[439]
Alfred
F. Jones;
Ormai aveva perso il conto delle volte che Arthur
aveva pronunciato il suo nome, e di quelle in cui lo aveva sostituito
con un velato insulto o con un semplice e conciso
“idiota”.
Affondò di nuovo i denti nel suo hamburger e
cercò di ignorare
quella vocina acuta e petulante che si stava ancora sforzando di
elencare tutte le proprietà fisico-chimiche di quella carne
di
dubbia provenienza.
«Vuoi stare un po' zitto? Se non te ne fossi
accorto sto mangiando.»
Arthur rimase a bocca aperta,
probabilmente spiazzato dal fatto che qualcuno avesse osato
rivolgersi a lui con un tono tanto insofferente, e cercò di
concentrare la sua attenzione su qualcosa che si trovava al lato
opposto della grande sala da pranzo dell'albergo, qualcosa che ad
Alfred non interessava minimamente, comunque.
Era da quella
mattina che si domandava per quale assurdo motivo Arthur fosse
lì
con lui, con quella faccia da schiaffi e il tipico atteggiamento di
chi preferiva fingere che non fosse accaduto nulla. Per la prima
volta da quando si erano conosciuti, Arthur si era preso la briga di
andarlo a svegliare – ossia, di andarlo a spingere
giù dal letto
fino a farlo agonizzare sul pavimento – e di stare assieme a
lui a
lezione, addirittura lo aveva aiutato quando non aveva capito alcuni
passi, a causa dell'eccessiva cadenza francese della loro insegnante
temporanea.
«E ho sentito dire che proprio questa mattina
verrà
un coreografo svedese con una specie di assistente, sai? Non vedo
l'ora di fare lezione, sono sicuro che sia un tipo in gamba. Tu che
ne pensi? Ci mettiamo vicini a lezione anche stamattina, ver-»
Alfred
cercò di caricare il suo sguardo con tutta l'insofferenza di
cui
fosse capace, nonostante quel temperamento non fosse nella sua natura
docile e giocherellona, ma sembrava quasi che i ruoli si fossero
invertiti. Era quasi come se Arthur, con il suo rifiuto la sera
precedente, avesse dato uno schiaffo all'ego di Alfred, facendogli
sbattere la testa e ricordandogli che non aveva l'obbligo morale di
essere gentile con lui, per quanto potesse trovare divertente
gironzolargli attorno e prenderlo in giro. Che non doveva nemmeno
affezionarsi troppo a quell'inglese insopportabile, anche se poi non
sarebbe più riuscito ad evitarlo, e ne avrebbe pagato le
conseguenze
sulla sua stessa pelle, circa due settimane dopo.
«Senti,
Arthur», gli disse, semi-nascosto dal terzo hamburger,
«non ho
niente contro di te, ma ho bisogno di mangiare immerso nella pace e
nella tranquillità, altrimenti mi va storto il pranzo. E se
mi va
storto il pranzo, rischio di morire o di ammazzare qualcuno, magari
qualcuno che sta seduto vicino a me e continua a parlare di cose che
non mi interessano affatto.»
Vide Arthur guardarlo in silenzio,
con un'espressione strana, probabilmente delusa, ma Alfred
pensò
ingenuamente che doveva essere stata soltanto una sua impressione e
quindi continuò a mangiare.
[411] Ivan
Braginsky;
Era divertente notare come Yao si affannasse per
arrivare a qualcosa che non gli apparteneva, un livello troppo alto
per lui, che si era rivelato uno dei migliori della sua Nazione.
Secondo Ivan la sua scalata poteva dirsi conclusa lì, e il
cinese
avrebbe dovuto ringraziare il cielo se la giuria aveva avuto il
coraggio di farlo arrivare fino a quel punto. Perché per
quanto i
salti fossero alti, le punte stese e le ginocchia tirate, per quanto
le braccia fossero morbide, la sua era una performance fredda.
Yao
restava estraniato dal suo personaggio, concentrando tutto se stesso
per uscire dal suo corpo mentre ballava e osservarlo mentre si
muoveva nella penombra di una sala in disuso.
