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Autore: GreedFan    30/10/2010    3 recensioni
Era alto, con i capelli biondi come l'oro filato e le ciglia dello stesso colore, la pelle bianca, quasi lattiginosa, e le labbra delicate, morbide, della tinta aristocratica dei boccioli di rosa canina. Teneva gli occhi socchiusi, a svelare solo leggermente il colore etereo dell'iride, e muoveva le mani sui tasti d'avorio con un'eleganza e una delicatezza che sembravano derivare solo ed unicamente da una lunga pratica, sicché, anche quando si voltò verso la ragazza, incatenandola con il suo sguardo azzurro, non smise di suonare.
-Chi siete? E' da secoli che nessuno viene più qui.- aveva una voce carezzevole, eppure roca e soffusa, come se non la usasse da molto. Nella raffinatezza dei tratti, Kushina scorse un'ombra di tristezza.
-M-mi chiamo Kushina Uzumaki. Che posto è questo?- domandò lei, facendosi spazio tra i fiori a brevi falcate.
-E' tutti i posti e al contempo nessuno. E' il luogo dove vorreste vivere e che comunque ripudiate, ma più di tutti è l'unica prigione in cui mi sia concesso di trascorrere la mia eternità.-
Genere: Dark, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Yondaime
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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Amaryllis

 

"Coloro che amano la musica sono assurdamente irragionevoli: ci vorrebbero perfettamente muti proprio quando si desidererebbe essere assolutamente sordi."

Oscar Wilde

Roma, 24 Dicembre 1965

Le note del pianoforte scorrevano lievi come il rumore dell'acqua sulle pietre di un torrente, inondando l'auditorium di una musica dolce e piena di passione. Il pubblico sospirava, tratteneva il fiato, sembrava quasi piegarsi e agitarsi sotto il tocco delle dita del pianista, che, aggraziate, simili a farfalle, accarezzavano i tasti d'avorio dello strumento.

La platea era tutto un rilucere di pizzi e merletti, giacche di seta, papillon e brillantina di ogni genere, e vi si respirava un'atmosfera gaia, seppur appesantita dalla temperatura elevata della sala e dall'effluvio di profumi che, dai posti antistanti il palco, giungeva sino ai palchi posizionati lungo le pareti. Come sempre, infatti, durante lo spettacolo musicale della Vigilia tutti i nobili dell'aristocrazia romana si riunivano a teatro, per bearsi delle rispettive ricchezze e, in minima parte, anche del talento artistico delle nuove promesse che venivano presentate.

Nel palco centrale, tuttavia, sembrava ci fosse qualcuno che, in barba alle formalità e all'etichetta, manifestava apertamente il proprio disgusto di fronte a tanta ostentazione.

-Uffa...-

-Kushina! Siediti composta, per cortesia.-

L'interpellata sbuffò di nuovo, staccando i gomiti dal parapetto dorato e intagliato che la separava dalla platea.

-Non è colpa mia se mi fa male la schiena, a forza di stare seduta su queste sedie scomode...-

Kushina Uzumaki aveva diciotto anni, compiuti il 10 Luglio. Era di origine giapponese, come del resto tutta la sua famiglia, ed era giunta a Roma per festeggiare il matrimonio di uno zio.

Suddetto zio, nonostante la sua ferma disapprovazione, li aveva invitati a gustare una delle “tipiche” attività romane: lo spettacolo di musica classica. E, per la ragazza, non poteva esserci genere più tedioso di quello.

Tuttavia non avrebbe fatto storie, se non fosse stato per un piccolo particolare: suo zio aveva deciso, in extremis, di portare con sé un certo Jiraiya, un amico intimo, che non aveva smesso di fissarla nemmeno per un minuto. E, nonostante in parte se ne sentisse lusingata, avvertire su di sé quello sguardo vagamente perverso la metteva in imbarazzo.

Era forse considerabile come un omaggio alla sua avvenenza?

Non si poteva certo dire che Kushina fosse brutta.

