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Autore: Danihan    25/10/2010    0 recensioni
Destini intrecciati in una cosmica danza che si riflette nello specchio dell'Universo. E nel silenzio, una luce si spegne.
Genere: Romantico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Il Destino di Noi Stelle -

 
     Silente è la danza di due corpi celesti che ruotano l’uno attorno all’altro nel vuoto cosmico dello spazio, due astri legati da una forza invisibile, un sottile filo rosso che li unisce sotto la stessa sorte.
     Silente è l’armonia di quei due fuochi che si prendono per mano e si fondono in un tenero abbraccio, una coppia di pattinatori sul ghiaccio su uno sfondo di spettatori ammirati.
     Ognuna di essa irradia energia sottoforma di luce, che tenta di dipingere dei colori della vita l’arida realtà che la circonda; ognuna di essa irradia calore, come a volerlo donare a chi calore non ha, per sopravvivere nel buio oceano interstellare, e resistere uniti contro il freddo agghiacciante della solitudine. Candele accese in una notte d’inverno, tutto qui.
     Le due stelle vagano nell’oscurità come lanterne di un viandante sperduto, troppo distanti per toccarsi, troppo vicine per ignorarsi: e compiono così assieme il viaggio che le spetta, un viaggio senza sapere dove si andrà a finire, perché il futuro non è concesso agli occhi di nessuno.
     Ed ecco che una delle due incrocia lo sguardo dell’altra, e la vede debole, inerme e opaca, così piccola rispetto a lei, quasi bastasse un soffio a spegnerla, ma è presto -si dice- è troppo presto per concludere ora il tuo cammino, per dissolverti nel nulla. L’altra ricambia lo sguardo, e vede la sua compagna così luminosa, quasi accecante, del colore del tramonto d’estate, e le sorride di un sorriso malinconico, e rimane in silenzio. Sospira la supergigante rossa, impotente di fronte alle decisioni del fato, e ripercorre con la memoria la propria esistenza, mentre con l’alito della propria vita, tenta di rianimare l’amica, la sorella, la consorte, invano. Non è abbastanza, non è sufficiente.
     Chiude gli occhi allora, e ascolta il profondo battito che proviene dentro di sé. Lento, lento, lento. Sorride, e capisce.
     Il suono è un’onda meccanica la quale si propaga tramite un mezzo. Aria, acqua, legno, ovunque ci sia abbastanza densità di particelle tale da permettere una compressione e una decompressione del mezzo stesso. Per questo motivo lo spazio siderale è silente, rarefatto nelle sue componenti, costringendo ognuno a chiudersi in sé stesso, alimentando la solitudine della vita.
     Ma avvicinandosi nell’atmosfera di questa stella, là dove atomi e molecole si scontrano furiosamente l’un l’altro, là dove c’è sufficiente materia, si udirebbe qualcosa, si udirebbe il respiro della stella stessa, come il suono del vento tra le fronde degli alberi, come un canto, un canto che oltrepassa la fisica e riesce a raggiungere le orecchie di chi non vuole ascoltare, l’ultimo canto che la supergigante rossa dedica alla sua compagna.
    
     Ci fu un flash nel cielo.
 
