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Autore: hikarufly    22/10/2010    2 recensioni
Una cronistoria della vita passata di Camelot, prima che Artù nascesse, con il passato re, un giovane Gaius e un piccolissimo Uther...
(p.s. il nome Freya giuro l'ho deciso un paio di settimane prima che andasse in onda la puntata in cui la povera druida omonima fa la sua comparsa!!! e ho dei testimoni, si intende.)
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Drago, Gaius, Nuovo personaggio, Uther
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Prima dell'inizio
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le cronache dei re di Caledonia'
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Non poteva pensare di essere giunta a quel punto. Niente di quello che aveva tentato era riuscita a farla uscire da quella condizione, anche se non aveva quasi l’intenzione di arrendersi. Non l’aveva voluto, mai… o forse un giorno, con la persona giusta… ma non ora, non così, si diceva. Errava senza una meta in mezzo ad una selva a ridosso di un monte, abbracciata dagli alberi e dalla roccia. Un’altra fitta: erano ormai sempre più regolari e ravvicinate… si chiese se sarebbe arrivata viva alla fine della giornata, e se anche fosse sopravvissuta, cosa ne sarebbe stato di lei.
Il dolore fu troppo forte, e si lasciò cadere ai piedi di un albero, accanto a una folta siepe scura e senza fiori, che faceva un po’ da guardia all’ingresso di una piccolissima caverna. Cercò di chinarsi su sé stessa, ma il suo ventre si era gonfiato a dismisura, tanto che temeva di portare in grembo più di una creatura. Cercò di resistere, ma non ci riuscì, squarciando il silenzio con un grido di dolore, sicura che altri urli avrebbero seguito il primo, accompagnati da fitte sempre peggiori.
Un suono, se non ascoltato da nessuno, fa rumore? È facile pensare che fisicamente sia così, ma se non c’è orecchio ad udire quel suono non ha sostanza per l’uomo. Non era questo il caso: qualcuno udì quel grido, e come lo fece, allungò il passo, non agitato, ma consapevole delle sue capacità e di ciò che stava accadendo. Era solo un ragazzo, sulla ventina o poco più, di fisico slanciato ma non propriamente atletico. Era abbigliato piuttosto poveramente, ma non sembrava uno stolto soldato o un contadino ignorante: nei suoi occhi c’era una strana luce, come un fuoco che alimentava una innata e sconfinata curiosità, nata in seno a una mente molto brillante, nonostante le povere origini. Aveva imparato a leggere quasi senza l’aiuto di nessuno, e le scienze affascinavano la sua anima. Aveva gli occhi di un blu piuttosto scuro, e una chioma di giusta lunghezza di capelli fulvi, scossi dalla sua corsa. 
Evitò una radice sporgente come se conoscesse il terreno meglio delle sue tasche, e giunse alla fonte dell’urlo che aveva udito: era una ragazzina, avrà potuto avere quindici o sedici anni. Era incinta, e sia dalla grandezza del ventre sia per l’espressione di dolore dipinta sul volto, era certamente in fase di travaglio. Si avvicinò, lasciando scivolare la piccola sacca lisa che portava sulla schiena, apparentemente mezza vuota. La ragazza cercò di allontanarsi da lui, ma l’unica cosa che riuscì a fare fu guardarlo con occhi pieni di terrore, mentre la fronte le si imperlava di sudore freddo e il dolore si faceva talmente acuto da diventare quasi accecante, insopportabile. Il giovane si accostò a lei, con viso disteso e gentile, cercando di sorriderle e di nasconderle che pur avendo letto e udito di parti e nascite, lui ancora non ne aveva mai assistito uno. Lei sembrò non voler avere niente a che fare con lui, così come non voleva avere a che fare con nessun essere umano, né ora né mai. 
Le contrazioni si fecero vicinissime e regolari, e il giovane che era giunto presso di lei non si fece più tanti scrupoli: in fondo, si trattava di due vite, al diavolo l’esperienza. Avrebbe fatto del suo meglio e questo era l’importante. La ragazzina infine si arrese, chiudendo gli occhi e sperando che quel incubo si risolvesse il più presto possibile.