Aveva lunghissimi capelli ramati, lucidi e lisci, che, per l'occasione, aveva racchiuso in un'acconciatura complicata che aveva richiesto ore di lavoro. Il volto era dolce, perfettamente ovale, mentre gli occhi, di una luminosità e spontaneità incredibili, rassomigliavano a degli smeraldi per colore e purezza. La figura sottile e sinuosa era nascosta (e costretta) in un abito estremamente scomodo – a parere di Kushina – che le si stringeva sotto il seno e poi si apriva in una gonna a sbuffo fin troppo ingombrante.

-Manca ancora poco, cerca di pazientare...- le sussurrò la sua migliore amica, Mikoto Uchiha, portando il ventaglio di fronte alla bocca per non farsi sentire e ghignando maliziosamente.

Era, Mikoto, l'unica dama di tutto il teatro che potesse vantare un vestiario sobrio. Indossava un abito nero, semplice, che, oltre a sottolineare piacevolmente le curve del corpo, metteva in risalto la sua bellezza tipicamente orientale, caratterizzata da una cascata di morbidi capelli corvini e dai raffinati occhi neri, a mandorla. Kushina benedì per l'ennesima volta la decisione di portarla con sé, maturata una volta che aveva compreso quanto sarebbe potuta risultare noiosa quell'inaspettata vacanza in Italia.

-Almeno a te piace il pianista.-

La mora arrossì, aumentando per un attimo il ritmo del movimento del ventaglio, poi increspò le labbra in un sorriso.

-Che dici... Fugaku non è proprio il genere d'uomo che possa attirare la mia attenzione.-

La rossa si trattenne dallo scoppiare al ridere, sporgendosi verso Mikoto fino a raggiungerne l'orecchio.

-E' tutta la serata che ci sbavi sopra, inutile negarlo. E poi... penso che potreste essere una coppia fantastica.-

L'Uchiha la respinse con uno schiaffetto, accennando una risatina che fu subito smorzata da un deciso tossicchiare della madre di Kushina. Ciononostante, non appena la donna si fu distratta, Mikoto ricominciò a parlare.

-Beh, non si può negare che sia affascinante, con quell'aria seria e matura. E poi, è l'erede dell'Uchiha Corporation...-

-Sei cotta, ammettilo.-

-Forse, habanero.-

-Non sbaglio mai sulle questioni sentimentali, popi. Comunque, il tuo Fugaku sarà anche bello e prestante, ma... 'ttebane, fa una musica proprio noiosa!-

-Non sei in grado di apprezzarla, tutto qui. Questa è musica di cultura, habanero.-

-Meglio i Beatles, popi. Almeno quelli sono divertenti.-

-Dipende dai punti di vista... io, ad esempio, trovo che la loro musica sia tediosa.-

-Tediosa!? Oh, Mikoto, come fai a dirlo?- quasi urlò, brandendo minacciosamente il ventaglio.

-Kushina!- esclamò sua madre, alzandosi in piedi -Cerca di comportarti in maniera consona al luogo in cui ci troviamo!-

-Hai, oka-san...-

 

***

-Uff... finalmente è finita...-

-Ti conviene parlare piano, tua madre potrebbe sentirti.-

-Se anche fosse? Può rimproverarmi come desidera, non le darò mai retta.-

Le serate romane erano decisamente più tiepide di quelle giapponesi, e le due ragazze camminavano nei pressi delle rovine del Foro ammirando distrattamente i reperti archeologici, così grandi e stupefacenti anche dopo quasi secoli e secoli di storia. Non che a Kushina destassero chissà quale furore artistico - non era, lei, persona da disegni o ricami delicati - ma le sembravano comunque molto più allettanti di una qualsiasi passeggiata nel caos della capitale italiana. Avevano un che di... poetico, forse, che le instillava una raffinatezza infinitamente maggiore di quella artefatta ed ostentata del concerto a cui aveva appena assistito.