E Ivan sorrideva,
perché gli piaceva vederli spaventati, Yao così
come tutti gli
altri partecipanti, tremare dalla paura mentre salivano gli scalini
del palcoscenico, deglutire e fissare i giudici come se fossero stati
serial killer che puntavano loro addosso una dozzina di
mitragliatrici e fucili a canne, invece che penne a sfera e block
notes per prendere appunti.
«Non hai capito Yao, qui hai bisogno
di piegarti di più.»
A quel punto Ivan si avvicinava lui, che
era ancora inginocchiato e teneva le mani congiunte, e poggiava una
mano sulla sua nuca, costringendolo col collo in avanti, in una
posizione quasi fetale e del tutto innaturale, come se il ragazzo
stesse pregando qualcuno, una terza persona, pur di salvarlo dalle
sue grinfie.
«Ed è come se tu stessi supplicando, hai
capito?»
Yao provava ad annuire, ma non ci riusciva, perché la
stretta sul suo collo era troppo dolorosa, ma lui era abbastanza
fiero da non provare nemmeno a lamentarsi o a chiedere a Ivan di
smettere, perché aveva capito benissimo. La sua voglia di
dimostrarsi forte, nonostante avesse chiesto l'aiuto di qualcuno,
divertiva Ivan e al tempo stesso lo inquietava.
Yao gli sembrava
una persona mansueta soltanto all'apparenza, ma dentro sembrava
nascondere lo spirito di uno di quei draghi dell'oriente, capace di
lottare fino ad esalare il suo ultimo respiro incandescente.
Yao
stringeva così forte le mani tra di loro che le nocche
diventavano
pallide, la sua espressione era veramente sofferente, e la posizione
in ginocchio appariva forzata, come se lui non avesse più la
forza
di pregare, né di stare in piedi, e rischiasse di
stramazzare al
suolo da un momento all'altro.
Questo era dovuto principalmente
al fatto che stava ballando almeno da due ore, che aveva saltato la
colazione e che non si era dato tregua nemmeno a lezione.
«Direi
che va bene così,», disse Ivan, lasciando andare
la sua nuca e
camminando verso la porta.
«Anche domani.»
Il russo si voltò,
guardandolo con un sorriso divertito, perché quel ragazzo
non finiva
mai di stupirlo.
«Vediamoci anche domani», ripeté Yao.
[300,
342, 559] Francis
Bonnefoy, Gilbert
Beilshmidt, Antonio
Fernandez Carriedo;
«Non hai capito, Antonio, io intendo
qualcosa di ancora più grande!»
«Tipo un mausoleo?»
«Non
esattamente, voglio una tomba enorme, con una statua gigantesca che
mi rappresenti. In cui ho in mano la testa di una tigre e un serpente
avvolto attorno al collo, e calpesto i resti di un coccodrillo. In
più deve avere le ali, delle enormi ali luccicanti di
brillanti e il
mio nome deve essere inciso nell'oro.»
Francis sollevò un
sopracciglio e si chiese da dove nascessero tutte le stravaganze di
Gilbert, se suo fratello era così semplice da ridurre la sua
camera
da letto a una branda militare e una lampadina che pendeva dal
soffitto, un arredamento spartano che però rispecchiava con
esattezza oscena la personalità di Ludwig. Gilbert aveva
passato
metà della mattina a mostrare le sue foto, alcune erano
più vecchie
ed ingiallite, altre erano recenti, e lo ritraevano circondato da
ragazze su una spiaggia del sud America o mentre faceva parapendio
tra le valli e le catene montuose del Belgio.
C'erano fotografie
di tutti i tipi, e Antonio aveva chiesto incessantemente per ore ed
ore per quale assurdo motivo Gilbert le avesse portate tutte con
sé,
ma non aveva ancora ricevuto risposta, e adesso si rigirava tra le
mani l'intera famiglia Beilshmidt, profondamente mutata nel tempo, e
la guardava con aria curiosa.