Non fu semplice, e più di una volta lei fu sul punto di non riuscire più a respirare o spingere per far nascere il suo bambino, ed una pioggerellina fredda iniziò a bagnare entrambi. Il giovane trasportò la ragazza entro la piccola grotta, e lì, dopo più di due ore di urla e di dolore, venne alla luce un piccolo maschietto, piuttosto magrolino e con il viso un poco deformato, probabilmente per uno o più traumi avvenuto durante la gravidanza. 
Una delle cose che il giovane dai capelli fulvi ricordò per tutta la sua esistenza, fu il suo primo paziente a non farcela. Quel piccolo bambino non avrebbe mai avuto nome, e non avrebbe mai strillato per la prima volta: provò ogni rimedio che conosceva, ma quella creatura indifesa, sfigurata, indesiderata, lasciò questo mondo prima di mettervi piede, senza un rumore.
 
Passarono ore prima che uno dei due potesse dire o fare qualcosa, in quella notte umida di tempesta. Il ragazzo dai capelli rossi era andato a seppellire il bambino poco lontano, dicendo l’unica preghiera che ricordava, nonostante non sentisse di professare alcuna religione, ed era ritornato, cercando di aiutare ragazza a sistemarsi, ma quella non volle neppure farsi sfiorare. Riuscì solo a darle una coperta che portava con sé, dato che la pioggia si era fatta più intensa. Lui accese un piccolo fuoco, in un punto riparato ma che permetteva al calore di restare e al fumo di uscire.
«Qual è il tuo nome?» chiese lui, voltandosi in sua direzione. Lei era stretta nella coperta e raggomitolata su sé stessa, con lo sguardo perso nelle fiamme del focolare, e non sembrò neppure sentirlo. Il ragazzo era un po’ a disagio: non era mai stato esattamente adatto a delle situazioni del genere. Risultava sempre poco delicato nei suoi interventi, ma non riusciva a farci niente. La osservò meglio: aveva i capelli color miele, ed era sicuro che sarebbero stati stupendi se trattati con i giusti unguenti, e non madidi di sudore e pioggia. Aveva gli occhi persi in chissà quale pensiero, di colore verde.
«Io sono Gaius» continuò lui, sempre a disagio. Lei lo guardò un secondo, per poi tornare a fissare le fiamme. Il ragazzo provò un leggero turbamento, cogliendo in quell’occhiata una profonda inquietudine, ed ebbe come la sensazione che quella ragazzina non avesse mai vissuto davvero. Gaius sospirò.
«Senti, io… mi dispiace. Ho fatto quello che ho potuto, e non è stato abbastanza. Però voglio farti sapere che mi occuperò di te» spiegò lui, cercando di non risultare finto o troppo pressante. Lei tornò a guardarlo, un po’ miscredente e un po’ delusa. Era stanca, e non solo per l’enorme sforzo e la fatica.
«Riposati, cerca di dormire. Guarda, ho altre coperte, puoi usarle tutte» continuò Gaius, recuperando la sua sacca, e porgendogliele «appena sarai in grado di camminare, ti porterò con me»
La ragazzina prese le coperte, evitando accuratamente di farsi avvicinare troppo e di anche solo sfiorare le dita di lui. Le sistemò con lentezza, ma piuttosto precisamente, e vi si appoggiò, continuando a osservare Gaius come se si aspettasse che se ne andasse o che le facesse del male.
«Dove?» domandò lei, dopo quella che il ragazzo sentì come una lunghissima e sofferta riflessione da parte della ragazzina. La sua voce era leggera e lievemente roca, come se non parlasse da mesi.
«Sto andando alla fortezza di Gateshead… ho una lettera di presentazione e spero di diventare apprendista medico» spiegò Gaius, attizzando un poco il fuoco per non farlo spegnere, con un sorriso soddisfatto, fiero e pieno di speranze. Lei si coprì ancora un poco con la coperta, continuando a osservarlo.
