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Autore: DafneSky    24/10/2010    2 recensioni
Già con la sorella maggiore Yu aveva qualche problema. Ma se poi ci si mettono anche strani sogni, diaboliche sorelline pestifere, lupi norrenici e il tuo migliore amico le cose si complicano non poco...
Genere: Drammatico, Sovrannaturale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Shin, Yu
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dormire senza sognare è come fare un sogno tutto nero. Nero. Nero a destra, nero a sinistra, su e giù. E il silenzio, silenzio da tutte le parti. Ecco perché capii di dormire sognando. Perché era nero ma sentivo la voce di mio padre. Sentivo lo stridio delle gomme sull’asfalto e la voce di lui che gridava: «Mettiti al riparo, Hannes!!!». E poi la luce. Luce rossa e arancione, luce calda. La luce di quando la macchina aveva preso fuoco. Ero così piccolo.
Credo di essere saltato giù dalla macchina un secondo prima dell’esplosione anche se non ricordo bene quel momento. Ricordo di me rannicchiato nella neve, la macchina accartocciata sul ciglio della strada, e la carcassa fumante di mio padre. Ma la luce del fuoco non esplose. Si espanse bruciandomi, girò, e la mia testa iniziò a riempirsi di voci. Mi trovavo al centro di quel vortice, un vortice fatto di ricordi, di momenti, assoli di chitarra, canzoni mai sentite, o sentite troppo spesso. E davanti ai miei occhi si susseguivano immagini sfocate. Sangue, morte, lupi dai denti affilati, la gabbia di uno zoo, occhi. Occhi neri, occhi rossi, occhi color nocciola, occhi azzurri…
«Non ricordare, i bambini hanno il brutto vizio di spifferare tutto»
«Yu! Yu, ti voglio bene»
«Cheese!!! Yu, sorridi»
«Che imbranato!»
«Imparerai a non sottovalutare una quattordicenne, stupido»
Immagini su immagini, voci che si sovrapponevano, e io che non capivo più niente finchè tutto si bloccò. Si fermò sull’immagine dello zoo. Era tutto sfocato, come se stessi indossando delle strane lenti deformanti. Una scimmia sonnacchiosa si aggrappò alle sbarre della gabbia, e quasi contemporaneamente entrò una figura nuova nel mio campo visivo. Una bambina, bassa, capelli corvini lisci e lunghissimi, avvolta in un pesante cappotto nero. Il rumore dei suoi passi mi giunse ovattato. Non capivo, lei non faceva parte dei miei ricordi. Chi era? Teneva lo sguardo basso, le mani nelle tasche, e i suoi occhi azzurri erano cerchiati di matita nera e ombretto grigio scuro. Le labbra erano tinte di un nero pesante e opaco. Una strana ragazzina, me la sarei dovuta ricordare. Lei alzò la testa e puntò gli occhi dritto verso di me:«Imparerai a non sottovalutare una quattordicenne, stupido», esclamò. La sua voce acida e arrabbiata mi fece gelare il sangue nelle vene. Come se mi avesse trafitto. Associai quella voce a un demone. Un incubo, tutto qui.
Aprii gli occhi ansimante, con la fronte imperlata di sudore. Istintivamente presi il mio coniglietto di peluche e me lo infilai nei boxer, con il fiatone e gli occhi spalancati che cercavano di mettere a fuoco la mia stanza, nell’oscurità. Era stato solo un brutto sogno, incredibilmente reale, ma solo un sogno. Mi lasciai ricadere sul materasso sospirando e mi tolsi il peluche dalle mutande, scaraventandolo altrove. Il telefono squillò facendomi sobbalzare, l’orologio segnava le tre di notte. Ormai ero sveglio, perciò posai i piedi a terra sul pavimento gelido, aprii la porta di camera mia e poi raggiunsi il salotto a tentoni. Tastai il muro in cerca dell’interruttore e poi afferrai il telefono cordless buttandomi sul divano e facendomi pure male all’osso sacro.
«Chi è?», domandai con la voce impastata dal sonno, stropicciandomi gli occhi annebbiati. A giudicare dai rumori in camera di Anja e Kiro non si stava ancora dormendo. Scossi la testa infastidito e tornai concentrato sul telefono.
«Tu chi sei?», sbottò la voce di una ragazza. Gelida. Quella voce mi fece rabbrividire.
«Dovrei fartela io questa domanda», osservai un po’ perplesso.
«Cerco Anja», rispose secca la voce al di là del filo.
«Anja sta dormendo». Sì, se Anja dormiva io ero la reginetta rosa delle fate e me la facevo con Campanellino.
«Dorme già alle nove di sera?».
«Tre di notte, sono le tre di notte», cominciavo a spazientirmi. «E tu saresti uno di quei froci che ha appesi in camera? Come vi chiamate? Cincin bazar… Sei quello nano con il naso da ippopotamo, il chiodo che sembra Miss Maglietta Bagnata o quella femminuccia di mio cugino?». Mi dava sui nervi. Deglutii solo per non riempirla delle peggiori parolacce.