Ludwig poteva avere sì e no sei
anni, ma il berretto verde gli conferiva già un'aria di
giovane leva
in prova per il servizio militare. Il signore e la signora
Beilshmidt aveva un'espressione seria, sopracciglia aggrottate e
un'aria molto austera che, accostata ai tre enormi cani accovacciati
ai loro piedi, gli conferiva qualcosa di inquietante. Gilbert,
infine, nonostante fosse parecchio più giovane di adesso e
leggermente più vecchio di suo fratello, non sembrava avere
avuto un
cambiamento così radicale. Sorrideva, mostrando i suoi
canini
appuntiti e l'espressione di chi crede di poter scalare una montagna
con le mani legate dietro la schiena.
«E quindi tu sei più
grande di Ludwig...», mormorò Antonio, senza poter
staccare gli
occhi dalla foto.
Francis, che stava osservando Gilbert mentre
studiava nella sua stanza, adornata di letto a baldacchino e
gigantografia personale su una parete, alzò il mento di
scatto e
guardò attentamente entrambi.
«Davvero?», chiese a
Gilbert.
«Davvero.»
«Non sembra.»
«E perché
scusa?»
«Beh, perché... Lui è così
serio-»
«E io
no?»
«No.»
«Tu sembri un bambino», aggiunse
Antonio.
Gilbert tolse la foto dalle sue mani e la infilò in
mezzo al mucchio, in modo tale che non la ritrovasse, poi si prese la
briga di scegliere personalmente le foto da mostrare ai suoi amici,
onde evitare altri inconvenienti simili.
«La vostra casa è
strana...», mormorò Francis, «Alcune
stanze mi ricordano una
caserma, altre un campo di concentra-»
«Non dirlo.»
Gilbert
nascose anche la foto che stava guardando Francis, e gliene porse una
meno incriminante, in cui Ludwig indossava un antiestetico costumino
a righe e lui era intento a prendere il sole... Ovviamente
né
Francis, né Antonio potevano immaginare che, quella stessa
sera,
Gilbert si era lamentato fino alle lacrime delle ustioni che aveva
ottenuto grazie alla sua bella pensata.
«E poi vorrei tanto
sapere che cos'ha la tua casa in più della mia.»
Francis
raccontò che la casa era stata arredata a suo gusto, per
fortuna,
con una raffinatezza equivoca e decadente, che la sua famiglia
indossava abiti pomposi e barocchi, mentre i servitori avevano abiti
blu notte e camicie di seta. Antonio chiese se il maggiordomo si
chiamasse Ambrogio, Francis rispose che Ambrogio era morto di
vecchiaia un paio di anni prima, e che il maggiordomo attuale era uno
sfaccendato greco che avevano pensato più volte di
licenziare, ma
che alla fine continuava a poltrire sul divano del salotto.
Disse
che su tutti i mobili c'erano dozzine di oggettini in porcellana,
tanto piccoli che se la domestica ne rompeva uno, nessun membro della
famiglia sembrava accorgersene. Quegli oggettini erano accompagnati
da enormi vasi cinesi, pieni di colori e disegni, e dentro i vasi
cinesi c'erano piume di pavone che talvolta arrivano fino al
soffitto. Sulle mensole d'oro sua madre aveva fatto mettere degli
incensi profumati, in modo tale che, quando Francis tornava dal
collegio inglese in cui studiava, poteva mescolarsi di nuovo
all'odore della sua casa, senza che quello tipico britannico
prendesse il sopravvento su di lui. C'erano tendaggi di damasco,
paraventi e lampade a stelo che le donne delle pulizie, fasciate nei
loro vistosi vestiti da operetta, si affannavano a spolverare ogni
giorno.
«Fantastico! E hai qualche foto?», chiese Antonio.
«No,
mi dispiace, le ho lasciate tutte a casa.»
«Che
peccato!»
Antonio era una persona ingenua, e alle mirabolanti
avventure di Gilbert e alla raffinatezza della vita di Francis, aveva
contrapposto la sua casa umile e la sua vita ordinaria, in cui suo
padre scalpitava per andare a vedere la Corrida il fine settimana e
sua madre diffondeva volantini affinché abolissero quello
scempio.
