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Autore: DubheShadow    28/10/2010    2 recensioni
Una canzone, Amaranth, che si ripercorre per tutto il procedere del testo. Un racconto che con i Nightwish in quanto cantanti e musicisti non ha niente a che fare: qui è la loro anima d'artisti che si espone, attraverso metafore, scene dolenti e fatue sensazioni. I Nightwish rivivono quindi su quel porto, plasmano la figura della bambina che ne percorre la banchina desolata, creano attraverso la musica questo piccolo, inquietante universo. Una song-fic che nasce dal testo suggestivo di Amaranth, e che da esso trae forza. Una one-shot nata per emozionare.
Genere: Dark, Malinconico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il porto di Londra, gelido nella sua tormentata solitudine di mezzanotte, sibila nel vento. Ogni folata s’infiltra fra il legno scricchiolante, fra i barili accasciati nell’ombra. Io, bambina, canto una sorda nenia nei pressi della nebbiosa luce di un lampione. Io, finché qualcuno ne porterà memoria, ancora me stessa, fantasma degli anni.

La porta della baracca sul porto s’apre, e una donna m’invita ad entrare. Le mie ballerine non fanno suono sull’impiantito: è strano sapere che nessuno saprà mai del mio passaggio. Spazzerà via domattina, il mozzo, queste mie lacrime amare?

«Ann, sai cosa sono i ricordi?» M’accoglie nell’astruso rifugio.

 Fuoco. Fiamme nel camino. Fuoco caldo che non riscalda, fuoco ardente che non brucia. È ghiaccio oltre i mattoni cotti delle pareti. Sono lunghe stalattiti che pendono dal soffitto, sfiorano le teste lasciando scivolare gocce d’acqua pura, il risveglio di un’armonia d’argento.

«Sono ciò che mi tengono in vita.»

«È vero, sì. Niente ricordi, niente Ann.»

 La dama bianca indossa abiti leggeri, veli che coprono il suo pallido corpo, ricamati con fiori di giglio. Sul polso, ha legata una benda rossa e umida. Mi ha richiamato dalla mia dimora di assenze e rinunce, siamo ospiti entrambe del tempo fugace. Ha promesso che mi racconterà una storia.

«Però non sono solo questo. Dimmi, Ann, cos’altro sono i ricordi?» I suoi occhi sono immobili, di un azzurro polare e cieco.

«Sono… non sono…»

 Il rollare della barca, la tempesta. La pioggia che s’abbatte continua sul mio volto, quasi mi ferisce. La odio. Odio mio padre, che mi ha gettato in mare per poi riprendere la via del Tamigi. L’aria che diventa solo un sogno, il sale che mi brucia i polmoni e che è incubo insano. Le ventole del motore incredibilmente vicine, ruotano, ruotano, come un girasole macchiato di rosso, è la cromoterapia dell’inferno. I miei capelli corvini s’impigliano fra i petali cremisi, la mia mano li carezza. Ma la mia mano va oltre, troppo lontana per essere ancora la mia, e io che la inseguo, che mi frammento come uno specchio pugnalato da una regina gelosa.

«Giusto.» Sorride, riportandomi al presente. È inquietante. «I ricordi… sono e non sono. Sono fogli rinchiusi nelle pareti dell’oblio, magici, deturpati dal tempo e da chi sfrutta i loro poteri. Non hanno ali, strisciano nel fango della nostra memoria.

«C’è una vergine senz’occhi e bendata da nastri di seta imbevuti nel sangue, che spesso li afferra e ghermisce; non sazia, li strappa dal loro languire nei bizzarri recessi delle loro stanze oblunghe, lascia affiorare i più antichi da quella che è una vasca piena di un liquido che contrasta la pur lenta decomposizione, affoga quelli più brillanti di un passato recente e lieto. Strattona i reduci dal buio, rompe i legami di una carcere forzata. Il suo è il sorteggio nelle mani stordite del male e del caso infausto.»

«Voglio ucciderla. Se è lei che mi fa così male… la voglio morta.» Se è lei che riprende lo spasimo della fustigazione e me lo imprime nell’iride spenta, allora la riporterei in quel mare per trucidarla io stessa. Tacqui quest’ultimo pensiero.

«Non puoi, Ann. Anche se tutti vorreste rinchiudere la vergine dei ricordi… nessuno può. Rivive in ogni volto conosciuto, è il foglio, carta scritta dalle menti, è sciocco e futile fior di giglio di un’odiata realtà.»

 Fa male sapere di essere legata a un filo così sottile. Fa male essere impotente, così dannatamente in preda al destino. Fa male sapere di non poter più esistere.

«Maledetta» urlo.

 Lei ride, e la sua bocca d’infame s’apre in un oscuro abisso, quindi ingoia anche l’ultimo brandello di me.

   
 
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