popolarità.-
 -Proprio non lo sopporti vero?- chiese lei ridendo.
 -Mi ricorda troppo il figlio della D’Arcangelo e quell’altra cima del suo amico, hanno li stessi identici atteggiamenti, quindi perdonami se odio anche tuo fratello ma è nel mio DNA non sopportare quelli come lui.-
 -Ah, figurati. Per me l’importante è che quel moccioso non si metta nei guai, per quanto mi riguarda lo puoi odiare a vita. –
 Luca era quasi arrivato all’angolo da dove avrebbe preso la strada per raggiungere la fermata dell’autobus.
 -Avanti, sali-, dissi alla OO7 che stava dietro l’angolo. –La tua preda ha appena svoltato l’angolo.-
 Mentre Amy saliva dietro di me, il mio sguardo si mosse quasi in modo automatico verso uno degli alberi che stava più avanti lungo il viale che portava alla caserma della cavalleria. Non sapevo perché ma avevo la spiacevole sensazione di essere osservata, era come essere puntata dalla luce di un faro.
 -Ma che hai?- mi chiese Amy notando che tardavo a partire.
 -Non hai una strana sensazione?-
 -Di che stai parlando? Non ti starà mica venendo la febbre?- domandò preoccupata.
 Lanciai un ultimo sguardo a quell’albero. La sensazione continuava a persistere.
 “Sto diventando paranoica”, mi dissi mettendo in moto lo scooter. “Ci mancava solo questa.”
 Partii velocemente e passando accanto all’albero incriminato mi lasciai sfuggire un sorriso.
 “Sto diventando paranoica sul serio.”
 Dietro l’albero non c’era nessuno, o almeno così mi era sembrato quel giorno.
 
 Una volta arrivata a casa mi sentii finalmente solleva. Parcheggiai lo scooter nel nostro enorme garage, facendo sempre attenzione a non strisciarlo contro il muro altrimenti mio padre avrebbe riservato lo stesso trattamento a me. Aprii il bauletto e recuperai il mio zaino; salii i due piani di scale riscoprendo una nuova grinta in quella giornata quasi da incubo, e ritrovandomi a sorridere.
 Ah, casa dolce casa!
 Davanti alla porta mi fermai un secondo pensierosa. Ero in meditazione zen? Macché, non stavo trovando le chiavi della porta in nessuna delle mie tasche, il che fece volatilizzare il mio sorriso alla velocità della luce. Cominciai a tirare fuori di tutto, avevo persino trovato una caramella che doveva avere la stessa età di mia nonna ma delle chiavi neanche l’ombra.
 Ora c’è da dire che all’età di dieci anni ero uscita tranquilla e felice con la mia bicicletta nuova dimenticandomi le chiavi a casa come una pera. I miei genitori erano a lavoro, quindi quando tornai ero rimasta fuori come un balcone: ero praticamente terrorizzata. Non sapevo cosa fare, non avevo cellulare e anche i miei vicini di casa non c’erano. Avevo guardato l’orologio e con il terrore che continuava a scorrermi nelle vene mi ero fatta un paio di conti veloci: mia madre sarebbe tornata dopo due ore e mio padre dopo quattro. Non so cosa mi abbia impedito di mettermi a piangere, fatto sta che mi sono messa in sella alla mia bici e ho cominciato a pedalare verso casa di mia nonna che era l’unica più vicina a casa mia, più vicina poi… Erano comunque una decina di chilometri con l’obbligo di passare prima da una strada di campagna non frequentata da nessuno e poi una strada principale con le macchine che sfrecciavano a velocità che superavano il limite umano. Ero riuscita ad arrivare sana e salva grazie all’aiuto di non so quale santo e da quel giorno avevo sempre avuto la paura di non avere le chiavi di casa.
 Quindi notando che non erano da nessuna parte, cominciai ad andare letteralmente nel panico, nonostante non avessi più dieci anni ma diciotto suonati. Presi il cellulare dalla tasca, mi sedetti a terra con la schiena poggiata alla porta e composi velocemente il numero di mia madre mentre andavo in iperventilazione. Il telefono squillava libero.