-A che pensi, Kushina?-

-Nulla... non trovi anche tu che questo paesaggio sia bello?-

-Bello, dici? Certamente ha un aspetto non convenzionale, molto diverso dalla delicatezza degli ambienti del nostro paese. Esprime molta forza.-

-Ah, Miko-chan, pensa! Pensa che fantastica cosa poter vedere queste rovine al tempo in cui erano ancora palazzi e mercati, domus e insulae! Non sarebbe assolutamente magnifico? E poter girare per le strade su una portantina, come una vera signora romana...-

-Vedo che hai studiato bene la storia di questo paese, habanero. Ma non dovresti lasciarti andare a queste fantasticherie; se tua madre dovesse sentirti nel proferire simile sciocchezze s'arrabbierebbe.-

-Uffa, popi... sei sempre così seria.-

-E tu sei sempre esagitata. Su, goditi il fresco e cammina composta, la tua adorabile mamma ci sta guardando decisamente male.-

A quelle parole Kushina raddrizzò la schiena, aumentando sensibilmente il passo, forse un po' offesa. Si distanziò in pochi minuti dal resto del gruppo, tra le risatine divertite di Mikoto e le occhiatacce della madre, prendendo a camminare velocemente accanto alla ringhiera che separava la strada dalle rovine.

Trascorse una decina di minuti nel silenzio quasi assoluto, interrotto solamente dal rumore assordante del motore di qualche sporadica macchina e dal canto degli uccelli notturni che si annidavano tra i monumenti. Era tutto così calmo ed elegante, così profumato di antichità, che sul momento non realizzò di essere ancora parte di una comitiva e si spinse ancora più avanti, saltellando sull'asfalto umido con il rischio di scivolare e rovinarsi il vestito. E poi improvvisamente, le si presentò di fronte una di quelle occasioni che promettono ampie soddisfazione per l'estro malandrino di ognuno di noi. Per tradurlo in termini pratici, una grossa porzione della ringhiera che accompagnava la strada si era arrugginita ed era crollata malamente a terra, aprendo un buco grosso abbastanza per farci passare un bue. Gli occhi di Kushina brillarono, a quella vista.

Guardò verso il cammino appena percorso, assicurandosi che i suoi non fossero in vista, poi si sfilò le scarpe di seta e, tenendo quelle in una mano e l'orlo del vestito nell'altra, si tuffò nella vegetazione bassa ed elastica con un basso saltello. La sensazione dell'erba bagnata a contatto con le piante dei piedi le regalò una serie di fastidiosissimi brividi, ma, dopo una scrollata di spalle, decise che sì, valeva la pena di prendersi un raffreddore e una sgridata unicamente per far venire un infarto a sua madre e a quella seriosa di Mikoto, che non la finiva mai di dispensare consigli maledettamente giusti.

Si intrufolò tra le rovine, simili a grandi montagne buie nell'oscurità della sera, e si beò della vista dei capitelli corinzi abbandonati sul terreno, un tempo splendidi nei loro motivi a foglie d'acanto, ora niente più che morbide illazioni facenti parte di un tempo per sempre sparito. Passò le mani sul marmo ruvido e poroso, giocando delicatamente con le figura di dee a caccia, rappresentate nella superficie dei bassorilievi, e sobbalzò alla vista di alcuni volti umani scolpiti su un frontone crollato, che, nell'oscurità, le erano parsi quasi vivi. Percorse strade ormai dimenticate, vide dettagli di vite perdute che sembravano mostrarsi a lei, a lei sola, come un silenzioso ammonimento sulla brevità dell'esistenza.

All'improvviso, simili a visioni auree che si stagliavano sul cielo notturno, le comparvero di fronte il tempio di Vespasiano, sottile e poetico con le sue tre colonne, stoicamente diritte nonostante l'avversità del tempo, e quello ben più massiccio ed elaborato di Saturno, una facciata sorretta da bianchi pilastri corrotti dall'avanzare delle stagioni.

Si avvicinò, in estasi, fissando quei monumenti che tanto aveva amato e studiato, nelle sua ricerche sulla civiltà romana. Erano la massima espressione di civiltà antica, belli e resistenti come nessun'altra manifestazione dell'arte umana.

Fu quando poggiò le mani sulla superficie scanalata della colonna, poi, che udì la musica.

Inizialmente era lieve, come un sospiro del vento.