     « C’è sempre stata quella stella? » chiese Giada, puntando il dito contro un punto insolitamente brillante del firmamento notturno. Filippo non rispose. Erano sdraiati sopra un pannetto su di una collina erbosa ai margini della città, lontani dalle luci delle case, delle strade, dal rumore delle auto e dai schiamazzi della gente, avvolti in un silenzioso cri-cri di un’afosa notte di inizio estate. Alzò assorto gli occhi al cielo, là dove la ragazza aveva indicato, ma non stava guardando veramente. Una sentiero luminoso si dipanava sopra le loro teste come latte versato, ma Filippo non ci fece più di tanto caso. Richiuse gli occhi, e nella fresca brezza strinse Giada forte a sé.
     « Ehi…non fare così. » suggerì poco convinta la ragazza ricambiando l’abbraccio, mentre tratteneva un nodo in gola che a stento si sciolse.
     Filippo le aveva appoggiato la testa in grembo come un bambino, e con l’orecchio appena sopra il ventre ascoltava. Ascoltava i suoi ricordi, la miriade di pensieri che vorticavano nella gabbia della sua mente, la mano di lei che gli accarezzava dolcemente i capelli, ascoltava il battito del cuore della sua ragazza, e lo percepiva così fragile ora, così impercettibile, quasi il respiro di un neonato che s’addormenta. Ma lei era ancora lì, viva, e gli parlava, rideva, scherzava con lui, lo amava…e non riusciva a concepire come da un momento all’altro tutto potesse svanire, quel sorriso divenire solo un’immagine dipinta nella sua memoria, e non poter più pronunciare il suo nome…
     Qualche settimana prima Giada era caduta. All’improvviso, mentre passeggiava per le stradine ciottolate del centro assieme a Filippo, come un corpo privo di vita. E da lì c’era stata la corsa in ospedale, l’arrivo dei genitori, le analisi completamente fuori scala, le attese infinite, le luci bianche e quel odore di disinfettante, cellulari che suonavano, l’andirivieni delle infermiere, qualcun altro che piangeva, un codice rosso di qualcuno che aveva subito un incidente, gente che correva, parlava, gesticolava, prendeva il caffé e il silenzio surreale del vuoto dei pensieri di Filippo, che aveva vissuto quei secondi come sospeso in una placida eternità che non gli apparteneva.
     E Giada guardava il cielo limpido fuori dalla finestra mentre nel corridoio il primario informava i familiari delle condizioni della ragazza.
     Filippo non aveva capito molto. O non aveva voluto capire. Aveva visto la madre di Giada tremare e singhiozzare, appoggiata al marito. Aveva visto il marito sbiancare. Aveva visto se stesso, entrare a passi lenti, quasi meccanici, in quella camera d’ospedale.
     « Mi dispiace. » fu tutto ciò che era riuscita a dire la fanciulla, sdraiata sul suo letto dalle candide lenzuola, per rompere il ghiaccio. Aveva gli occhi arrossati come di qualcuno che aveva già pianto abbastanza e si era rassegnato al suo destino.
     « E di cosa, sciocca. Non è colpa tua. » aveva risposto Filippo, avvicinandosi con lacrime che non vollero trattenersi, e l’aveva abbracciata sullo sfondo di un mondo che al di fuori di quella stanza continuava ad andare avanti.
    
     Cardiomiopatia Ipertrofica. Filippo non sapeva bene cos’era, ma trovava il nome di per sé abbastanza brutto, specie quando il primario lo accompagnò con un “inevitabile trapianto di cuore”. Giorni, settimane, mesi. Chi poteva sapere quanto sarebbe durata ancora la vita di Giada? C’era bisogno di un cuore nuovo, sano, che al momento non c’era. Stabilizzarono al meglio il suo quadro clinico, le prescrissero dei farmaci e la dimisero dopo qualche tempo. Se ci fossero stati nuovi arrivi compatibili, li avrebbero avvisati.
     « Niente montagne russe per un po’. » aveva tentato di sdrammatizzare il medico che l’aveva sotto cura. Nessuno riuscì a ridere di quella battuta.
     