 -Mamma!- esclamai appena sentii la voce di mia madre che rispondeva.
 -Tasca interna dello zaino-, disse quella con calma.
 -Come?-
 -Le chiavi di casa, sono nella tasca interna del tuo zaino-, continuò lei con comprensione.
 Mollai il telefono a terra e aprii lo zaino il più velocemente possibile, lanciai in aria tutti i libri e finalmente infilai la mano in quella benedetta tasca. Appena la mia mano strinse qualcosa di freddo e metallico il mio cuore cominciò a battere dalla felicità. La feci riemergere lentamente e con giubilo notai che avevo afferrato le chiavi di casa con il mio adorato portachiavi a forma di piccolo infradito con i fiori, ricordo del mio viaggio in Spagna.
 Presi il telefono e lo riportai all’orecchio.
 -Ma… Ma come facevi a saperlo?-
 -Stamattina quando ti sei svegliata, in ritardo come al solito aggiungerei, tra il lavaggio dei denti e l’indossare i calzini mi hai urlato di prendere le tue chiavi, che avevi lasciato sul mobile dell’ingresso, e di metterle nello zaino.-
 Come un flashback tutta la scena mi apparve davanti agli occhi.
 Stavo seduta sul letto con lo spazzolino ficcato in bocca, mentre cercavo di infilarmi i calzini alla velocità della luce. Lo sguardo che mi cadeva continuamente sulla sveglia, e quella che mi sbeffeggiava facendomi notare che avevo solo dieci minuti prima che le porte della scuola si chiudessero. Nel frattempo quell’anima candida di Amy continuava a farmi squilli per intimarmi di sbrigarmi, e io come una pazza avevo cominciato a gridare a mia madre di mettermi cose nello zaino. Tra cui libri di latino, quaderni, diario e alla fine anche le chiavi.
 Mi sentii sprofondare. 
 -Scusa, se ti ho chiamata per questa scemenza, mamma-, dissi con voce mortificata.
 -Figurati, sapevo che lo avresti fatto-, rispose lei divertita. –Di solito metti le chiavi nel giubbotto, non ti saresti mai ricordata di averle nello zaino.-
 -Leggi nel futuro per caso?- chiesi contenta.
 -No, conosco quella pazzoide di mia figlia.-
 - Anch’io ti voglio bene, mammina-, odiava essere chiamata mammina, era più o meno come per me con il cognome.
 -Riattacca prima che ti strozzi tramite telefono-, disse piuttosto irritata.
 -Ok, ci vediamo a cena-, risposi sorridendo.
 -A stasera-, concluse lei con una piccola nota divertita nella voce.
 Infilai la chiave nella serratura e subito sentii il famigliare rumore di unghiette contro il legno. Spalancai la porta e la mia piccola Sissi mi venne incontro cominciando a saltare da una parte all’altra e a scodinzolare dalla gioia.
 -Ciao, tesoro-, dissi accarezzandola e dandole una lunga grattatina dietro l’orecchio, sapevo quanto le avrebbe fatto piacere.
 Sissi, un cocker americano color nocciola, era l’unica creatura sulla faccia della Terra che riuscisse a farmi riprendere completamente da una giornata infernale come quella che avevo vissuto fino a quel momento.
 Lasciai lo zaino a terra e mi diressi con calma verso il divano, abbandonandomi interamente a quella goduria che era stare stesa tra soffici cuscini. Chiusi gli occhi e prima che potessi fermarla, la mia mente cominciò a vagare alla ricerca di chissà quale modo per rilassarsi.