Poi, a poco a poco, divenne forte, sempre più forte. Kushina si sentì scossa sin nel profondo da quei suoni, così incredibilmente dolci e leggeri da somigliare, per le sensazioni che le suscitavano, allo scroscio dell'acqua di una cascata. E quello era un... pianoforte? Lo stesso strumento che le era parso tanto inutile e sgraziato, al concerto? Oh, era finita la pacchianeria e l'inutile ostentazione dei nobili, era sparito l'odore di profumo costoso e merletti antichi, sostituito da quelle melodie angeliche che sembravano sgorgare dai cancelli del Paradiso e portavano con sé un lezzo antico e dolce di fiori.

Inconsapevolmente si mise a correre, seguendo l'eco di quelle note deliziosamente struggenti, unite in un'orgia di scale e armonie da cui sembrava scaturire null'altro che energia pura. I piedi colpivano la terra umida a causa della rugiada, sorprendentemente prossima a divenire fango, i polmoni non facevano che incamerare ossigeno, in una frenesia ossessiva che le aveva portato via qualsiasi possibilità di ragionamento. Il cielo e la terra si confondevano in un miscuglio di colori che non aveva mai visto, e le gambe, come in perfetta autonomia, la guidavano senza che ci fosse bisogno di pensare a dove dirigersi.

Quando si fermò, stremata dallo scatto, le ci volle qualche secondo perché gli occhi ricominciassero a funzionare. Quello che vide non l'avrebbe più dimenticato.

C'era un avvallamento, di fronte a lei, piccolo e ameno, all'ombra di rovine che non le sembrava di aver mai scorto nella pianta del Foro. La conca era luminosa, e brillava della luce di migliaia di splendidi fiori rosati, dai petali striati di rosso, che sembravano occhieggiare la Luna con le corolle aggraziate. Al centro di quella distesa fiorita, più bello ancora di ciò che lo circondava, stava un uomo, intento a suonare uno splendido pianoforte a coda.

Era alto, con i capelli biondi come l'oro filato e le ciglia dello stesso colore, la pelle bianca, quasi lattiginosa, e le labbra delicate, morbide, della tinta aristocratica dei boccioli di rosa canina. Teneva gli occhi socchiusi, a svelare solo leggermente il colore etereo dell'iride, e muoveva le mani sui tasti d'avorio con un'eleganza e una delicatezza che sembravano derivare solo ed unicamente da una lunga pratica, sicché, anche quando si voltò verso la ragazza, incatenandola con il suo sguardo azzurro, non smise di suonare.

-Chi siete? E' da secoli che nessuno viene più qui.- aveva una voce carezzevole, eppure roca e soffusa, come se non la usasse da molto. Nella raffinatezza dei tratti, Kushina scorse un'ombra di tristezza.

-M-mi chiamo Kushina Uzumaki. Che posto è questo?- domandò lei, facendosi spazio tra i fiori a brevi falcate.

-E' tutti i posti e al contempo nessuno. E' il luogo dove vorreste vivere e che comunque ripudiate, ma più di tutti è l'unica prigione in cui mi sia concesso di trascorrere la mia eternità.- la musica cambiò facendosi più triste ed accorata. La rossa distinse una vaga rassomiglianza con un pezzo di Mozart, ma non proferì verbo per non rischiare figuracce.

-Non capisco.- confessò, spostando il peso da un piede all'altro.

-E' normale, sai? Gli esseri umani non sono fatti per comprendere i misteri di questo mondo, ma per ignorarli e vivere felicemente.-

-T-tu...- la voce le tremò, e si rimproverò per la sciocchezza che stava dicendo -... non lo sei?-

-Umano, intendi? Non più. Da molto, molto tempo ormai.- rispose l'uomo, sorridendo dolcemente. Kushina, non senza una certa apprensione, strizzò gli occhi per vedere se tra le labbra gli fossero spuntati dei canini. Non vide nulla di particolare, a parte un sorriso del biancore della neve.