Gaius era sereno, e non pareva avere nessuna preoccupazione. La sua mente, però, era sempre attiva e questo si notava persino in quel momento, in cui era possibile osservarlo seduto, fermo, con apparentemente l’unico intento di tenere acceso il falò. 
«Freya» disse lei, sul punto di addormentarsi, mentre i suoi occhi faticavano a restare aperti.
«Come?» domandò lui, soprappensiero.
«Il mio nome… è Freya» concluse la ragazzina, cadendo in un sonno profondo e popolato dai soliti, orrendi, sconvolgenti, spietati incubi.
 
La mattina dopo Freya si svegliò senza fiato, spaventata da qualcosa che Gaius non poteva vedere. Il ragazzo si precipitò vicino a lei, profondamente indolenzito per aver vegliato molto e dormito male. Lei non si fece di nuovo sfiorare, e non appena lo vide giungere si ritrasse freneticamente, ancora sconvolta. Gaius fece un passo indietro, con una scusa dipinta sul volto. L’aveva sentita parlare nel sonno quasi tutta la notte,ma non l’aveva compresa, perché aveva borbottato piano, senza pronunciare appieno le parole.
Freya si alzò da sola, pian piano, non volendo assolutamente aiuto, mentre Gaius portava fuori dalla grotta la sua sacca e le sue coperte, lasciando alla natura i rimasugli del fuoco che aveva acceso. La aspettò, paziente, e le fece cenno di precederlo sulla via che lì vicino iniziava a snodarsi tra gli alberi massicci e frondosi. 
Camminò a distanza da lui, lanciandogli delle occhiate nervose e vagamente spaventate. Dopo circa sei ore di tentativi di iniziare un minimo di conversazione, Gaius gettò la spugna. I due viaggiarono per circa tre giorni, in completo silenzio, distanziati di qualche passo: Freya non sembrava avere un solo pensiero, un solo scopo ma non voleva andarsene, non voleva cambiare strada. Il suo ventre già iniziava a sgonfiarsi e sembrava apparentemente star bene, ma Gaius aveva già in mente di costringerla a farsi fasciare la pancia per facilitare il riassetto del suo utero, e farsi visitare dal primo medico disponibile, possibilmente quello del castello. Sperava anche di riuscire a trovarle una sistemazione lì, magari come ancella, o al peggio in cucina. Gli balenò in mente che forse non era una serva, non era una popolana come lui, eppure non aveva paramenti nobiliari né il portamento tipico delle dame. Freya, da parte sua, seguiva Gaius, forse riconoscente per l’aiuto che le aveva dato, ma senza sapere neppure perché. Si comportava come se quel giovane la spaventasse a morte. Come se le avesse fatto qualcosa di orribile, invece di aver assistito al suo parto. Ciò che Gaius notò è che lei pareva aver dimenticato del tutto il bambino che aveva seppellito.
Attraversarono infine una foresta di alberi radi, in pianura, e proprio quando il castello di Gateshead apparve alla loro vista, la ragazzina si accasciò a terra, in ginocchio, premendosi le mani sul petto rigonfio dalla gravidanza. Gaius si avvicinò prontamente, ma non la sfiorò: sapeva che non gli avrebbe permesso di toccarla.
«Che cos’hai? Ti senti male?» chiese il ragazzo, premuroso. Freya aveva il viso contratto in una smorfia di dolore, e soffiò per lo sforzo di non urlare; scosse la testa, non sembrava volergli spiegare cosa c’era che non andava. Gaius ebbe un attimo di lucido panico, ma riorganizzò in fretta le idee, da bravo medico quale sarebbe diventato: la paura è solo uno stimolo a perfezionarsi.