 Stranamente mi ritrovai a pensare alle mie ultime vacanze, le avevo trascorse in Belgio con la mia famiglia: eravamo andati a trovare alcuni parenti e giacché avevamo partecipato al matrimonio di una cugina di mia madre. Era stata davvero una giornata fantastica, mi ero divertita tanto. Alla fine della festa avevo anche ballato un lento con un altro cugino di mia madre che aveva qualche anno più di me: era dolce e simpatico, il suo sorriso mi ricordava molto quello di Marco… Spalancai gli occhi seccata. No, meglio cambiare ricordo, questo non era per niente piacevole. Richiusi gli occhi e mi lasciai avvolgere dal tepore dei cuscini. La festa per i miei diciotto anni a febbraio, era uno dei miei ricordi più piacevoli soprattutto perché vi avevano preso parte tutti i miei amici. Avevamo ballato, mangiato, riso e avevo invitato anche Luca, il fratello di Amy che come al solito si era comportato da bambino viziato… Mi ricordava così tanto Draco… Ahi, i miei pensieri stavano prendendo una brutta piega, dovevo inventarmi un diversivo al più presto, altrimenti avrei rischiato di passare il resto della giornata ad essere irritata e irritabile.  
 Mi alzai dal divano, che ormai non aveva alcun effetto anestetico sui miei brutti pensieri, andai in cucina e cominciai ad aprire tutti gli sportelli dei mobili, alla ricerca di qualcosa che non sapevo neanche io.
 Non avevo fame, però avevo voglia di cucinare, e quando ero nervosa l’unica cosa che mi usciva alla grande erano i dolci. Controllai che ci fossero tutti gli ingredienti, ma per fortuna avevamo fatto spesa grande il giorno prima, quindi non mancava nulla. Corsi verso la mia camera e mi cambiai, indossando qualcosa di più comodo: pinocchietti da palestra neri, maglietta rosa pallido a maniche corte e legai i capelli in una coda di cavallo. Ci mancava solo che mio padre trovasse un mio capello nella torta, sarebbe successo il finimondo, e poi mi avrebbe dato anche fastidio. Afferrai il mio ipode poggiato sul comodino e tornai in cucina dove infilai il mio grembiule blu, regalo della mia cara nonna, e diedi inizio alla mia opera.
 Avevo intenzione di fare una Torta Mimosa, un dolce abbastanza complicato da tenere la mia mente abbastanza impegnata e da occupare almeno metà del pomeriggio: praticamente, come minimo, quattro ore di sano non pensare a niente, ma solo a riuscire a mescolare bene le uova con lo zucchero affinché venisse fuori un impasto abbastanza spumoso da far gonfiare il Pan di Spagna come si deve.
 Ero contenta, come ogni volta che facevo un dolce d'altronde, e i miei pensieri divennero all’improvviso molto più piacevoli.
 Mentre mettevo il Pan di Spagna in forno, sentii il mio cellulare che squillava ma guardandomi attorno non lo vidi da nessuna parte.
 -Dove cavolo è andato a finire?- mormorai spazientita.
 Iniziai a percorrere tutta la sala da pranzo cercando di capire dove il suono si sentisse di più. Poi la piccola Sissi abbaiò in direzione del divano dove mi ero spalmata poco prima; di sicuro il cellulare doveva essermi caduto dalla tasca.
 -Grazie, tesoro-, dissi accarezzandole la testa e tirando fuori il cellulare da sotto il cuscino.
 -Pronto?- dissi sedendomi sul divano.
 -La signorina Ferrari?- chiese la voce di donna dall’altra parte.
 -Sì-, risposi io confusa non mi capitava spesso di sentirmi chiamare in quel modo.  
 -Salve, sono Monica Buttazzo la chiamavo per sapere se è lei che dà ripetizioni di matematica.-
 -Sì, sono io.-
 -Oh, bene-, rispose quella sollevata. –Volevo sapere se è possibile per lei dare ripetizioni a mio figlio.-
 -Nessun problema-, risposi io. –Che classe frequenta?-
 -Il quinto superiore.-
 -Capisco-, dissi pensierosa. –E’ possibile che io non possa aiutarlo molto comunque perché frequentiamo lo stesso anno e non so che programma segue lui.-
 -Oh-, disse la signora rattristata.