     E così passarono i giorni, quieti e placidi come risacca del mare, le giornate si allungavano ed arrivò il tempo dei gelati e delle passeggiate all’imbrunire. Giada cercava di vivere quei momenti con serenità, guardandoli fluire come se con essi fluisse via la sua vita, minuto dopo minuto, secondo dopo secondo, mentre Filippo le rimaneva accanto, compagno fedele. Volevano costruire dolci ricordi assieme, trascorrere ogni giorno come se fosse l’ultimo, dimenticare litigi e dissapori del passato e sperare nel futuro, e progettare e pianificare, trasferirsi a Londra, mettere su famiglia e adottare un cagnolone morbidoso, o anche due o tre, avere dei figli, crescerli, accompagnarli a scuola, alle loro lauree, e immaginarsi davanti al camino a raccontare favole ai nipotini.
     Favole, dal lieto fine.
     Avevano cenato a lume di candele in un ristorante sul lago, avevano contato le nuvole a forma di pecorella che si smarrivano all’orizzonte nel cielo, avevano giocato a rotolarsi sul letto matrimoniale dei genitori, avevano ammirato mano nella mano l’aurora e il tramonto, visitato mostre, si erano dati allo shopping senza ritegno, lui le aveva letto poesie all’ambrata luce di un abat-jour mentre lei vestiva solo di lenzuola, avevano dormito assieme, avevano fatto l’Amore tra lacrime di gioia e di malinconia. Vivevano, come va vissuto l’Amore, senza che ci sia un domani, senza rancori, senza sotterfugi, con sincerità e armonia, sognando, senza mai doversi svegliare.
     Quella sera le temperature erano particolarmente soffocanti in città, per cui Giada e Filippo avevano deciso di trascorrerlo in collina, ad isolarsi ancora una volta nel loro mondo, a rimirare le stelle.
     « Domattina ho la visita di compatibilità. » ricordò Filippo, interrompendo il flusso di ricordi che l’aveva trasportato nel passato fino a quell’istante.
     « Non mi interessa, io il tuo cuore non lo voglio. » s’intestardì Giada. Avevano affrontato il discorso anche in altre occasioni, e ogni volta si era sempre spento sul nascere.
     « Il mio cuore già ti appartiene. » sentenziò Filippo, con un amorevole sorriso.
     « Evita queste spacconate di seconda categoria. Non ti si addicono proprio! » rise la ragazza. Poi proseguì: « Seriamente Amore, qualsiasi cosa succeda, tu dovrai vivere anche per me. Ne usciremo assieme, vedrai, ma questo è il mio problema e la mia malattia. Non voglio tu faccia sconsiderate…… »
     Filippo non la stava più ascoltando. Le sfiorò le labbra con le sue, un bacio delicato, che si perse solitario tra le miriadi di luci che silenti avvolgevano il tessuto scuro del firmamento, e tacevano.
 
     Il mattino dopo Giada aspettava davanti ad un ambulatorio del reparto di cardiologia. Guardava distratta dalla porta spalancata la televisione che gli infermieri avevano nella loro guardiola, proprio di fronte a dove si era seduta.
   
      - SN 2009A così è stata chiamata dagli astronomi l’evento che ieri notte si è affacciato nei nostri cieli. La supernova, nome dato secondo il gergo tecnico all’esplosione violenta di una stella,  è apparsa nella costellazione del Sagittario tra le ore 21.00 e 21.30 di ieri sera e il suo bagliore sarà visibile perfino di giorno come un punto della volta celeste particolarmente luminoso per un paio di settimane ancora, fino a scemare completamente nel nulla. Gli astrofisici di tutto il mondo sono al lavoro su questo sensazionale avvenimento, in fase di raccolta dati dalla pioggia di neutrini che ha preceduto l’esplosione. Vicenda curiosa, il fatto che la fine spettacolare di questa supergigante rossa abbia rivelato la presenza di una compagna nana bruna in fase di morte termica che, grazie all’assorbimento del materiale espulso, si è riaccesa ed è tornata nella sequenza principale, divenendo in tutto e per tutto un astro simile al nostro sole. Come dire, la morte inevitabile di una ha dato vita all’altra. In merito passiamo ora la parola alla nostra ospite, l’astrofisica Margherita Hack…
 
