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Autore: Vivaldi    29/10/2010    0 recensioni
Buio. Tutto ciò che vedeva era il buio. Nulla più. Okay, non è un gran paesaggio, ma di notte non ci si può aspettare di più, soprattutto se sei tenuta in una gabbia dentro uno stanzone che puzza d’alcool. Chi si darebbe la pena di lasciare una luce accesa in posti simili?
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Buio. Tutto ciò che vedeva era il buio. Nulla più. Okay, non è un gran paesaggio, ma di notte non ci si può aspettare di più, soprattutto se sei tenuta in una gabbia dentro uno stanzone che puzza d’alcool. Chi si darebbe la pena di lasciare una luce accesa in posti simili? "E per di più non c’è manco una stupida finestra. Non chiedo molto. Andrebbe bene anche uno spiraglio. Una fessura. Un buco. Una tana da topi. Potrei anche farlo io un buco. Ma siamo sottoterra. Farei franare il muro. E poi un muro è duro. Mi sbuccerei la mano e c’è già abbastanza gente che si preoccupa di dissanguarmi, non c’è bisogno che aggiunga il mio contributo. Per di più..."
La ragazza si mise a sedere.
"...non ho considerato la gabbia. Sono troppo distante per fare un lavoro decente. Dannazione."
Si ridistese e fissò il soffitto della gabbia. Aveva sentito che secondo alcuni era la convinzione che faceva funzionare tutto. Il sole sorgeva perché era convinto di dover sorgere, la Terra girava perché era convinta di dover girare, il vento soffiava a caso perché era convinto di dover soffiare a caso... Ricordava anche che le era sembrato tutto piuttosto stupido sul momento. Eppure ora stava cercando con tutte le sue forze di convincere quella dannata gabbia che aveva una predisposizione naturale (per quanto un ammasso di ferro, metallo ed atra roba per fortuna sconosciuta possa essere naturale) a bruciare. Visto i risultati tentò con uno “sbriciolarsi”. Dato che la gabbia s’ostinava ad ignorarla, finì con il maledirla. Per fortuna la gabbia parve non accorgersene.
Si mise a sedere un’altra volta e guardò la teca di fronte alla sua personale difesa da ogni tentativo di salvataggio da parte di inesistenti amici esterni. Non le importava che ci fosse nella teca, tanto era sempre la solita roba. E se non lo era, allora era meglio non indagare oltre per il bene dei propri sonni futuri.
Lei guardò il riflesso. Lui le restituì lo sguardo. O meglio, mezzo sguardo. Perché il suo occhio destro era coperto da un ciuffo di capelli rossi. Quindi a ricambiare effettivamente il suo sguardo c’era solo un occhio giallo, mentre l’altro , quello con ciò che appariva del tatuaggio attorno, si faceva gli affari suoi sotto una ciocca di fiamma. I capelli le arrivavano appena sotto il mento, per poi diventare sempre più corti, fino a lasciarle scoperta la nuca, in modo che il codice fosse più facile da leggere. 2512. Questo diceva il numero tatuato sul retro della sua testa. Aveva un corpo forte e muscoloso, in parte per il fatto che aveva per metà il DNA di un lupo, in parte perché le risse non erano rare e di sicuro loro non facevano niente per fermarle, anzi, a volte li facevano combattere apposta. E poi il DNA lupesco le aveva fornito anche un bel paio d’orecchie a punta in cima al capo che avevano il pregio di sentire tutto particolarmente bene. Per di più aveva un ottimo olfatto e denti ed unghie che potevano portare via dei grossi pezzi di carne (inclusi ovviamente arti ed altre escrescenze, come dita, nasi, ecc...) ad uomo adulto.
Quello che non poteva essere riflesso era il tatuaggio che le teneva tutto il braccio destro e di cui normalmente si poteva vedere solo un ghirigoro attorno all’occhio (nascosto appunto dal ciuffo). All’inizio compariva a casaccio, ma ora la ragazza aveva imparato richiamarlo a piacere, anche se non aveva ancora il controllo assoluto, quindi poteva capire che comparisse senza che lei lo volesse. E quando succedeva, loro non erano mai troppo felici. Si ricordava bene di quando era comparso: nonostante all’epoca fosse molto piccola, il dolore le era rimasto impresso nella memoria, assieme alla paura quando si era resa conto di essere diventata cieca per metà. Eppure se la si guardava in faccia ora, a distanza di anni, pareva che ci vedesse perfettamente da entrambe le parti: l’occhio destro non aveva niente di diverso dal sinistro; non era più opaco o immobile o “distratto” o altro, eppure non ci vedeva più da lì. Anche la pelle non aveva nulla di strano a parte quei segni scuri, nonostante ricordasse benissimo le notti che aveva passato sveglia piangendo e stringendosi quel braccio al petto per il dolore.