 -Facciamo così, signora-, dissi cercando di sembrare più allegra. –E’ possibile per suo figlio venire qua oggi?-
 -Credo di sì. -
 - Bene, allora lo faccia venire a casa mia, ci parlo e vedo se posso fare qualcosa. Naturalmente non è contata come lezione.-
 -Lo farebbe davvero signorina? Sa, sto impazzendo, mio figlio non riesce a capire niente di matematica. Ho provato anche dei professori universitari ma non funziona nulla. Siccome quest’anno ha gli esami non voglio rischiare che venga bocciato, anche se riesce a raggiungere la sufficienza.-
 - Be’ è possibile che con l’aiuto di una coetanea la cosa per lui sia più facile, a volte i professori non fanno altro che mettere in soggezione, soprattutto se sono universitari.-
 -E’ esattamente quello che ho pensato io-, disse la signora felice. –Le va bene se mio figlio si fa trovare a casa sua per le quattro?-
 -Sì, non ci sono problemi. Conosce il mio indirizzo?-
 -Era scritto sul volantino che ho trovato in cartoleria.-
 -Perfetto, quindi lo aspetto-, risposi al settimo cielo.
 -La ringrazio ancora.-
 -Di niente, signora.-
 Riagganciai contenta, era da un po’ che non avevo ragazzi per le ripetizioni. In genere lo facevo solo per quelli delle medie o dei primi anni delle superiori, la matematica delle classi terminali assorbiva già completamente da sola tutte le mie energie senza che ci fosse bisogno di insegnarla anche ad altri però quella signora mi era sembrata così disperata che non avevo saputo dirle di no. Dopotutto un po’ di soldi mi avrebbero anche fatto comodo, avevo preso la patente da poco e avevo voglia di comprarmi una macchina. Naturalmente ero consapevole che non ce l’avrei fatta di certo dando ripetizioni, però intanto sarebbe stato un inizio.
 Mi rimisi le cuffiette dell’ipode nelle orecchie e mentre aspettavo che il Pan Di Spagna finisse di cuocersi mandai un sms a Marti e ad Amy.
 
 Ho trovato un nuovo ragazzo a cui dare ripetizioni. La macchina si avvicina!
 
 Entrambe ci misero pochi secondi a rispondere. Essendo io l’unica di noi tre ad avere già la patente, il fatto che prendessi una macchina avrebbe giovato a tutto il gruppo.
 
Amy: Grande! Sono contentissima! Datti da fare che poi dobbiamo farci qualche scorrazzata a Lecce.
 
 Sempre la solita opportunista, mi voleva solo sfruttare.
 
Marti: Evvai! Macchina!
 
 Sintetica ma molto chiara, anche nel suo sms si avvertiva quella nota di opportunismo dovuto alla circostanza ma riflettendoci probabilmente anch’io mi sarei comportata come loro.
 Il timer del forno mi avvisò che il Pan di Spagna era arrivato al punto di cottura perfetta.
 Aprii il forno e tirai fuori la teglia. In casa si era diffuso l’inconfondibile aroma zuccheroso e irresistibile del dolce.
 La piccola Sissi alzò il naso e cominciò ad annusare l’aria rapita. Subito si mise a scodinzolare golosa, senza sapere che difficilmente avrebbe racimolato qualcosa: il veterinario le aveva vietato categoricamente i dolci. Povera…
 Però in effetti anch’io avrei dovuto darmi una regolata, ultimamente avevo messo su un bel po’ di massa corporea.
 “Questo è l’ultimo dolce che faccio, almeno fino al mio compleanno”, pensai con fare deciso.
 Misi da parte il Pan di Spagna per farlo raffreddare e cominciai a preparare la crema e a montare la panna.
 Un’ora dopo il mio capolavoro era finito: era venuta perfetta come al mio solito e questa volta mi ero anche data da fare con le decorazioni. Insomma era stupenda!
 Lanciai una veloce occhiata all’orologio della sala da pranzo e notai che mancavano pochi minuti alle quattro. Non avrei fatto in tempo a farmi una doccia perciò avrei dovuto accogliere il mio possibile alunno in quelle condizioni. Magari per farmi perdonare gli avrei potuto offrire una fetta di torta, di sicuro mi avrebbe largamente ringraziata e si sarebbe scordato del mio aspetto.