     Una ragazza in pigiama si sedette accanto a lei. Era pallida e consunta e si appoggiava all’asta porta flebo che si portava appresso. Un tubicino partiva dalla soluzione fisiologica che era appesa all’asta, e spariva sotto una manica della vestaglia. Aveva capelli corvini raccolti a coda e occhi scuri e profondi che la fissarono per un interminabile istante. Così vivo era quello sguardo, pensò Giada, nonostante l’aspetto facesse presagire tutt’altro.
     « Ciao! Io sono Lucia, piacere! » esordì la ragazza « Finalmente una coetanea con cui parlare, sono fuggita di nascosto dal reparto qui accanto perché proprio non ce la facevo più a stare sdraiata in camera con una vecchietta! Il mio fidanzato mi starà cercando in lungo e in largo, ma tu fai finta di niente, ok? »
     Un occhiolino complice fu seguito da un momento di imbarazzo e da una risata che Giada stentò a trattenere.
     « Piacere mio, mi chiamo Giada! »
     Lucia inspirò fortemente. « Allora, qual buon vento ti porta da queste parti? Sempre che così si possa chiamare! »
     Giada non si era confidata con nessuno fino ad allora, e del suo problema ne erano a conoscenza solamente Filippo e la sua famiglia. Eppure, quel momento di comunanza con un’anonima amica di sventura, quella coincidenza nell’essere lì assieme in quel preciso momento, quel sentirla così simile a lei, ma al tempo stessa così diversa la portò ad esporre la propria condizione senza pensarci due volte. Uno scambio di battute con una persona, ed ecco un destino che si apre, due fili che s’intrecciano.
     « Ho una grave patologia al cuore, e…beh sì, insomma, anche se non sembra necessito di un trapianto. Il mio ragazzo al momento è in visita per un esame di compatibilità. »
     Lucia rispose con un semplice “mi dispiace”, senza tanti fronzoli o sguardi compassionevoli. In fondo in quella e nelle altre corsie, in ognuna di quelle camere giacevano pazienti ognuno con la propria storia, il proprio passato, i propri dolori. Tra quelle mura era cosa comune sentire correre il nome di qualsiasi genere di malattia, tale da portare tutti nella stessa condizione ma con appellativi diversi.
     « E tu accetteresti davvero il cuore del tuo ragazzo? » chiese schiettamente Lucia.
     « No, è chiaro. Ma che ci vuoi fare, è un testone…e non potevo mica legarlo per impedirgli di fare questo esame. » sorrise Giada.
     Lucia la osservò. E notò lo sguardo spento della ragazza, il sorriso malinconico di chi, sebbene ancora in vita, avesse già rinunciato a vivere, rassegnato al destino, in attesa solo del fatale scorrere del tempo.
     « Il tuo ragazzo ti deve volere un gran bene, suppongo. » si limitò a dire. « Non devi…darti per vinta. Hai ancora tutta la vinta davanti, siamo giovani o no? E se lo ami, cerca di vivere con tutte le tue forze. Non guardarmi così, lo so che non sono molto brava a fare certi discorsi…ti sto solo dicendo che il futuro non è concesso agli occhi di nessuno, e fino a che la tua sorte non è già stata segnata, non ti arrendere. Semplicemente. »
     Giada continuò a sorriderle. Probabilmente era facile per lei parlare, ma la ringraziò per quel suo pensiero. Parole di speranza da una sconosciuta in pigiama.
     « Ah, ecco dov’eri sparita! » un ragazzone si avvicinò alle due fanciulle a grandi passi.
     « Uh oh, sento odore di guai… » bisbiglio di sbiascico Lucia.
     « Ti sei rimessa in sesto appena ieri, non puoi permetterti di alzarti dal letto così! » disse con fare preoccupato e apprensivo.
     « E’ stato un piacere conoscerti, mi dispiace dovere già andare via! » rivolse un ultimo saluto a Giada con un occhiolino. « Va bene, va bene, arrivo… » si alzò barcollante dalla sedia e andò incontro al suo fidanzato. Questi guardò Giada con un ultimo lungo sguardo, prima di darle le spalle e accompagnare Lucia fuori dalla sua vista, nella propria stanza.
     Tornata sola coi propri pensieri, Giada pensò che in fondo Lucia e il suo fidanzato non sarebbero stati tanto diversi da lei e Filippo. Nel caso di una degenza anche lui sarebbe stato iper protettivo e apprensivo alla nausea. Pensò a quante storie simili alla sua si stavano vivendo nel mondo. Coppie che si amano, separati dalla sorte, ognuna con le proprie sofferenze, con il proprio bagaglio di esperienze. Eppure l’uomo è protagonista soltanto della sua vita, e vive il suo racconto, come tale, e nulla lo pone al centro della sua esistenza se non lui stesso. Chi lo sa che in un altro mondo, in un’altra epoca, in un altro tempo, qualcuno non decida di raccontare le drammatiche vicissitudini di altre due persone. Come Lucia e il suo ragazzo, ad esempio.
     Filippo uscì poco dopo dall’ambulatorio, cercò Giada con uno sguardo disorientato, e quando la vide seduta poco distante non riuscì a dirle altro che: « Sono compatibile. »
    