Mentre lei vagava nei ricordi, dal vetro della teca il suo riflesso inclinò la testa e la guardò strano, poi ammiccò, cosa che la fece rapidamente tornare al presente per lo stupore. Pensò che se vedeva il proprio riflesso fare cose che lei non faceva, allora era meglio dormire, così si distese e, dopo cinque minuti di ferreo auto-convincimento , riuscì ad addormentarsi.

Fu svegliata da due di loro. Le avevano bloccato le mani con dello spesso scotch grigio e la stavano portando via. "Ma che vogliono ora? Non chiedo molto, solo dormire... E poi dovrebbero dormire anche loro. Non è giusto." Aprì la bocca per dimostrare tutto il suo disappunto, ma si accorse che non poteva aprire la bocca. Aveva un altro bel pezzo di nastro adesivo a chiudergliela. Così si limitò ad un: “Mfghghffghsch” e ad un’occhiata che avrebbe ucciso chiunque. Peccato che quei due avessero avuto il buonsenso di non guardare verso di lei. Non lo fecero per tutto il tragitto.
Alla fine, arrivarono in una stanza così bianca che se ci fossero state delle falene, le avrebbero ronzato attorno da dentro. E naturalmente anche lì l’odore suggeriva che qualcuno avesse sciolto con l’alcool un germe alla volta, ingaggiando una feroce lotta, tra l’altro. Naturalmente aveva vinto l’alcolizzatore.
La distesero su un lettino. Molto scomodo tra l’altro. Dopo averla bloccata con delle cinghie le attaccarono una montagna di cavetti, poi iniziarono con prelievi ed iniezioni. Si sentiva tanto un puntaspilli. Dopo qualche minuto, le appiccicarono pure una flebo e lei s’addormentò.

Si risvegliò con tanti puntini rossi e blu che le ballavano davanti agli occhi e con la sensazione che tutto il suo corpo avesse un forte mal di denti. Ed il fatto che tutti i buchi facessero notare la loro presenza, contribuiva solo a farle pensare che alcuni punti del suddetto corpo avessero anche le carie.
Dopo che i puntini furono svaniti e che il maldidenti generale si fu alleviato, si accorse che non era più nella stessa stanza di quando s’era addormentata. Era sconcertante. Si accorse anche che degli insetti le stavano passeggiando sulla nuca, quindi si diede una manata, senza pensare alle conseguenze.
Non appena riuscì a capire nuovamente come si faceva a mettersi seduti lo fece, poi attese come inebetita per un minuto che finisse “Il ritorno dei puntini danzanti”.
Dopo essersi ripresa (quasi) definitivamente, s’alzò e s’avviò verso il vetro che serviva a permettere a loro di guardare nella stanza senza che quelli nella stanza li vedessero, poi prese uno di quei buffi bastoncini con in cima uno specchietto piccolo e tondo, quegli aggeggi che non sapeva di preciso a che servissero (grazie al cielo, probabilmente), che stava appoggiato sul tavolino lì a fianco. Controllò la sua nuca passandoci delicatamente una mano sopra. Non poteva aver sentito degli insetti: l’idea era ridicola a pensarci ora. Nessun insetto sarebbe stato in grado di capire dove andava, era tutto abbagliante. Avrebbe piuttosto passato il tempo a battere sullo zoccolo di ceramica del muro. E considerando la quantità di disinfettanti che doveva esserci sopra, sarebbe probabilmente morto al primo contatto. O forse anche prima. I fumi avrebbero steso chiunque. A questo pensiero si risvegliò anche il naso della ragazza, che, sentendosi escluso, decise di farle arrivare una bella zaffata, che per poco non la fece svenire di nuovo. Lei si resse al tavolino per non cadere e così facendo, scoprì che sopra di esso stavano degli aghi da tatuatore.
Alzò lentamente lo specchietto, spaventata di ciò che avrebbe potuto vedere.
Sapeva leggere a mala pena quando le lettere erano dal verso giusto, quindi non riuscì a capire quello che c’era scritto sulla sua nuca, però, quando alla fine riuscì ad intuire pressappoco il senso dei simboli, le si gelò il sangue nelle vene.
Failed experiment: era questo ciò che qualcuno più istruito di lei avrebbe letto. Ma all’esperimento 2512 non serviva essere poi troppo ferrata in grammatica per ricollegare quell’immagine capovolta a quella che aveva visto nel verso giusto tante volte sulle nuche di altri. Altri che erano stati uccisi.