«Ce la fai a continuare a camminare? Dobbiamo raggiungere il castello, lì ci sarà sicuramente qualcuno che ci aiuterà» spiegò lentamente, portando le mani avanti, come offrendosi di sorreggerla. Lei lo osservò attentamente, e poi annuì con un gesto del capo. Usava dall’inizio del loro cammino la coperta del giovane un po’ come mantello, e stringendosi di nuovo a quello, riprese a camminare, ma più lentamente. Se Gaius cercava di avvicinarsi un poco di più, quando la vedeva particolarmente sofferente, lei si discostava di un paio di passi, quasi come un riflesso condizionato. 
Giunsero al villaggio intorno al castello, dove molti furono gentili e disponibili a indirizzarli ed aiutarli, seppur mantenendo una certa distanza: la prudenza non era mai troppa. Non fecero particolari domande, ma alcuni guardarono i due come se pensassero che fossero una coppia davvero male assortita. Si poteva percepire una strana atmosfera nell’aria, quasi di attesa: nessuno sembrava fare il proprio lavoro normalmente, ma semplicemente per far finta di far qualcosa, in attesa che succedesse un grande evento… 
Gaius e Freya entrarono nella corte del castello, molto ampia e affollata. C’erano apparentemente quasi tutti i servi del castello, che si comportavano esattamente come tutti al villaggio: si affaccendavano ma non lavoravano davvero. Gaius temporeggiò qualche istante, mentre Freya lo osservava come se sperasse che facesse qualcosa. Il ragazzo, poi, si rivolse a una donna dal fare sbrigativo, piuttosto tornita e dalla faccia truce. Anche Freya sembrò capire che forse era l’ultima a cui doveva rivolgersi.
«Scusatemi, signora…» iniziò il giovane, titubante, alzando un dito, indirizzandola. Quella lo osservò un istante, dopo che l’ebbe sentito, e rise di lui.
«Signora a me? Ragazzo, ma mi hai vista?» replicò quella, e li lasciò lì soli, senza un’altra parola.
Gaius rimase con l’indice puntato verso il cielo e un’espressione sospesa sul volto. Freya ebbe un leggero istinto: quello di ridacchiare, ma qualcosa la fermò. Qualcun altro rise al posto suo, infatti: una donna di sicuro maritata da molti anni, con qualche figlio già grande, vestita in modo modesto ma dignitoso. Aveva i capelli raccolti in una sorta di piccolo turbante, con qualche ciocca che spuntava qua e là, come era costume a Gateshead da molti anni.
«Mi ricordi il nostro Geoffrey. Quando arrivò qui si coprì di ridicolo sin dal primo istante, timido e imbranato come era. Qual è il tuo nome?» chiese infine, dopo aver parlato con tono disteso, un po’ ironico ma non canzonatorio.
«Gaius, signora, io…» iniziò, balbettando un poco, e rovistando nella sua sacca apparentemente vuota e tirandone fuori una pergamena arrotolata «io volevo presentarmi come apprendista presso il medico di corte… ho una lettera di presentazione, ecco» concluse, porgendo il testo alla donna, che lo rimandò a lui con un gesto delicato della mano.
«Caro, non sono signora e non so leggere. Credo dovrai chiedere direttamente al medico, ma in questo momento è molto occupato…» replicò quella, per poi voltarsi verso il punto che tutti stavano fissando. Un servo, piuttosto giovane, arrivò di corsa dalla ampia scalinata centrale che conduceva al grande portone. Giunse di fronte alla donna con cui parlava Gaius, e premendosi una mano sul cuore e ansimando copiosamente, si piegò su sé stesso.
«Dunque?» domandò lei, curiosissima. 
«È… è un… maschio… non so… come lo… vogliano chiamare…» disse quello, tra un respiro affannato e l’altro, rialzandosi appena.
Ci fu un generale vociare tra i presenti, finché una figura si affacciò a una grande balconata: era probabilmente un consigliere, vestito riccamente ma in modo severo, senza ostentare la propria posizione con l’abbigliamento, ma con un piglio decisamente nobiliare. 
