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Autore: princess_sparklefists    11/10/2010    1 recensioni
I cinque scalini che lo separavano dall’entrata del solaio erano stati i più lunghi e penosi della sua vita. Afferrò, lentamente, la maniglia della porta. Aveva la pelle d’oca ovunque e sentiva la pelle formicolargli. Aprì. Breve one-shot non molto sensata per celebrare il mio ritorno su EFP
Genere: Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tutto era iniziato con una stupida scommessa.

Lewis, in piedi davanti alla porta della soffitta malediva mentalmente se stesso, quel fottuto bastardo di suo cugino Ian e il fatto di essere cascato di nuovo nei suoi stupidi giochetti. Zia Kathy era arrivata senza alcun preavviso a chiedere alla sorella di ospitare il figlio per un paio di giorni. Dopo pochi minuti Ian, come al solito, aveva iniziato a fare lo sbruffone.

"Allora, cuginetto, come va la tua fifonite acuta?" aveva esordito sogghignando beffardo.

"Non esiste alcuna malattia del genere!" aveva ribattuto Lewis (più a vantaggio di sua sorella Jodie, che lo guardava stranita, che per altro) "e in ogni caso non ne soffrirei".

"Uuuuh, davvero? Immagino che non avrai problemi a salire in soffitta, ora" rise il cugino."Piantala di dire cattiverie!- strillò Jodie -Mio fratello è la persona più coraggiosa che conosca!".

"Allora conosci davvero poca gente, Jodie-bella! Della vigliaccata di cui sto parlando non puoi ricordarti perché avevi poco più di un anno quando si mise a piangere non appena entrò piede in soffitta, ma devi proprio essere accecata da uno smisurato amore fraterno per non ricordare le innumerevoli conigliate del tuo fratellone. Come quando lo convincesti a salvare il gatto della vicina sull’albero e dovemmo chiamare i soccorsi per far scendere lui. E come dimenticare quella volta che rimase per tutto il ballo scolastico seduto solo come un cane perché aveva rifiutato tutte coloro che lo avevano invitato a ballare per paura che, se ne avesse accettato una, le altre si sarebbero offese, o peggio i loro corteggiatori si sarebbero incazzati. Senza contare che, a quanto mi risulta, non si è mai avvicinato alla soffitta dopo quella volta!".

La bambina avvampò. La sua smisurata testardaggine e il suo infantile orgoglio però non le avrebbero mai concesso di ammettere di essere in torto.

"Il gatto era grasso e si agitava e gli impastricciava i movimenti! E il ballo dimostra solo che è sensibile! E non è mai andato in soffitta perché non ne aveva bisogno, ma potrebbe andarci pure adesso! Vero, Lu?".

Prima che il suo cervello se ne fosse realmente reso conto Lewis stava rispondendo: "Certo che sì, Jodie-bella". Ian aveva ovviamente scommesso che non ce l’avrebbe fatta, cosa che lo aveva fatto infuriare ancora di più. Così era spavaldamente andato fino alla porta delle scale, aveva salutato i due scommettitori e se l’era richiusa velocemente alle spalle. Sperando di aver impedito a suo cugino di notare che gli tremavano già le gambe.

I cinque scalini che lo separavano dall’entrata del solaio erano stati i più lunghi e penosi della sua vita. Afferrò, lentamente, la maniglia della porta. Aveva la pelle d’oca ovunque e sentiva la pelle formicolargli. Aprì. La soffitta era un ambiente di dimensioni indefinite, che a tratti sembravano essere ampliate e a tratti diminuite dai cumuli di oggetti che vi albergavano ormai da anni. Sembrava che le precedenti generazioni avessero avuto un gusto per ammucchiare oggetti a caso, dato che nel solaio si potevano trovare: pile e pile di libri probabilmente troppo mangiati dalla muffa per risultare interessanti a chiunque tranne che a un micologo, un armadio pieno di vestiti di varie fogge, due abiti da sposa piuttosto brutti che si contendevano un manichino, due puzzle completi e piuttosto inquietanti, un souvenir di Parigi raffigurante una Tour Eiffel paurosamente inclinata e deforme, alcuni modellini di auto probabilmente mai esistite, un cumulo di giocattoli rotti con una trottola che ondeggiava tristemente e un paio di tube e un borsalino che avevano visto giorni migliori. Aggiungendo che l'abbaino era mezza sbarrata da una credenza smaltata stracolma di servizi da té a cui mancava qualche pezzo e di conseguenza tutto era immerso in una scarsa e malaticcia luce bluastra…

Quello che rendeva il posto veramente inquietante era però lo specchio. Torreggiava letteralmente in mezzo al caos, tanto alto e stretto da dubitare che una persona potesse realmente specchiarcisi. Sembrava bizzarramente privo di spessore e rifletteva più luce di quanta ve ne fosse effettivamente nella stanza. Lewis vi si avvicinò. Il suo riflesso sembrava strano. La pelle, già normalmente pallida, pareva emettere luce, e sinceramente non vedeva come quella criniera platinata potesse essere in qualche modo ricondotta ai capelli biondo slavato che gli ricadevano molli sulle spalle. E gli occhi! I suoi occhi non erano mai stati così, di quel verde brillante e vivo: i suoi occhi erano di un verde grigiastro, e più che alle foglie erano paragonabili a una pozza di melma. Nonostante avesse ormai capito che quello specchio tanto normale non era, e iniziasse già a calarsi in uno stato d’animo a metà tra il “maledettamente spaventato” e il “vergognosamente terrorizzato”, rischiò comunque la tachicardia quando il riflesso gli rivolse la parola.
"Ciao", disse il ragazzo nello specchio.
Lewis si bloccò, diffidente.