     Quella sera ci fu la prima litigata tra i due innamorati da quando si venne a conoscenza del problema di salute di Giada. Insensata era la proposta di Filippo, suicidarsi per Amore? Piuttosto lei l’avrebbe lasciato. Ma quel punto lui avrebbe avuto ancora meno freni per commettere tale gesto, e donarle così il suo cuore. Non si parlarono per un giorno, poi si riavvicinarono perché non riuscivano a stare l’uno senza l’altro, poi litigarono di nuovo ma fecero la pace e promisero di non parlarne più. Quando il tempo lo richiederà, avevano concordato, ne riparleremo.
     E così trascorsero i giorni, meno tranquilli rispetto a prima: Filippo con l’angoscia di potere perdere da un giorno all’altro la sua amata e con la consapevolezza di avere nel proprio petto la soluzione, e Giada con una spada di Damocle che le pendeva sopra la testa, incombente, inesorabile, la fine della propria vita che la aspettava ad ogni respiro, ad ogni battito del cuore, ad ogni fitta che provava di tanto in tanto al torace.
     Fu soltanto due settimane più tardi che il destino bussò di nuovo alle porte delle loro vite.
     Giada quella mattina non si svegliò. Respirava debolmente, e venne chiamata d’emergenza l’ambulanza. Fu come un ripetersi di eventi troppo simili a sé stessi, di un copione messo in scena due volte, la corsa in ospedale, le attese infinite, le luci bianche e quel odore di disinfettante, cellulari che suonavano, l’andirivieni delle infermiere, qualcun altro che piangeva, un codice rosso di qualcuno che aveva subito un incidente, gente che correva, parlava, gesticolava, prendeva il caffé e il silenzio surreale del vuoto dei pensieri di Filippo, che ancora una volta rivisse quei secondi come sospeso in una placida eternità che non gli apparteneva.
     Il primario questa volta fu lapidario. Giada necessitava di un cuore nuovo, subito. Il quadro clinico era improvvisamente precipitato, questione di un paio di giorni, forse neanche, e il cuore attuale non avrebbe più retto.
     La madre scoppiò in un pianto silente. La ragazza, ricoverata in una stanza lì vicino, non era cosciente. Azioni che si susseguono senza tempo. Filippo si mise le mani nei capelli, e con gli occhi follemente lucidi si diresse fermamente in bagno. Passando accanto ad un carrello incustodito prese il primo oggetto affilato che gli capitò sotto mano, un paio di forbici. Se lo avessero notato, non importava, se lo avessero fermato, non importava.
     Mise il polso scoperto sotto il getto di acqua calda che scorreva dal lavandino. Deglutì un paio di volte. Iniziò a prendere qualche ampio respiro, mentre la mano che teneva il paio di forbici gli tremava vistosamente. Si guardò allo specchio. Sorrise.
      « Ti amo » sussurrò a Giada dentro di sé.
     Chiuse gli occhi.
 
     Aprì gli occhi. Un silenzio innaturale avvolgeva la stanza, mentre una luce tenue filtrava dalle tapparelle abbassate. Il soffitto di una stanza d’ospedale. Il pulviscolo che aleggiava nell’aria. Respirò, prima adagio poi sempre più forte. E nella quiete di quell’immagine sospesa nel tempo udì un battito. E poi un altro. E un altro ancora. Forte, vigoroso, vivo.
     Il battito della vita.
     Iniziò a piangere mentre quel suono le riempiva le orecchie. Iniziò a piangere quando una marea di ricordi la abbracciò dolcemente a sé. Sciocco, sciocco, sciocco, ripetè. Come se qualcuno che non era più lì potesse sentirla.
     Giada pianse, pianse amaramente, sentendo quel calore dentro di sé che non voleva le appartenesse. L’aveva fatto per lei, l’aveva fatto perché l’amava. E ora lei si ritrovava sola.
     La porta si aprì e tra le lacrime Giada non riuscì a riconoscere subito chi fosse.
     Filippo.
     Aveva un polso fasciato ma era Filippo.
     Stava sognando? Se così fosse stato, non avrebbe comunque fatto in tempo a svegliarsi che lui la abbracciò. E lei sentì il profumo della sua pelle, il suo corpo, e lacrime si fusero ad altre lacrime, e si rese conto che Filippo era ancora vivo, che era tra le sue braccia, e che era successo un miracolo.
     Prima che Filippo potesse dare la minima spiegazione, bussarono alla porta aperta ed entrò un ragazzo dalla faccia famigliare. Sorrise ad entrambi, e appoggiò un bigliettino sul comodino accanto a Giada prima di andarsene silente così come era arrivato. I due si guardarono incuriositi, e la fanciulla decise di prendere il biglietto e di iniziare a leggerlo ad alta voce.
 