«Mi pregio di annunciarvi che è nato! Il principe Uther è nato!» annunciò, mentre la sua voce si spandeva nello spazio ampio e acustico del cortile, e Freya rovinava a terra, svenuta.
 
Gaius non dimenticò mai la prima volta che riuscì a toccare Freya. La prese in braccio, svenuta, tirandola su da terra, in mezzo alla festa generale che era scoppiata tra la servitù nel cortile interno del castello, per la nascita del principe. La donna che li aveva ascoltati e che si era rivolta a loro, il cui nome era Permelia, fece cenno al ragazzo di portare la giovane via con sé, e lo condusse verso lo studiolo del medico, ancora vuoto. Era una stanza ampia, abbellita da un arredamento piuttosto massiccio e scuro, che rendeva la stanza molto solenne e fredda, diversamente da come il laboratorio di un medico dovrebbe essere, o almeno così pensava Gaius. Doveva essere accogliente, questo pensava, un posto in cui le persone si sentissero meglio, nonostante le malattie o le ferite. La serva gli fece cenno di stenderla su un lettino povero ma morbido, e Gaius la adagiò con tutta la delicatezza di cui disponeva.
«Si era già sentita male, prima?» domandò Permelia al ragazzo, osservando con dolcezza Freya.
«Prima di arrivare al castello si era inginocchiata a terra, e si teneva il petto… ma non mi ha voluto dire cosa aveva…» replicò Gaius, ancora confuso. La serva si sedette sul giaciglio, e passò una mano sulla fronte della ragazzina.
«Non scotta… non penso sia vittima di febbre o cose simili…» spiegò. Sembrava sapere quel che diceva, cosa che colse di sorpresa Gaius, che credeva che chi non sapesse leggere non potesse conoscere nulla di medicina. Non sapeva che una madre amorevole, che ha assistito i figli nei giorni lieti e in quelli bui, sa riconoscere le malattie comuni molto meglio di un dottore.
Permelia spalancò gli occhi quando notò il ventre un poco rigonfio e i seni ingrossati di Freya.
«Questa ragazza ha partorito da poco!» esclamò, sorpresa e anche un poco adirata «quanto avresti aspettato per dirmelo?»
Gaius si sentì profondamente in colpa. L’arrivo al castello di Gateshead, che aveva atteso da così tanto tempo, e la vicinanza così effimera a raggiungere l’opportunità di tutta una vita gli aveva improvvisamente fatto scordare ciò che era successo… ma quel piccolo neonato morto gli ritornò alla mente d’improvviso, e il suo viso si fece grave.
«Ha partorito tre giorni fa… il suo bambino è morto» riuscì solo a dire. Il viso di Permelia si fece meno duro, ma ugualmente grave.
«Non oso immaginare con che coraggio si sia messa in marcia per venire qui… sai qualcosa di lei? Se ha un marito, una famiglia?» domandò subito, con i modi spicci tipici dei servi di una corte importante. Notò che non portava alcuna fede al dito e che non aveva pendenti o altro che potesse suggerire qualcosa sui suoi parenti.
«Io… io non so nulla. Non mi ha voluto parlare, non si è voluta nemmeno far sfiorare» spiegò Gaius, a mo’ di scuse. Permelia accarezzò lentamente la fronte di Freya. Era ancora una bambina, eppure aveva avuto il coraggio di non perdersi d’animo… chissà cosa le era capitato, come era rimasta incinta, e dove erano i suoi genitori. Pensò a come si sarebbe potuta sentire se non avesse più avuto notizie di uno dei suoi figli… 
Freya si svegliò, scostandosi subito da Permelia, e portandosi una mano al petto, sforzandosi di non mostrare quanto male gli facesse.
«Tranquilla, tranquilla… sei al sicuro» disse la donna del castello, avvicinandosi ma senza toccarla «dimmi che cos’hai… siamo qui per aiutarti» concluse, con voce dolce e rassicurante. Gaius ebbe una nuova stima di lei e anche un po’ di invidia: anche lui avrebbe voluto parlare così un giorno ai suoi pazienti, con poche parole ma efficaci.