«Viviamo in un vecchio monolocale in periferia»,
disse,
«A volte manca l'acqua calda, oppure la corrente elettrica,
però
mio padre non ci fa mancare mai niente. In più io ho trovato
lavoro
come cameriere in un bar, quindi riesco a pagare le lezioni di danza
senza dover chiedere aiuto a loro.»
Francis era completamente
estraneo a quella realtà in cui, nel ventunesimo secolo, i
figli
dovevano affannarsi per mantenersi e per non gravare troppo sulle
spalle della propria famiglia. Gilbert stesso si stupiva della
naturalezza con cui Antonio lo raccontava, nonostante lui stesso
avesse dovuto sopportare molte fatiche fin da bambino, ma
più perché
suo padre voleva che lui e suo fratello Ludwig diventassero presto
due uomini forti e responsabili che non per un bisogno vero e proprio
di denaro. Quindi fissarono Antonio un po' stupiti, come se si
trattasse di una specie di alieno armato di vassoi e tazzine di
caffé, tortillas calde e suadente accento spagnolo.
«Forte la
Corrida», fu l'unico commento di Gilbert.
[288]
Kiku
Honda;
Quel giorno era il suo turno, e Kiku aveva ringraziato
il cielo che non ci fosse nessuno a cospirare per una sua caduta o
per una sempre scivolata, accovacciato davanti a un televisore che
aveva le sue stesse origini. Gli altri ballerini avrebbero
frequentato una lezione extra, una specie di stage con un coreografo
venuto direttamente da Stoccolma e con un nome impronunciabile che
era stato strillato, sussurrato e detto dalle labbra di tutti quegli
strani europei che partecipavano al concorso almeno un milione di
volte ciascuno.
Stava finendo di truccarsi, nonostante odiasse
l'odore di tutta quella roba che gli imponevano di mettersi in
faccia. Kiku preferiva essere più semplice, così
come lo era il suo
costume. Aveva vietato categoricamente alla sua insegnante di
cospargergli il corpo di vernice color bronzo e di addobbarlo di
cianfrusaglie dorate come se si fosse trattato di una specie di
albero di Natale in scala ridotta.
Kiku aveva stretto al petto il
suo semplice paio di pantaloncini dorati, vagamente luccicanti e la
cintura gialla che avrebbe stretto in vita. In più si
aggiungeva il
paio di scarpette color carne, con le suole leggermente consumate dal
tempo e dai continui esercizi.
Infine aveva bloccato sulla testa
una rigida corona color bronzo, che mano a mano che saliva sfumava
nel colore del rame, fino ad avere una punta brillante. Quella non
era stata scelta da lui, purtroppo, e aveva patito fino a che non era
stato obbligato a portarla con sé.
Kiku credeva che nella forza
dei suoi muscoli sottili e nella tecnica che aveva appreso
più da
solo che con i suoi maestri, osservando video di vecchia data dei
padri della danza, risiedeva il vero spirito del ballerino, quello
che apprendeva molto osservando gli altri e che faceva pratica
avvolto in un'aurea di religioso silenzio, piuttosto che nella
baraonda che si creava con una ventina di ballerini rumorosi e pieni
di aspirazioni. Nulla di meno e nulla di più, non c'era
bisogno di
fronzoli inutili e quant'altro, un costume appariscente non era
necessariamente efficace. Peccato che i suoi insegnanti non
sembrassero capirlo ogni volta che lui provava a
spiegarglielo.
«Numero
duecentottantotto, Kiku Honda, dall'Accademia del Tokyo Ballet. Lui
interpreta la variazione dell'Idolo d'Oro dalla Bayadére di Ludwig Minkus
...»
[388] Feliciano
Vargas;
Feliciano annuiva costantemente, ad intervalli di
dieci secondi circa, scuoteva la testa su e giù e poi
sorrideva,
fingendo di aver capito. Quella era la tecnica più efficace
per
garantirsi che il maestro non si arrabbiasse con lui, e la usava da
quando aveva sei anni circa.
Feliciano aveva un caschetto marrone
che ondeggiava con ogni movimento della testa, era alto poco meno di
un metro e socchiudeva gli occhi o li teneva chiusi, affermando che
quella era soltanto la tecnica segreta che usava per non dover
guardare tutte le cose brutte e spaventose che succedevano nel mondo.