-Non sono un vampiro, se è questo che ti chiedi. Ah, che scortese, non mi sono presentato. Il mio nome è Minato Von Namikaze, deliziato di fare la vostra conoscenza. Vi farei un baciamano, se potessi, ma il caso vuole che non possa muovermi da questo pianoforte per nessun motivo.-

La ragazza arrossì, non sapendo bene come continuare il discorso. Aveva talmente tante domande in testa, e quella situazione le pareva così assurda, da bloccarle del tutto la lingua. Alla fine, però, si decise.

-Se non sei un vampiro... cos'è che sei, di preciso?- si pentì quasi subito della propria sgarbataggine, ma Minato le rivolse uno sguardo talmente dolce da farle dimenticare ogni proposito di scusa.

-Non credo vi sia una definizione precisa per il mio essere, invero. Ci fu un tempo in cui calcavo la terra proprio come fai tu, umano in tutto e per tutto. Ero un pianista, famoso e richiesto dalla nobiltà, ma avevo un unico, grande difetto: la mia passione per le donne.-

Si interruppe, risucchiato da un passaggio particolarmente difficile di ciò che stava suonando. Quando riprese, la sua espressione si era fatta più ombrosa.

-Sai, piccola Kushina, la mia era una realtà dorata, fatta di feste di gran gala, cortigiane e cicisbei. Tuttavia, quanto avevo non bastava a rendermi felice. Sai cosa mi mancava?-

-Cosa?-

-L'amore di una donna. Sebbene ne avessi avute molte, di differenti estrazioni sociali, nessuna aveva suscitato in me sentimenti diversi dalla mera passione fisica. Il mio bell'aspetto facilitava certamente le donne interessate all'apparenza, ma in ventun anni di vita non ne avevo incontrata nessuna che fosse degna di condividere la vita con me.-

-E l'hai mai trovata?-

-Sì, poco prima che la mia vita evaporasse come neve al sole. Era bella, sai? Più bella di qualsiasi altra fanciulla della sua epoca, soave come le rose nei giardini di Versailles. Non ricordo nemmeno il suo nome, ma so per certo che era estremamente dolce e delicato, così come i suoi modi ed il suo aspetto.-

A Kushina sembrava sgarbato continuare a porre domande, ma era veramente incuriosita. Quello che il biondo le stava raccontando somigliava incredibilmente ad una bellissima fiaba, anche se, per qualche motivo, sospettava che si trattasse di una storia priva di lieto fine.

-Si innamorò di te?-

-No, ma io mi innamorai follemente di lei. Feci di tutto perché i miei sentimenti venissero ricambiati, ma fallii miseramente e me ne andai per sempre dal luogo in cui l'avevo incontrata, Parigi, ripromettendomi di non tornarvi mai, nemmeno per i miei concerti. Ero qui a Roma, un anno dopo, quando mi giunse notizia del suo matrimonio con un conte viennese.-

-E tu...-

-Mi uccisi, qui dove mi vedi ora. Fu un atto di somma stupidità, ma ero un folle, un ragazzino innamorato e privo di controllo.-

-Q-quindi... tu saresti una specie di... fantasma?-

-Forse, se è così che il mondo ha cominciato a chiamarci. Io non lo so. Sono più di duecento anni che nessuno viene qui.-

-M-ma come è possibile? I fantasmi non esistono, o, almeno...-

-... così credevi prima di vedere questo luogo, dico bene? Osserva, piccola Kushina, tutto questo ti sembra forse naturale o razionalizzabile? E' opera di un'autorità che noi non possiamo comprendere, e che opera in silenzio, sia per il bene che per il male.-

-Dio?-

-Forse sì, forse no. O forse, molto semplicemente, le connotazioni che noi esseri umani gli attribuiamo sono troppo restrittive per descriverne pienamente la natura.-

-Oh...- mormorò Kushina, sedendosi di schianto tra i fiori. Minato le indirizzò un'occhiata preoccupata, rallentando leggermente il ritmo.

-C'è qualcosa che non va?-

-No... è che sentire tutte queste cose, e tutte insieme...-

-Eppure sei disposta a credere a ciò che vedi. E' una qualità rara e preziosa, per una ragazza come te.-

Kushina arrossì di botto, torturando il gambo di un fiore tra le dita delicate.

