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Autore: Angeline Farewell    08/10/2010    5 recensioni
Un giorno lungo ventanni in cui Stone Gossard prova a ricordare gli episodi salienti della storia dei Pearl Jam. O almeno, qualcuno.
[...]Il ragazzino – che avevo scoperto essere più vecchio di me – non era Plant e non era Jagger, voleva essere Joey Ramone, probabilmente, ma sapeva di non averne i numeri, quindi si accontentava di mostrare se stesso. O di essere nessuno. Non mi è stato subito chiaro e non sapevo cosa pensare.
Non si spompava alla terza traccia, però, di quello fui costretto a dargli atto. Nonostante vocalizzi e mugolii. Dunque fui anche costretto ad ingoiare i miei pregiudizi e le mie perplessità e a dargli il benvenuto nel gruppo, perché Jack aveva avuto ragione e si era fatto perdonare alla grande.[...]
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A Day in The Life

Il giorno in cui ho sentito per la prima volta la sua voce sul nastro mi sono quasi arrabbiato.

Vocalizzi, bassi estesi, mugolii: chi credeva di essere, Robert Plant? Voce troppo profonda poi, un falsetto come quelli del vecchio gli avrebbe fatto esplodere le palle. E a me – noi – non serviva un virtuoso che avrebbe finito per spomparsi alla terza traccia, serviva uno con le palle: Jeff si era, come al solito, fatto prendere dall’entusiasmo e non era un bene. Potevamo fare qualche altro provino, sentire qualche altro cantante. D’accordo, fino a quel momento non avevamo avuto molta fortuna con quello stronzo di Mark che ci remava contro, ma avevamo già un mezzo contratto da offrire come garanzia di serietà, no? Da qualche parte saremmo arrivati, qualcuno avremmo trovato.
Invece no, Jeff è peggio dei muli quando s’impunta. E poi anche Mike e Matt e Chris. Persino Chris diede la sua benedizione dopo aver ascoltato il nastro, nemmeno avessimo già deciso la formazione.

Il giorno in cui l’ho incontrato la sua faccia mi ha detto poco o niente.

Non era come Andy, non era né alto né particolarmente prestante, non aveva nessuna particolarità interessante: il classico belloccio californiano con un ridicolo taglio di capelli e l’aria da surfista; praticamente uno stereotipo che al più andava bene per il rock degli anni 50, non per quello che avevo in mente io. Jack ci aveva rifilato un due di picche e pensava di sdebitarsi mandandoci un ragazzino con troppi grilli per la testa? Non avevamo bisogno di un cantastorie da falò, né di un cacciatore di figa, avevamo bisogno di un cantante.

Il giorno in cui l’ho sentito cantare dal vivo per la prima volta ho pensato che ero un povero stronzo.

Il ragazzino – che avevo scoperto essere più vecchio di me – non era Plant e non era Jagger, voleva essere Joey Ramone, probabilmente, ma sapeva di non averne i numeri, quindi si accontentava di mostrare se stesso. O di essere nessuno. Non mi è stato subito chiaro e non sapevo cosa pensare.
Non si spompava alla terza traccia, però, di quello fui costretto a dargli atto. Nonostante vocalizzi e mugolii. Dunque fui anche costretto ad ingoiare i miei pregiudizi e le mie perplessità e a dargli il benvenuto nel gruppo, perché Jack aveva avuto ragione e si era fatto perdonare alla grande.

Il giorno in cui ci ha mostrato il suo diario ho pensato fosse scemo.

O matto. O tutte e due le cose: a ventisei anni non si dovrebbe tenere un diario segreto. Non si dovrebbe tenere un diario e basta, soprattutto se sei un uomo. Ma lui teneva un diario e ci scriveva e ci disegnava e ci schizzava i testi per le canzoni. E inizialmente furono quelle che ci mostrò: il problema è che le bozze dei suoi testi sono sempre state troppo simili a pagine di diario scritte da un ubriaco. O da uno che ha proprio un sacco di problemi che dovrebbe risolvere, stando possibilmente lontano da me. Mai detto di essere un tipo sensibile.

Il giorno in cui ha tentato di sterminare il nostro pubblico ho pensato che l’avrei ucciso.

D’accordo, era un pubblico di ubriaconi di cui probabilmente nessuno avrebbe davvero sentito la mancanza, ma che cazzo? Aveva lanciato quella maledetta base dell’asta talmente forte da fare un buco nel muro di fronte. E non suonavamo in una hall poi tanto piccola per essere praticamente degli sconosciuti.
Solo che poi ha preteso di riprendere a cantare come se niente fosse e l’ha fatto guardando bene in faccia quegli stronzi instupiditi non si sa più se dall’alcol o dalla paura che gli aveva fatto prendere: non aveva mai cantato guardando in faccia il pubblico, prima di quel momento. Se ne avesse mandato qualcuno all’ospedale magari avremmo avuto pure uno stage driving, chi lo sa.

Il giorno in cui ha dato di matto sul palco per la prima volta ho capito di non aver capito niente.