Era l'ultimo della sua sbarra, e le dita sottili stringevano il
legno, le sopracciglia si aggrottavano e lui doveva copiare gli altri
bambini, perché non ricordava assolutamente niente di quanto
aveva
appena detto loro l'insegnante. Quella non era una bella cosa, gli
spiegava Lovino al telefono, perché prima o poi gli altri
ragazzini
avrebbe cominciato a prenderlo in giro. E così infatti era
accaduto.
Feliciano era un bambino socievole e non attaccava mai
briga con nessuno, preferiva privarsi di metà del suo pranzo
pur di
dividerlo con qualche amico, ma non ne aveva mai avuto
l'occasione.
Finché non aveva conosciuto lui.
«Ve, Lud! Dopo
posso starti vicino? Non ricordo mai gli esercizi, tu invece hai una
memoria di ferro! Ho provato a chiederlo anche ad Arthur, ma lui mi
ha mandato a quel paese dicendo che oggi non voleva avere a che fare
con gli idioti, specialmente quelli americani. Lud, io non sono
americano, quindi credo che Arthur si sia sbagliato... Beh, si
è
sbagliato di sicuro, dato che io non sono nemmeno idiota. Lud, allora
ho chiesto a mio fratello, però Antonio se l'è
portato via mentre
Lovino strillava! Lud, aiuto! Non so come fare, perfino Gilbert mi ha
detto di no! E lui non mi dice mai di no! A questo punto penso che mi
toccherà andare a chiedere a Fran-»
«Puoi stare vicino a me»,
disse Ludwig in una risposta secca, impedendo a Feliciano di
continuare a travolgerlo con quel fiume di parole pronunciate con un
inglese a dir poco deleterio, «ma devi giurarmi che ti
comporterai
bene e che non mi darai fastidio.»
Feliciano scattò con la
velocità di un lemure e Ludwig si trovò stretto
in un abbraccio che
avrebbe incrinato addirittura le sue di ossa. Così
poggiò le mani
sulle spalle di Feliciano e lo staccò con tutta la dolcezza
di cui
era capace, sempre che si potesse parlare di dolcezza, almeno nel suo
caso.
«Questo rientra nel darmi fastidio.»
«Lud, sei sempre
così gentile con me! Grazie!»
«Non lo faccio per te, lo faccio
per aiutare gli altri e tenerti lontano da loro.»
«Ve, Lud, tu
hai un cuore così grande! Ti preoccupi sempre per tutti
quanti!»
«Ma
cosa c'è di sbagliato in te?»
Feliciano continuò a sorridere
con un'aria raggiante, mentre Ludwig si sedeva sul pavimento a
riscaldarsi e scuoteva la testa afflitto. In cuor suo, l'italiano
sapeva che Ludwig aveva bisogno di qualcuno che gli stesse accanto,
perché per quanto ostentasse il suo stile di vita solitario,
per
quanto lo si vedesse sempre da solo, sempre accigliato, scontroso
quasi come Arthur, anche lui aveva bisogno di qualcuno con cui
dividere il pranzo.
L'insegnante di Stoccolma entrò circa venti
minuti dopo, quando tutti i ballerini erano in fila lungo la sbarra,
era seguito da un ragazzo minuto, biondo e dall'aria molto timida.
Poco dopo scoprirono che si chiamava Tino e che era uno dei migliori
ballerini tra le accademie scandinave arrivato a Parigi soltanto per
quella lezione dimostrativa.
«E mi piacerebbe assistere a tutte
le altre performance, a partire da domani», aveva confessato
più
tardi.
Feliciano si guardava attorno con un'espressione sicura,
davanti a lui c'era Ludwig e questo gli bastava per non farlo sentire
troppo in ansia, in quel momento per lui tutto era perfettamente
normale e ogni cosa andava esattamente come doveva andare. Non si era
nemmeno accorto della presenza fantasma di Matthew, delle occhiate
di puro odio che si scambiavano Alfred e Arthur, di Antonio che
allungava le mani sul suo sventurato fratellone, di Elizaveta che
tirava fuori da chissà dove una padella e che la dava in
testa a
Gilbert, di Ivan e Yao che erano arrivati in un silenzioso ritardo e
che sembravano già stanchi e provati. Feliciano badava
soltanto alla
schiena forte del suo Ludwig e sorrideva, perché non doveva
fare
altro che copiare.