Quindi questo significava solo una cosa, ovviamente: morte.
Non poteva restare. Doveva andarsene. Doveva.
Con la mano che tremava, posò piano lo specchio e andò verso la porta, lentamente. Posò una mano sulla maniglia e provò a vedere se era aperta; inutile dire che si sentì alquanto stupida quando la realtà le confermò ciò che era ovvio che fosse: ovvero che era dannatamente chiusa. Perciò ne spaccò il vetro e scappò di corsa, ferendosi i piedi sui frammenti e le schegge che riempivano il corridoio.

~♦~



Scappò lungo i corridoi, senza sapere dove stava andando. Seguiva solo il suo olfatto, andando nella direzione dove l’aria era più fresca. Dopo essere arrivata in vista di due rampe di scale, si fermò, ansante. Si guardò i piedi. Poi guardò dietro di sé. "Anche un idiota sarebbe in grado di seguirmi, con tutte le tracce di sangue che ho lasciato..." Strappò delle strisce di stoffa dalle maniche della veste che aveva. Era di quelle bianche, che arrivavano alle ginocchia, con le maniche lunghe fino al gomito. Dopo essersi legata le strisce ai piedi fece qualche passo per controllare: anche se continuava ad avere un male dannato per le schegge, non lasciava più segni.
Riprese a correre, con la stessa velocità di chi è disperato. Riuscì ad arrivare in vista della seconda rampa, quando cominciarono ad arrivare i “guardiani”, una specie di polizia interna che si occupava di riacchiappare i fuggiaschi di tanto in tanto. Erano da ogni parte, uscivano dalle stanze e cercavano di afferrarla, ma lei passando richiudeva violentemente le porte con i calci ed artigliava o azzannava ogni centimetro di loro che le arrivava a tiro: per fortuna era tardi, quindi erano un po’ addormentati. Corse più in fretta che poteva, arrivò alla rampa, la salì.
La afferrarono quando arrivò in cima.
"No, no, no, no, no, no..."
Si dimenò, morse e scalciò, rotolò lungo le scale assieme a qualcuno di loro, si rialzò districandosi con molta poca grazia e delicatezza dai corpi degli altri e finalmente riuscì a liberarsi. Ricominciò la corsa.
È buffo come la maggior parte dei pezzi del corpo vengano notati solo quando fanno male. Altrimenti passano tutta la loro esistenza a farsi gli affari propri nel loro angolino. In quel momento la ragazza stava acquisendo nozioni di anatomia che avrebbero fatto invidia al Creatore stesso.
Arrivò al piano terra. Lì doveva esserci l’uscita. E in effetti c’era, il punto era che quel piano era molto più ampio e molto più pieno di corridoi. "Dannazione!"
Ricominciò a correre, un po’ seguendo il suo naso, un po’ (molto) a casaccio.
Arrivarono di nuovo, ma questa volta erano di più. Ed avevano qualcosa sotto gli abiti. Qualcosa che non le permetteva di graffiarli o morderli, almeno non in modo efficace. La presero per le braccia, ma lei cominciò a tirare calci e a contorcersi. Ruggiva e guaiva. Vide alcuni di loro avvicinarsi con delle siringhe, così diresse i suoi attacchi su quelli. Le siringhe le graffiarono le braccia e probabilmente una parte di ciò che contenevano le entrò in circolo, ma lei non aveva intenzione di permettere che un dettaglio tanto insignificante le impedisse di scappare, così continuò a dimenarsi. Alla fine nel suo campo visivo entrò per un attimo una specie di lampo. Più avanti realizzò che era una cosa molto simile ad una spranga. Sentì un botto che le rimbombò per tutta la testa, poi ci fu un’esplosione di luce bianca dietro alle sue palpebre. Infine svenne.
Quando si riprese, si ritrovò in una gabbia. Di nuovo. Solo che questa volta aveva compagnia: c’erano altre persone con lei, altri esperimenti falliti, ma solo alcuni di loro avevano dei problemi evidenti. Pareva che gli scienziati che li avevano creati avessero sentito parlare solo casualmente di anatomia ed avessero tentato di emularla mischiando assieme tratti fisici di animali e/o umani. Il risultato si poteva immaginare, anche se sarebbe preferibile di no.