«Sono lo scemo con i capelli a strisce rosse», dissi ironico. Lei tacque. Eppure la sua voce l’avevo già sentita.
« Beh, non importa chi sei. Dì a Anja che arrivo domani alle 10 all’aeroporto di Berlino». Mi riattaccò il telefono in faccia e io rimasi con un palmo di naso. Non si era neanche presentata, ma avendo chiesto di Anja e avendo chiamato Strify cugino, potevo ben immaginare chi fosse. Posizionai di nuovo il telefono nella base e guardai il soggiorno pressoché spoglio e intonacato di bianco, indeciso sul da farsi. Non me la sentivo di avvisare Anja proprio mentre lei e Kiro… Però in quel modo nessuno sarebbe andato a prendere sua sorella il giorno dopo. Scossi la testa e andai nel largo corridoio dove si affacciavano le porte delle nostre camere.
Accesi l’interruttore e spensi la luce in salotto sbadigliando. A piedi nudi sul pavimento gelido mi diressi verso l’unica finestra del corridoio, in fondo. Una grande grossa finestra grigia. Grigia come il panorama che di solito appariva oltre il vetro. Scostai le tende bianche e gettai uno sguardo fuori alla città immobile e silenziosa. Ogni rumore, ogni luce dei lampioni, ogni finestra accesa era avvolta nel più ovattato dei silenzi. Dal cielo piovevano come caramelle infiniti fiocchi di neve che andavano a depositarsi lentamente sulle strade deserte di periferia. Il cielo nero mi lasciava il cuore vuoto, come se qualcuno mi stesse liberando di un enorme peso, o me ne stesse caricando. Chiusi di scatto le tende e scossi la testa. Mi sentivo tremendamente confuso dopo quell’incubo. Un incubo che si ripeteva da un mese ormai, tranne che per l’ultima parte. La parte di quella ragazzina spaventosa. Mi misi con le spalle a muro e scivolai al suolo senza dire una parola, accasciandomi e prendendomi la testa fra le mani.
Sfuggivo all’idea che quei sogni significassero qualcosa. La rifiutavo, ma un angolo della mia mente continuava a riproporre quell’ipotesi assurda. Mi alzai stancamente, avevo dormito poco e male, ma non sarei riuscito a riaddormentarmi. E non volevo disturbare Anja, non ero stronzo fino a quel punto. Mi chiusi in bagno una volta nudo e mi infilai sotto la doccia. Fuori doveva fare davvero freddo, in fondo era già il 19 Novembre… E sembrava che la neve avesse tutta l’intenzione di attaccare. Detestavo uscire con un tempo del genere, ma non negavo che la neve fosse uno spettacolo magico e poetico. La verità è che non amavo il freddo e… la neve mi ricordava la notte in cui mio padre morì nell’incidente. Nevicava anche allora. Chiusi la manopola della doccia sospirando, e scarabocchiai con il dito i vetri condensati. Poi li aprii e iniziai ad asciugarmi lentamente, godendomi il calore del vapore che aleggiava per tutto il bagno.
Avevo preso una decisione dettata dall’istinto più che dalla ragione. Senza neanche curarmi di avvolgermi in un asciugamano attraversai il corridoio deserto e entrai in camera mia. Al buio cercai degli abiti puliti e molto pesanti e mi rivestii. Lasciai il letto disfatto, ma mi ci sedetti sopra per infilarmi le scarpe nere, poi sospirai di stanchezza e andai nel soggiorno spegnendo tutte le luci dietro di me. Imbucai la piccola cucina, un angolo ricavato nel soggiorno e separato con una semplice porta scorrevole. La cucina di casa Bizarre era come il resto della casa, spoglia. I mobili erano di un bianco crema che dava l’idea di cucina molto moderna, e anche il tavolo, quadrato, in cui stavamo stretti poteva darti ad occhio la stessa impressione. Ma a parte quello e una grande finestra con la cornice d’acciaio era vuota e desolata. Aprii la dispensa e presi un pacchetto di biscotti al cioccolato. Lo aprii e iniziai a mangiare sedendo scompostamente a tavola. Il ronzio della lampada al neon era l’unico rumore nel giro di miglia, tant’è che potevo contare le macchine che passavano giù in strada fendendo lo spesso strato di neve formatosi sull’asfalto. Poche, pochissime. Soltanto tre.
E mentre mangiavo non pensavo a niente. Tuffavo stanco la mano nel pacchetto, afferravo un dolcetto e poi me lo infilavo in bocca, come in trance. Non mi chiedevo neanche perché mi fosse venuta quell’idea stupida e priva di senso. Sarei dovuto tornare a dormire per recuperare il sonno che quei maledetti incubi mi toglievano. E invece mi limitai a posare il pacchetto mezzo svuotato nella dispensa, a tirare giù la giacca nera dall’attaccapanni, prendere le chiavi della macchina sul mobiletto d’ingresso e uscire dall’appartamento il più silenziosamente possibile.
  
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