In quel momento, proprio un istante prima che Freya si decidesse a parlare, entrò il medico di corte, seguito da qualche ancella e da una donna più anziana che reggeva il piccolo principe Uther. Il medico di corte era un uomo di mezza età, dal viso stanco e i gesti sbrigativi. Sembrava attendere solo di mandare via tutti e di leggersi in pace un buon libro. I suoi lineamenti erano morbidi e cadenti, gli occhi dalle palpebre pesanti e lo sguardo un po’ vacuo. Si chiamava Swithin, e si accasciò su una sedia, guardando dubbioso il terzetto che aveva occupato il suo studiolo, mentre le ancelle lavavano il bambino, animate da piccole risa di tenerezza.
«Permelia… sono distrutto» disse, con il classico tono da vittima «questo parto è stato davvero difficile… e in più a quanto pare non c’è una sola donna che possa fare da nutrice a questo bambino… nessuno ha avuto bambini in questo periodo. Un disastro su tutta la linea… tra l’altro credo che il bambino abbia un principio di ittero»
Permelia si scostò con un poco di riluttanza dalla ragazza, che ancora era scossa da piccoli movimenti a scatto, come se reprimesse gesti più ampi e dettati dalle fitte. La serva si avvicinò al medico, gli si accostò e poi si pose alle sue spalle. Portò le mani alle sue spalle e prese a massaggiarle con leggerezza.
«Siete fortunato, caro… abbiamo qui una giovanissima vedova che probabilmente ha i seni talmente pieni da poter sfamare più di un principe» spiegò, ammiccando in direzione di Gaius, che annuì poderosamente, imbarazzato. Freya non disse nulla, ma non negò, anzi: parve perdersi in cupi pensieri.
Swithin guardò la moglie Permelia con grande riconoscenza ma non replicò e si abbandonò alle amorevoli cure della consorte. Una delle ancelle si avvicinò a Freya, e le si sedette accanto. Avevano più o meno la stessa età, ma l’ancella aveva avuto molti fratelli maggiori e minori e sapeva cosa doveva fare. Le mostrò come prendere in braccio il principe, e glielo porse con trasporto, tanto che la ragazzina non poté che assecondarla e prenderlo in braccio. Appena fu sicura che Freya teneva il principe ben saldo, si allontanò, e uscì insieme alle altre colleghe.
Gaius si schiarì poderosamente la voce, e fece girare tutti verso di lui.
«E tu chi sei?» domandò Swithin, apparentemente sul punto di addormentarsi.
«Il mio nome è… è Gaius, signore, io… vorrei diventare vostro apprendista» balbettò, avvicinandosi con la sua lettera di presentazione salda tra le mani. Il medico la prese e la dispiegò, leggendola brevemente.
«Ragazzo, io sono sicuro che tu sia pieno di… qualità e doti nascoste, ma non ho mai preso allievi e penso che tu non sarai il primo, specialmente dato che vieni da una famiglia così di basso rango…» borbottò il medico, troppo pigro per inventarsi delle buone scuse. Gaius si sentì morire dentro, sempre di più ad ogni parola… il suo sogno non poteva infrangersi così, senza che lui avesse avuto modo di far vedere di cosa era capace.
«Signore… io ho imparato da solo a leggere e a scrivere. I miei genitori non hanno neppure il pane da mangiare, eppure io sono riuscito a fare molto più di quanto ci si aspettasse da me. Di giorno lavoravo insieme ai miei fratelli, solo quando non avevo altro da fare mi dedicavo a me stesso. Non mi sono mai sottratto ai miei doveri e ho sempre chinato la testa. Sono pronto a rifarlo, se un giorno potrò salvare delle vite. Vi prego, lasciate che vi mostri di cosa posso essere capace» spiegò, prendendo a poco a poco il coraggio che gli serviva. Swithin soppesò le sue parole, di sicuro un po’ ridondanti, ma Permelia aveva capito con quanto ardore il ragazzo desiderasse raggiungere il suo obiettivo. Avvicinò il viso all’orecchio del marito.