 Purtroppo cucinare un dolce come la Torta Mimosa portava via tempo e richiedeva parecchia fatica, quindi ero praticamente inguardabile. Il trucco di quella mattina sufficientemente sbavato, la frangia che si era appiccicata alla fronte a causa del sudore e i vestiti, se ancora così si potevano chiamare, macchiati di panna e farina.  
 Infondo non stavo mica aspettando il principe William o Jonnhy Depp, era anche possibile che mi si presentasse davanti uno di quei metallari con tanto di collare per cani chiodato e capelli policromatici tenuti su alla Goku Super Sayan con quantità industriali di gel, o peggio un ossuto tappetto, che si sarebbe spezzato al primo sternuto. Pensandoci, forse era meglio presentarmi in quelle condizioni, avrei scoraggiato ogni pensiero ormonale che inevitabilmente sottomette ogni ragazzo compreso tra i tredici e i diciannove anni ogni volta che adocchia qualcosa fornito di tette e culo.
 Non riuscii a non farmi sfuggire una risatina.
 All’improvviso però mi bloccai, e se invece fosse arrivato uno schianto colossale, magari anche stimolante intellettualmente? Avrei steso il suo testosterone al primo sguardo conciata in quel modo barbaro.
 Spalancai gli occhi terrorizzata. Se mi fossi trovata faccia a faccia con quel famoso uomo della mia vita che stavo aspettando con ansia da ben diciotto anni?
 Non potevo assolutamente permettere che accadesse una cosa simile.
 Lanciai un’altra occhiata furiosa all’orologio: avevo dieci minuti, solo dieci minuti.
 Considerando che sono sempre stata una ritardataria cronica a causa del tempo infinito che ci metto a farmi la doccia e ad asciugarmi capelli, quei miseri e insulsi dieci minuti mi sembrarono improvvisamente una punizione divina.
 Non avevo tempo per restare a rimuginare sulla mia sorte puntualmente avversa, dovevo assolutamente darmi una mossa.
 Mi tolsi il grembiule e lo lanciai in aria, fiondandomi in bagno. Mi spogliai e mi infilai sotto la doccia, l’aprii velocemente, e siccome mi sembra di aver già detto di essere rimasta orfana di fortuna, un getto di acqua gelida mi colpì in pieno.
 -Dannazione!- esclamai infuriata.
 Mi ritrassi immediatamente e urtai contro il muro il mignolo del piede destro, naturalmente quello che fa più male.  
 -Maledizione!- imprecai.
 Per piegarmi verso il mio povero piede urtai la fronte contro la porta della cabina-doccia.
 -Ma che diavolo ho fatto di male! Cavolo marcio!-
 La fantasia per le imprecazioni non mi mancava di certo, anche se in quel momento l’avrei scambiata volentieri con un bonus di venti minuti.
 Alla fine di questa piccola serie di eventi nefasti, riuscii a raggiungere il regolatore dell’acqua e portai la temperatura ad un livello umanamente sopportabile. Cominciai a lavarmi i capelli e mi rendevo conto con il terrore nel cuore che i minuti continuavano a scorrere inesorabili, assolutamente incuranti del fatto che stavo cercando con tutte le mie forze di essere un fulmine, impresa che non stavo portando avanti con molto successo in effetti.
 Mi sciacquai velocemente e uscii dalla doccia avvolgendomi un asciugamano bianco sotto le braccia, e lasciando i capelli liberi: non avevo il tempo per avvolgerli in un asciugamano. Il mignolo del piede mi pulsava facendomi avvertire un dolore lancinante. Cercai di non farci caso e proprio mentre stavo aprendo la porta del bagno, sentii il telefono squillare.
 -No-, mormorai. –Perché proprio adesso...-
 A casa mia il telefono aveva un tempismo quasi paranormale, suonava sempre nei momenti meno adatti, come se sentisse di dover rompere le scatole a tutti i costi.
 Corsi verso il ricevitore e lo portai all’orecchio.
 -Pronto?- La mia voce era palesemente scocciata.
 -Valeria, sono nonna-, disse la dolce voce dall’altra parte.