     Giada si riprese in fretta, e non passò giorno che non lesse e rilesse quel biglietto. Ogni giorno Filippo andava a trovarla, talvolta rimaneva pure per la notte, e ogni giorno pareva che Giada rifiorisse sempre più. Iniziarono a camminare per i corridoi, a salutare le infermiere che ormai li vedevano sempre assieme, ad andare perfino al bar al piano terra, giusto per cambiare sapore dalle solite minestrine che davano in degenza. I medici la rimproveravano, ma Giada rideva, scherzava e stava sempre meglio. Ci fu la dimissione, e Giada tornò a casa tra gli abbracci e i baci dei parenti. Ci fu gran festa.
     Un giorno Giada e Filippo andarono in un posto. Lei aveva un mazzetto di fiori, lui la teneva per mano. Dopo avere camminato un poco, quando riconobbero il luogo designato, Giada lesse il nome sull’incisione:
 

Lucia Bianchini

    
     « Grazie. » Sussurrò.
     E lì vi appoggiò i fiori. Il sole di un timido autunno alle porte si rifrangeva tra le fronde degli alberi, accarezzando le lapidi come dita dorate. Una fresca brezza cantava con le prime foglie cadute a terra. Giada estrasse il biglietto da una tasca, e davanti a quella tomba lo rilesse per l’ultima volta.
 

Cara Giada,
se stai leggendo queste righe vorrà dire che non potremo più vederci. Chi sono? Quella pazzoide che ti ha attaccato pezza in cardiologia, ovviamente! Allora mi sentivo meglio, e non ti dissi che soffro di una grave malattia ai polmoni, e -ebbene sì- risiedo purtroppo in uno stadio terminale. Non fare quella faccia, su! Prima o poi tutti dobbiamo andarcene, e mentre per me sarebbe stata una cosa inevitabile, per te non lo era ancora affatto. Quindi sorridi, e gioisci di essere ancora viva!
Alla mia dipartita donerò i miei organi, e il mio cuore lo vorrei donare a te.
 Affinché io possa vivere attraverso di te la vita che io non ho potuto vivere!
Il mio ragazzo Andrea dapprima ha brontolato un poco quando ho fatto l’esame di compatibilità, ma alla fine è un bonaccione ed è stato d’accordo pure lui.
 Sai, non riusciva ad accettare che a breve me ne sarei andata. Ricordati che non tutte le storie hanno un lieto fine!  
 
Ci fu un tempo in cui qualcuno disse che siamo come foglie sugli alberi d’autunno.
Io a lui rispondo che noi siamo come stelle.
Bruciamo, viviamo, doniamo e cerchiamo calore in questa fredda società moderna.
Per non sentirci soli, tutto qui.
Magari in alcuni casi ci illuminiamo e risaltiamo rispetto gli altri, ci facciamo forti affinché la gente non si scoraggi, e viva fino in fondo la propria vita, perseguendo ciò in cui crede, sognando. E a volte molti destini s’incontrano, quasi per caso, e si radunano mentre altri si separano.
A volte grazie ad un compagno si riesce a brillare ancora di più.
Ma alla fine di tutto, quando ce ne andiamo, lasciamo spesso un grande vuoto dopo di noi.
Un vuoto che non si può colmare, un vuoto senza ragioni né spiegazioni.
Un vuoto per cui bisogna andare oltre, continuare a splendere per te, per gli altri,
 e non smettere mai di sperare.
Ricorda che ci sono miliardi di stelle nel firmamento,
fermati ad osservarle di tanto in tanto.
Molti se ne dimenticano, e molti vuoti vengono meno alla memoria.
Magari non interesserà ai più,
ma ognuno di essi ha la propria piccola importanza, seppure insignificante,
poiché sebbene nessuno si accorga di una fievole luce che è sparita,
 il cielo non sarà comunque più lo stesso.
 
Non smettere mai di risplendere,
con affetto,
Lucia

 
  
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