Capitolo 1: Trentotto secondi.
In fondo, la mia morte, l’ho sempre immaginata, e in un certo qual senso voluta, così: è il momento più felice della mia vita, o almeno, sono felice per una piccola ragione, e all’improvviso, col sorriso stampato sulle labbra, smetto dolcemente di respirare e comincio, immobile, a non vivere quel sogno che è la morte. E chiudo gli occhi. E sento il rumore delle onde del mare. E il mio sorriso è ancora lì, fermo, immobile. Non sarò mai più triste.
Per secoli la morte, attraverso varie dottrine filosofiche orientali, ma anche di qui, del vecchio continente occidentale, dove sotto un cielo pieno di stelle per la prima volta i greci si chiesero il significato del nostro viaggio all’interno di questo corpo a base di carbonio, è stata vista come una sorta di salvezza, un modo di lasciar andare la propria anima al di fuori dell’ universo che riusciamo a percepire. Eppure c’è ancora chi, davanti alla triste mietitrice, si spaventa e continua a scappare sino allo sfinimento e, pur di stancarsi con la tristezza in corpo, cade convinto di aver vinto.
La vita non è una corsa, non è resistenza. La vita è un attimo, una piccolissima frazione di tempo, rispetto a tutto quello che è avvenuto e deve ancora avvenire. Diamo solo un’occhiata, una sbirciatina veloce, poi la porta ci viene chiusa improvvisamente, e ci sbatte violentemente sul naso.
Mancano trentotto secondi.