Erano tutti semiaddormentati o svenuti, tranne un ragazzo che la stava fissando come per studiarla, valutarla quasi. Doveva avere circa due anni più di lei. Era robusto (come tutti i mutanti in grado di reggersi in piedi da soli per più di cinque minuti) e doveva essere alto circa dieci centimetri più di lei. Aveva i capelli neri, un po’ lunghi e scarmigliati, e gli occhi viola. Dalla schiena gli partivano due ali fosche, screziate da sfumature più chiare qua e là.
-Che c’è? Perché mi fissi?- chiese lei in tono brusco. Probabilmente, se quel tono avesse potuto assumere una vita propria, sarebbe andato in giro ad azzannare.
-Beh, mi pare ovvio. Sembri una sopravvissuta ad una guerra.-
Lei si guardò. In effetti aveva ragione. Aveva i capelli arruffati ed impiastricciati di sangue rappreso là dove l’avevano colpita con la spranga, la tunica aveva le maniche strappate in modo irregolare, le bende ai piedi erano praticamente andate e decisamente rosse (insomma, diciamo che tra bende e piedi c’era poca differenza), infine le braccia erano coperte dei graffi delle siringhe e dal sangue colato dai buchi degli aghi e delle flebo che le avevano messo prima della fuga. Non si erano neanche degnati di metterci un cerotto, dopo che avevano scoperto di averla “fallita”.
«Mhpf».
Si circondò le gambe con le braccia e appoggiò il mento sulle ginocchia, poi prese a fissarsi i piedi.
«Cosa aspettiamo?»
«Che vengano prenderci uno ad uno per sopprimerci».
«Sopprimerci?»
«Brava, sai ripetere le cose».
Lei lo guardò malissimo, chiedendosi se fosse il caso di azzannarlo o meno.
«Credo di aver appena trovato uno dei motivi per cui intendono “sopprimerti”».
«Che coincidenza, stavo pensando la stessa cosa» , disse con un sorrisetto.
La ragazza lo fissò socchiudendo gli occhi, poi nascose il viso tra le braccia.
«Gradirei essere lasciata in pace, ora. Grazie».
Lui alzò le mani, in segno di resa, poi, con un mezzo sorriso disse: «Okay, okay, mi scusi tanto».
L’esperimento 2512 rimase in silenzio per diversi minuti, poi, non riuscendo più a stare lì immobile, con la mente che, priva di distrazioni di sorta, tornava continuamente al pensiero di ciò che l’aspettava, si decise a parlare.
«Sei stranamente tranquillo per essere uno che sa di poter essere ucciso da un momento all’altro. Come mai? No, perché se hai qualche super-potere nascosto tipo pelle a prova di proiettili o forza sovrumana, ti comunico che sarebbe decisamente ora di tirarlo fuori».
Il ragazzo, che s’era appoggiato ad occhi chiusi con la schiena alle sbarre, socchiuse le palpebre e la guardò.
«Niente super-poteri, mi spiace. Però, in effetti, ho una speranza- s’interruppe un attimo, tentando con scarso successo di nascondere un sorriso, poi si tirò su, sporgendosi verso di lei.
«Non è detto che dobbiamo aspettare qui che decidano a che ora dobbiamo morire» continuò a voce più bassa. «Siamo cinque: una di noi sarà la ragazza che vedi lì, nella gabbia a destra. Abbiamo intenzione di fuggire».
«Oh, bello. E, dimmi, senza super-poteri come credi di farcela?»
«Vedi, io conosco qualcuno all’esterno».
«Cosacosache?» disse la ragazza alzando la testa e guardandolo con la fronte corrugata.
«Conosco qualcuno all’esterno: una ragazza che una volta era in gabbia con me e che è riuscita a fuggire».
«E tu ti fidi di qualcuno che è scappato lasciandoti qui
«Era una situazione particolare. Sarebbe venuta a prendermi, ma non ha potuto. So che ci aiuterà ad uscire, ma dovremo arrangiarci per il primo pezzo di strada, visto che lei non riuscirebbe mai ad entrare passando inosservata».
«Uh. Sicuro?» lo guardò dritto negli occhi, con le sopracciglia ancora più aggrottate.
«Sì. Sono sicuro. E pensala così: se non funzionerà, non dovremo sopportare oltre il dover stare qui senza sapere mai quando toccherà a noi».
«Oh, evviva evviva», disse la ragazza roteando gli occhi.
«Piantala».
«Okay...»
«Allora, ti unisci a noi?»
«Beh, tanto vale».
Lui sollevò un sopracciglio. «Non troppo entusiasmo, eh».
Per tutta risposta, l’esperimento 2512 si girò dall’altra parte, si distese su un fianco, si appallottolò e fece finta di dormire. Almeno finché non si addormentò sul serio.
   
 
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