«Dategli una possibilità, caro. Un aiutante vi farà comodo, e il ragazzo sembra poco incline a lasciar perdere» spiegò, mentre il volto di Gaius si trasfigurava in puro giubilo. Il medico sospirò.
«D’accordo, d’accordo… io credo che andrò a riposare… ci pensate voi, cara?» domandò poi Swithin, ritirandosi in una stanza adiacente al suo laboratorio, senza salutare e con un ampio sbadiglio.
Permelia si avvicinò a Gaius, e quello la abbracciò d’istinto, per poi rendersi conto di essere estremamente inopportuno e si allontanò subito, rosso in volto. Permelia non si offese, anzi, gli sorrise e lo accompagnò verso la porta, dicendogli di domandare all’ancella più anziana che aveva visto prima di trovargli una sistemazione temporanea. La moglie del medico si sarebbe occupata di lui il giorno seguente, ora doveva prendersi cura di Freya, e Gaius lo capì subito. Prima di uscire, il giovane guardò la ragazza con la coda dell’occhio: quasi non la riconobbe, tanto era assorto il suo sguardo e armonioso il muoversi delle sue dita affusolate sulla pelle morbida del neonato che aveva in braccio. 
Permelia chiuse la porta dietro di lui e si accostò a Freya. Quella non diede segno di non gradire la sua vicinanza, tanto era concentrata sul piccolo principe. Era un po’ sottopeso, magrolino, ma sembrava già piuttosto sveglio: apriva gli occhietti acquosi di tanto in tanto, e muoveva le gambe e le braccia a piccoli scatti, aprendo e chiudendo i pugni dito per dito, in ordine sparso.
«So che cos’hai… dato che non sei riuscita ad allattare tuo figlio, i tuoi seni sono troppo pieni. Se li svuoterai, andrà tutto bene… so che probabilmente vorrai solo restare sola, oppure no. Ma ho pensato che trovarti un impiego fosse l’unico modo per assicurarti un posto dove stare, un tetto sopra la testa e pasti caldi» spiegò Permelia, non troppo convinta che darle quel bambino tra le braccia fosse stata la cosa migliore, o forse sì. Non doveva pensare che quello fosse suo figlio, eppure dall’altro lato di sicuro occuparsi di qualcuno le avrebbe fatto solo bene.
«Il mio bambino è morto» disse Freya, d’improvviso, qualche istante dopo che Permelia ebbe parlato. Lo disse piuttosto tranquillamente, poi il viso si contrasse in pianto, pur senza lasciare andare il principe, che rimase saldo e sicuro tra le sue braccia. Permelia non riuscì a trattenersi dal cingerle le spalle, ma non aveva parole di conforto, perché sapeva che non sarebbero servite.
«Io non lo volevo… lui mi ha lasciato… ma io non credevo di poterlo volere così tanto… ma ora è troppo tardi e sarò dannata per il resto della mia esistenza» si sfogò lei, tra le lacrime, finché il piccolo principe Uther non si fece sentire con un piccolo strillo. Entrambe le donne lo guardarono, e Permelia strappò finalmente un sorriso, anche se tiepido, alla giovane.
«Beh, si può di certo dire che sa far pesare la sua presenza e la sua posizione già ora… figuriamoci quando sarà più grande» disse Permelia, alzandosi per andare a prendere uno o due vestiti della figlia maritata da anni, e qualche panno.
La moglie del medico aiutò la giovane a cercare di far attaccare il bambino, che non si fece di certo pregare, nonostante fosse così piccolo. Freya ne soffrì un po’, ma ben presto si sentì meglio, come aveva previsto Permelia.
La prima giornata a Gateshead dei tre nuovi arrivati si era conclusa: un apprendista medico povero ma sveglio, una ragazzina misteriosa e tormentata, e un principe che non sarebbe mai e poi mai salito al trono.
   
 
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