 “NO!” pensai atterrita. “Con tutte le persone che ci sono al mondo proprio lei doveva chiamare adesso?!”
 Be’ anche mia nonna potrebbe essere definita la donna del tempismo, riusciva sempre a telefonare quando non doveva. Considerando anche che se cominciava un discorso lo finiva all’incirca il secolo successivo, pensai che non poteva capitarmi cosa peggiore di una sua telefonata.
 Dire che la adoravo è poco. Le ho sempre voluto un bene dell’anima, era la mia seconda madre praticamente, però non potevo proprio perdere tempo al telefono con lei, avevo ancora i capelli gocciolanti ed ero praticamente mezza nuda.
 -Ciao, nonna-, dissi con tono sbrigativo.
 Lanciai uno sguardo terrorizzato all’orologio.
 Avevo tre minuti prima che scoccassero le quattro.
 Pregai con tutte le mie forze che il ragazzo che stavo aspettando non fosse un maniaco della puntualità, avevo un disperato bisogno che fosse un ritardatario cronico.
 -Tesoro, tutto bene? Ti sento strana.-
 -Va tutto bene, nonna-, risposi contando ogni passo avanti della lancetta dei secondi sull’orologio appeso sul muro davanti a me.
 Due minuti e cinquanta secondi.
 “Ti prego, un ritardatario, fa che sia un ritardatario”, pensai sconsolata.
 -Sicura?-
 -Sì, è solo che sono appena uscita dalla doccia.-
 Non potevo essere scortese con mia nonna. Fosse stata un’altra persona le avrei chiuso il telefono in faccia senza tanti complimenti, ma con mia nonna non potevo farlo, anche perché se lo sarebbe legato al dito e poi avrei dovuto pregarla in cinese per poter essere perdonata.
 Due minuti e trenta secondi.
 -Ti serve qualcosa?- chiesi con un'impercettibile nota di urgenza nella voce.
 Eppure quando si trattava di me, anche le note più incomprensibili per gli altri esseri umani, per mia nonna diventavano come sirene d’allarme; erano come gli ultrasuoni per i cani.
 -Continuo a pensare che tu sia strana, Valeria-, disse lei sospettosa.
 Due minuti.
 Dovevo inventarmi qualcosa alla svelta per liquidarla. Ma cosa? Quando diventava così apprensiva era impossibile sbarazzarsene senza darle una fornita spiegazione, e finché le avessi spiegato esattamente come stavano le cose sarebbero trascorse almeno due ere geologiche.
 -Sto bene. Sono solo stanca, ho passato le ultime due ore a fare una Mimosa-, risposi sicura che questo avrebbe funzionato.
 -Mimosa?- chiese lei con curiosità.
 Avevo proprio fatto centro, quando si trattava della mia Torta Mimosa la nonna andava in estasi. In questo momento le sarebbe potuto passare davanti un elefante indiano a bordo di una Yamaha e lei non ci avrebbe minimante fatto caso.
 Guardai di nuovo l’orologio.
 Un minuto e trenta secondi. 
 -Vuoi che più tardi te ne porti un pezzo?- cercai di mantenere il tono più calmo possibile.
 -Se non ti crea disturbo…-
 -Nessun disturbo. Adesso finisco di studiare e prima dell’ora di cena te ne porterò un pezzo enorme.-
 -Ti ringrazio.-
 -Di nulla, però è meglio se vado a vestirmi, nonna. Comincio a sentire freddo.- Balla colossale: eravamo ancora ai primi di ottobre, quindi praticamente in piena estate per la mia città.
 -Hai ragione, tesoro. Ci vediamo più tardi.-
 -A più tardi.-
 Misi giù il telefono con aria trionfante. Una telefonata con mia nonna durata solo due minuti, mi sembrava un sogno.
 Quel piccolo momento di gioia fu sostituito immediatamente dall’angoscia. Mi era rimasto solo un misero, patetico minuto. Sperai di poter fare almeno in tempo a vestirmi, per i capelli bagnati non ci sarebbero stati problemi, a parte il rischio di farmi venire la cervicale.