Il maestro si rivelò meno severo di quanto
sembrasse, aveva un cipiglio burbero e la faccia di chi non accetta
errori o distrazioni, ma alla fine era stato silenzioso e la collera
che sembrava controllare in silenzio in realtà si era
dimostrata
inesistente. Si chiamava Berwald
Oxenstierna
e Feliciano non riuscì mai a pronunciare il suo nome
correttamente, ma il maestro non sembrava nemmeno ascoltarlo, si
limitava a fissare
Tino che prendeva le sue veci e che quindi sillabava con gentilezza
quel nome all'italiano, nonostante ogni suo sforzo per farglielo
ricordare si rivelasse totalmente inutile.
A fine lezione Tino
aveva la bocca più stanca delle gambe, a furia di
avvicinarsi a
Feliciano e ripetere ogni lettera a voce alta come se stesse parlando
con un mezzo sordo, Matthew continuava a essere invisibile anche per
il loro insegnante temporaneo (in effetti sembrava essere invisibile
per tutti, meno che per Francis, che sussurrava qualcosa riguardo a
un invito a cena), Arthur e Alfred avevano finito il loro scambio di
occhiate rabbiose e avevano cominciato a sfoderare il loro repertorio
di frecciatine sarcastiche, che colpivano i difetti fisici, tra i
quali spiccavano le sopracciglia di uno e lo stomaco dell'altro,
quanto quelli caratteriali, accusando il carattere cinico tipicamente
inglese e l'egocentrismo dilagante di cui Alfred era letteralmente
malato. Antonio non si era ancora dato per vinto, e infatti sfoggiava
un grosso livido violaceo sullo zigomo e si reggeva lo stomaco mentre
agonizzava dopo una testata di Lovino, e a Gilbert, forse per
solidarietà con l'amico, era toccato lo stesso destino e
infatti
esibiva un enorme bernoccolo sulla fronte, mentre Elizaveta sorrideva
soddisfatta e metteva via la padella. Ivan e Yao erano già
spariti,
Feliciano non sapeva dove, ma non se ne preoccupò molto,
perché
aveva qualcosa di più importante a cui pensare.
«Lud! Guarda che
cosa ho qui!», strillò, afferrando Ludwig per la
manica della felpa
e scuotendo il suo braccio.
«Pizza!»
In una scatola di latta
Feliciano aveva chiuso il suo pranzo, avvolgendolo amorevolmente in
una carta gialla. Ludwig notò che il pranzo era stato
preparato per
due, e automaticamente pensò che lui avesse intenzione di
consumarlo
con suo fratello.
«No, non è per Lovino!», gli
spiegò in
fretta, quando Ludwig accennò andare via, «L'ho
preparato per noi
due! Siamo amici, no? Quindi pranziamo insieme!»
E a quel punto,
Feliciano mollò il suo braccio e infilò un pezzo
di pizza nella
bocca semi aperta di Ludwig, ridendo per la sua espressione
buffa.
Vorrei innanzitutto
chiedere scusa per il ritardo, e poi spiegare perché non
posso
rispondere alle recensioni. Sono all'università
(;___;”) e il mio
internet mi dà un po' di problemi ...
diciamo anche
che fa cagare. E' difficile anche riuscire a
postare e
a leggere i commenti, e questa cosa è veramente fastidiosa!
Spero di
avere una pennina per metà mese o al massimo
arriverà a Novembre
(nella speranza che arriverà), nel frattempo continuo a
pensarvi e a
scrivere tanto per voi. =)
Nonostante la mancanza di risposte,
mi piacerebbe leggere qualche recensione (e a chi non piacerebbe?) e
cercare di rispondervi non appena ne avrò l'occasione! C:
Kisu<3