E scusate il periodo ingarbugliato. Forse, in fondo, più che Joey Ramone era Ian McKaye o Mike Tayson, anche se non aveva proprio il fisico. Qualche idiota della sicurezza stava picchiando un poveraccio del pubblico e lui – che ormai il pubblico lo guardava eccome – non ci ha visto più e si è lanciato come il matto che è su quell’energumeno che nemmeno l’ha riconosciuto. E che quindi l’ha riempito di botte. Solo l’intervento di Jeff – che è un energumeno di suo – e Kelly risolse le cose, sono riusciti a toglierlo dalle mani del gorilla, che si è pure scusato. E grazie al cazzo: meno male che non l’aveva colpito in faccia.

Il giorno in cui ha disegnato i baffi ad una foto di Dave ho pensato fossimo tornati all’asilo.

Odiava Dave, lo odiava tanto da fingere di sopportarlo. Se devo essere onesto, a nessuno di noi Dave piaceva davvero, era uno dei migliori batteristi avessi sentito in assoluto, ma era anche un imbecille. E convivere con un imbecille per sei sette otto mesi l’anno venti ore su ventiquattro è peggio di una tortura cinese se non sei un santo o Mike. Nessuno di noi è mai stato un santo e Mike è – fortunatamente – unico. Jeff, per dire, adorava suonare con Dave, creavano un’impalcatura ritmica meravigliosa, ma non riusciva a scambiarci civilmente nemmeno due parole quando erano lontani dai loro strumenti. Quindi mettiamo le cose in chiaro una volta per tutte: la colpa dell’allontanamento di Dave dal gruppo se l’è presa lui che è il frontman, ma sono stato io a licenziarlo ed è stata una decisione meno sofferta di quel che si possa credere. Su, Dave non era una cattiva persona, ma era proprio un imbecille.

Il giorno in cui Cobain è morto ho deciso che li avrei tenuti d’occhio, lui e Mike.

Non sono ipocrita e non lo sono mai stato, Cobain non mi stava simpatico e non mi sono strappato i capelli piangendo il genio quando hanno dato la notizia. Non mi piaceva come persona e nemmeno tanto come musicista, se proprio vogliamo dirla tutta. Però non sono nemmeno stupido ed ho capito subito cosa significasse quel suicidio. Ed era un campanello d’allarme per parecchi di noi, e un paio mi stavano sfilando proprio sotto il naso, abbassare la guardia o perdersi d’animo era fuori questione: Cobain era morto e sarebbe diventato un mito anche suo malgrado, dunque esattamente tutto quello contro cui in vita aveva combattuto. È stato quando l’ho realizzato che ha cominciato a farmi pena senza che mi sentissi un ipocrita. Ed è stato anche quello che ho detto a quei due idioti: e per reazione uno s’è sposato, l’altro si è chiuso in una clinica per disintossicarsi.
Due a zero per me.

Il giorno in cui ho testimoniato al Congresso mi sono accorto che la politica trova sempre il modo di fregarti.

Noi siamo rimasti fregati, perché abbiamo seguito le procedure, abbiamo portato le prove, ma i soldi delle holding hanno avuto più voce in capitolo della verità. Come al solito la colpa è stata data al cantante, ma lo sapevano loro che un ex benzinaio surfista con il complesso del padre a tanto, da solo, non ci sarebbe mai potuto arrivare? È proprio vero che chi sta davanti al microfono è un bersaglio mobile, anche per la merda che toccherebbe per di più agli altri, perché c’eravamo tutti dentro, nel nostro gruppo le decisioni si prendono davvero in comune. E da sobri, checché ne pensi qualcuno. Ma l’affare Ticketmaster ci ha drenati in tutti i sensi, se siamo sopravvissuti a quello siamo immortali. E non intendo come gruppo. Però ci abbiamo creduto davvero di poter cambiare le cose, anche se poi si è rivelata solo una gran perdita di tempo. La politica ti frega.

Il giorno in cui ho incontrato di persona la morte l’ho vista galleggiare.

E non sopra di me, ma sottoforma di nove ragazzi che venivano trasportati a braccio fuori dalla fossa in cui erano appena stati schiacciati. Da altri ragazzi che volevano solo divertirsi. Come loro. Come noi, che suonavamo davanti a tutti e stavamo riprendendo ad amare davvero quel che facevamo senza stress esterni. Che gran fregatura, eh? Non vale la pena rimetterci la vita per la musica, chiunque sia a suonarla, chiunque sia a morire. La musica dovrebbe farti ridere e piangere e pensare e arrabbiare: la musica crea emozioni, crea vita.
Ci ho messo due anni a convincermi che non eravamo stati noi a creare quei nove corpi galleggianti e solo perché ho anche trovato il coraggio di parlare con ognuna delle loro famiglie. Ma quello non è un tipo di lutto che si può elaborare insieme, per la prima volta dopo dieci anni non abbiamo condiviso. Forse è stato un bene però, perché a dieci anni di distanza siamo ancora qui ed a nessuno prende più la voglia di ubriacarsi al solo sentir menzionare l’incidente. Più o meno.

Il giorno in cui ha speso i nostri soldi senza dirci nulla ho dovuto fingere di arrabbiarmi.