"Oh, su, sai che non ti farei mai del male. Dopotutto, io sono te" ridacchio la creatura dello specchio.

“No, tu non sei me” pensò Lewis “È come se io fossi la tua imitazione di pessima qualità, non sei me”. 

"Suuu, rilassati… Se mi seguirai, ti porterò in un posto che ti piacerà".

Lewis voleva scappare, o almeno urlare, ma la paura gli aveva bloccato anche le corde vocali. Il riflesso uscì dallo specchio e lo abbrancò per le spalle. Il suo grido di terrore venne soffocato da qualcosa di gelido come ghiaccio, fluido come acqua e pesante come l’acciaio.

Un secondo dopo l’acqua, vera stavolta, gli invadeva i polmoni. Due braccia forti lo tirarono a peso all’aria. Lewis aprì gli occhi. Era su un molo. Si capiva che era un molo, anche se non c’erano barche e, a dire il vero, neanche una città o un paese che potesse servirsi di tale porticciolo. Un molo in mezzo al nulla. E la creatura. Ora non gli assomigliava più, ma si capiva che era sempre la stessa. I suoi tratti cambiavano continuamente, ma la sua intera figura continuava ad essere eccessivamente vivida. Lewis si rese conto di aver fatto un errore. Non era su un molo. La creatura era sul molo, e lo teneva sospeso sull’acqua.

"Mmmh… immagino che da qualche parte in quel tuo cervellino terrorizzato sai già che stai per rendere l’anima, o passare a miglior vita se preferisci, anche se non la definirei così.", la creatura scoppiò a ridere rumorosamente, "Se può tranquillizzarti hai ancora una minuscola via di uscita. Piiiiiccola, ma c'è. O l’acqua, oppure uno scambio: io ti lascio andare e tu mi consegni Jodie!".
Lewis era terrorizzato. Il suo corpo era qià pronto a urlare di lasciarlo andare, a dimenarsi. Eppure non lo fece. Jodie era la sua sorellina. Era coraggiosa e allegra. E si fidava di lui, difendendolo contro ogni evidenza. Ora era il suo turno di fare qualcosa per lei.

"Grazie, ma preferisco morire" rantolò, terrorizzato. "Oh, davvero?", rise nuovamente la creatura, "Tanto di cappello!! Tuo cugino non si è fatto tanti problemi a sacrificarti al suo posto!".

Il ragazzo imprecò a mezza voce. Quel bastardo! 

"Sorpreso? In ogni caso fai ciao ciao con la manina alla tua inutile esistenza!". Lo lasciò. Lewis morì con negli occhi l’immagine della creatura che prendeva nuovamente le sue sembianze.

 

Lewis oltrepassò la porta delle scale e la richiuse lentamente dietro di sé. Nonostante avesse fatto attenzione a non fare rumore, Jodie gli corse incontro sulle scale, strillando: "Sapevo che ce l’avresti fatta!", e lo soffocò in un abbraccio. Ian, sorpreso e contrariato, fu costretto a dargli il denaro che avevano scommesso. Poi andarono tutti e tre assieme a prendersi un gelato.

Felicità. Era da tanto, troppo, tempo che la creatura non provava quest’emozione.

Ma, dopotutto, ora non era più la creatura, il suo nome era Lewis, ora.

 

La creatura riaprì gli occhi. La pelle gli formicolava in un modo pazzesco. Aveva male dappertutto. Era sdraiato da qualche parte, ma non avrebbe saputo dire dove. Era in mezzo al nulla più sconfinato. Si tirò in piedi. Penso che il semplice sforzo di stare alzato lo avrebbe ucciso. Un’altra volta. Pensò che doveva sedersi.
Apparve una sedia, lì, in mezzo al niente. Senza farsi troppi problemi la creatura si sedette e rifletté.
Qual era il suo nome? Non ne aveva. Una volta (tanto tempo fa? O solo due minuti prima?) era stato Lewis.
Cosa aveva lasciato? Una famiglia scoppiata, amici che lo frequentavano soltanto perché era molto più facile cuccare se si stava con uno che attirava ragazze come il miele le mosche e non si interessava minimamente a loro, una casa vecchia e cadente, un’esistenza segnata da una fama di coniglio.
Cosa aveva ora? Se stesso e il corrispettivo metaforico di un foglio bianco su cui poteva fare ciò che voleva.
Al diavolo Lewis.



Note dell'autrice
Questa è una storia a cui sono molto affezionata per nessun buon motivo apparente :D
La parlata della "creatura" è largamente ispirata alla massima di Sir Terry Pratchett secondo cui l'utilizzo smodato dei punti esclamativi è un segno sicuro di squilibrio mentale. Spero che a qualcuno piaccia questa breve storia,      Ayr

   
 
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