 Stavo per dirigermi nella mia stanza, quando suonò il campanello.
 Mi sentii come se mi avessero gettato addosso un secchio di acqua gelida.
 Ma quale minuto? Non avevo neanche quello.
 Non mi era capitato solo uno fissato con la puntualità, la mia maledetta sfortuna me ne aveva affibbiato uno che arrivava in anticipo. Che cavolo di ragazzo di diciotto anni arriva in anticipo per discutere sulle sue ripetizioni di matematica? La risposta invase la mia mente così velocemente che quando riuscii ad elaborarla non potei fare altro che spalancare la bocca: un occhialuto secchione brufoloso e accessoriato di apparecchio odontoiatrico. Ecco l’unico che non poteva vedere l’ora di andare a ripetizioni di matematica. Sicuramente doveva essere uno di quelli fissati con la letteratura e la filosofia, per questo non andava d’accordo con i numeri; non potevo farmi vedere in quello stato da un ragazzo del genere, come minimo gli avrei fatto venire un infarto.
 Pensai di ignorare il campanello e di andare a vestirmi, ma quel dannato ragazzo continuava a suonare impaziente.
 Sospirai. Se aveva tutta questa fretta, se la sarebbe vista da solo con il suo ictus.
 Andai a rispondere al citofono.
 -Chi è?-
 -Sono qui per le ripetizioni-, rispose la voce dall’altra parte.
 -Sali.-
 Chiusi il citofono e con calma andai verso la porta.
 Stavo per fare la figura peggiore di tutta la mia vita.
 Avrei sconvolto un ragazzo innocente, che probabilmente si sarebbe imbarazzato tantissimo nel vedere la sua possibile insegnante di matematica, conciata come una che ha appena finito di fare sesso con il suo ragazzo.
 Oddio! E se avesse pensato sul serio che avevo appena finito di fare sesso? Non potevo credere di essere così sfortunata.
 Già me lo immaginavo mentre tornava a casa da sua madre e le diceva che la ragazza educata e posata che si era immaginata in realtà era solo una facile pronta a sedurre il suo povero figlioletto. Come minimo avrebbe chiamato tutte le madri che conosceva e le avrebbe avvertite di tenere i loro figli alla larga da me.
 All’improvviso mi resi conto che la macchina si stava allontanando da me alla velocità della luce, insieme alle scorrazzate a Lecce e alla libertà di andare dove volevo.  
 Sentii il campanello della porta suonare.
 C’era poco da fare, ormai dovevo affrontare quella situazione a testa alta e cercare di farla apparire il più innocente e normale possibile.
 Io stessa trovavo difficile considerarla normale, quindi pensare che quel ragazzo l’avrebbe vista come me mi fece sentire terribilmente scettica.
 Mi diressi verso la porta e posai la mano sulla maniglia, esitai un istante, poi il campanello suonò ancora e capii di non poter temporeggiare oltre così aprii la porta.
 Avevo fatto diverse congetture sull’espressione del ragazzo che mi sarei trovata davanti, ma mai, neanche per un istante, avrei immaginato quell’espressione, e soprattutto non avrei mai pensato sul volto di quale ragazzo si stesse espandendo quello stupore.
 Marco Iovine se ne stava impalato davanti a me con gli occhi di un diabetico che vedeva il suo dolce preferito.
 Arrossii all’istante, non sapevo se sentirmi arrabbiata o imbarazzata.
 Eppure in quel momento compresi appieno il vero significato della frase non c’è mai limite al peggio.  
 Mentre io e Marco eravamo impegnati in quella surreale e silenziosa conversazione fatta di sguardi assassini- i miei- ed ebeti –i suoi-, sentii qualcun altro salire le scale.
 Mi voltai nella direzione da cui stavano arrivando i passi e per poco non mi sentii male sul serio.  
 -Marco, ho parcheggiato lo scooter qua di fronte. Credi che…-
 Ma le parole gli morirono in gole e Massimiliano Draco si bloccò cominciando a fissarmi.
 La mia giornataccia non era ancora finita, anzi avevo la sensazione che fosse appena cominciata.
   
 
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