Un po’ perché ero d’accordo con la causa, un po’ perché non puoi arrabbiarti davvero con uno che, accortosi di aver fatto una stronzata, finge di non star implorando il tuo perdono guardandoti con quella faccia. Quindi non ero davvero arrabbiato, ma glielo lasciai credere, perché comunque il fondo comune del gruppo è… beh, comune. Doveva dircelo che voleva finanziassimo la campagna elettorale di Nader. I miei genitori mi hanno praticamente cresciuto come un hippie, guido un’auto elettrica facendomi prendere per il culo pure dai ragazzini in bicicletta, ma davvero credeva avrei fatto storie? Gliel’ho passato io Ishmael.

Il giorno in cui siamo diventati genitori il mondo è cambiato.

E sì, è un po’ come se lo fossimo diventati tutti insieme nello stesso momento, anche se Jeff di figli non ne ha e non credo vorrà mai averne. Scemo.
A parte i due figli di Matt, pare nel nostro gruppo nascano solo femmine ed a dire la verità la cosa non mi dispiace per niente: possiamo finalmente dire di essere pieni di donne dopo essere probabilmente stati lo zimbello del rock per aver avuto la minor concentrazione di figa da backstage in assoluto. Ma diciamocelo, abbiamo un cantante che è stato in sostanza sposato tutta la vita, io e Jeff siamo per i lunghi rodaggi; gli unici a divertirsi erano Mike e Dave, quando c’era lui: e visto come ci davano dentro con gli alcolici, quanto credete potessero durare con una donna?

Il giorno in cui siamo tornati in Italia abbiamo accettato la proposta di Danny di girare un video-documentario del tour.

A me piace lavorare con Danny, sul serio, Clinch è proprio bravo, non è invasivo, riesce a capire quando sei a disagio e smette di scattare foto o spegne la telecamera, non aspetta la crisi isterica. E, quando si tratta di foto e video, l’isterico nel gruppo tendenzialmente sono io. Lo so, non è il mio il primo nome della lista se si pensa al sociopatico del gruppo, ma credetemi: gli altri sono dilettanti paragonati a me. Però il documentario è venuto bene, hanno chiacchierato tutti un sacco, Mike ha addirittura rimorchiato un vecchio più rincoglionito di noi. E poi, io nel dvd non ci sono, fanno tutto loro. E questo me lo fa piacere anche di più.

Il giorno in cui ho sentito il rumore del silenzio ad un festival rock stavo per avere un orgasmo in diretta.

E come me parecchia gente, perché certe facce nelle prime file parlavano chiaro. Cosa posso dire? Quando Mike suona in quel modo ogni resistenza è inutile, puoi solo lasciarlo fare e abbandonarti al flusso della musica. Noi abbiamo smesso di suonare e cantare, c’erano solo le sue dita a pizzicare le corde e ottantamila – e quattro – persone che gli tenevano gli occhi addosso. Quando ha finito c’è stato un sospiro generale e, con un cantante che ti ricorda che le chitarre vanno suonate e non scopate, non saprei dire se l’ovazione che è seguita sia stata di gratitudine o sollievo.
Ma scommetto che sono stati concepiti un sacco di ragazzini, quella notte. Io, almeno, ho scopato.

Il giorno in cui abbiamo deciso che Ten aveva bisogno di una ripulita mi sono commosso.

Non so dove Jeff abbia ritrovato quella vecchia cassetta, non sapevo nemmeno l’avesse conservata. Eppure era lì e l’abbiamo riascoltata tutti insieme: vedere il diretto interessato quasi morire di vergogna e ilarità, riascoltandosi, è stato uno spettacolo che sono felice di non essermi perso. Valeva la pena durare tanto anche solo per vederlo in quello stato, per sentirlo ridere in quel modo assurdo mentre riascoltava i suoi versi incontrollati. Insomma, poi ero io il matto a non essere sicuro di volerlo nel gruppo? Ok, visto come sono andate le cose la risposta è sì, ma lui sta ancora a ringraziarmi di avergli dato una possibilità nonostante tutto. Dio, quella seconda traccia registrata è una delle cose più brutte, ridicole, isteriche abbia mai sentito. Ed abbiamo inserito una copia di quel nastro per il fanatic-pack, perché devi essere un fanatico per volere una cosa del genere. Noi, comunque, avevamo avvertito, poi liberissimi di buttare via i soldi.

Il giorno in cui siamo tornati primi in classifica di vendita mi sono dissociato.

E intendo per davvero, sentivo di essere due persone distinte. Da un lato ero felice come il ventenne che si è visto schizzare l’album di debutto nelle prime posizioni in classifica. Dall’altro, però, già mi sentivo troppo fiato sul collo e non ero nemmeno stato io quello con problemi di stalker: la paura potesse ricominciare tutto da capo, di poter rivivere le stesse tensioni, era tangibile e non solo per il sottoscritto, Jeff era nelle stesse condizioni. E non era per noi che eravamo preoccupati, soprattutto.  
Poi Danny ci ha portato in giro per Seattle e ci ha scattato una foto davanti ad un muro.
Demented and sad but social.
Eravamo noi, in fondo. E ci stava bene.

End.

 

 

   
 
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