-Gra-graz...-

-Oh!- la interruppe lui, osservandola come se l'avesse appena vista -I tuoi capelli...-

-Cos'hanno?

-Nulla. Sono splendidi.- replicò Minato.

La rossa, a quel punto, rischiò seriamente di avere un mancamento. Fissò il proprio interlocutore con un misto di imbarazzo e curiosità, il viso semi-nascosto dai ciuffi sfuggiti all'acconciatura.

-Ti vergogni, forse? Ma non c'è alcun motivo di farlo, di fronte ad un complimento.-

-Invece sì.- fu la risposta, piccata. Minato scoppiò a ridere, sovrastando per un attimo la musica del pianoforte con la sua voce, una melodia forse ancora più angelica, simile al suono di mille campanelli d'argento.

-Le donne non cambiano mai, nemmeno dopo duecento anni.-

-E' forse un male?-

-No, per noi uomini è il più prezioso dei doni.-

Kushina raccolse le ginocchia al petto, posandovi poi il mento. Smisero di parlare, seguendo solamente la dolcezza struggente della musica, lasciandosi trasportare da quel potere intrinseco che per secoli ha avvinto l'uomo e non smetterà mai di farlo. I minuti scorrevano veloci, e fu dopo un tempo indefinito che Kushina si decise ad alzarsi, avvicinandosi al pianista.

Posò una mano sulla superficie pulita e levigata del pianoforte, e lo trovò stranamente caldo. Era come se fosse una creatura viva.

-Tu... rimarrai qui per sempre?-

-Se staccassi le mani dal pianoforte morirei, e ho troppa paura di abbandonarmi all'oscurità eterna. Per cui sì, rimarrò qui per tutta l'eternità.-

-Perché?- all'occhiata interrogativa di Minato, la ragazza proseguì -Perché a te? Cos'hai fatto di male per meritare una pena eterna come questa?-

-Ho offeso il più importante dei valori, piccola Kushina. Ho spezzato una vita con le mie mani, poco importa che fosse la mia, e questo castigo, in realtà il più dolce che potesse capitarmi, l'ho meritato appieno.-

-Come puoi dirlo? Nessuno ha il diritto di condannare qualcun altro ad un'eternità di prigionia, e tu...- senza che se ne accorgesse, lacrime di rabbia avevano iniziato a rotolarle lungo le guance. Si interruppe a metà frase, alzando e abbassando il petto in brevi singhiozzi isterici, mentre le mani le si serravano fino a far sbiancare le nocche.

-Calmati, piccola Kushina.-

-Io...- la rossa si avvicinò ancora di più a Minato, fino ad abbracciarlo delicatamente, senza tuttavia impedirgli di continuare a suonare -... scusami. E' che...-

-Non parlare. Non c'è bisogno di parole.- fu il mormorio sommesso del biondo, espresso in un socchiudersi d'occhi di fronte alla dolcezza del gesto della ragazza. Da quanto non riceveva un abbraccio dolce e delicato come quello? Forse, a ben pensarci, non gli era mai capitato.

E il suo profumo, la fragranza soffice e vellutata di quei capelli rossi... da qualche parte, nel suo petto, qualcosa riprese a vivere. Un sentimento che credeva di aver dimenticato per sempre.

-E' ora che tu vada via, Kushina.- l'aver usato direttamente il nome, senza interporre alcun appellativo, aveva un sentore d'intimità che lo fece rabbrividire piacevolmente. Lo colse l'impulso di sollevare le braccia e circondare il corpo esile della ragazza, ma si trattenne, stringendo i denti.

Non poteva.

Non poteva gettare al vento un'intera esistenza per una donna incontrata per caso, e così continuò a suonare, sfogando sui tasti d'avorio la rabbia e la frustrazione di una prigionia che, da dolce come lo zucchero, in quel momento era divenuta più amara del fiele.

-Non voglio andare.- quelle parole, appena sussurrate, disegnarono una lieve crepa nella sua anima fittizia e vecchia di secoli, come una goccia d'acqua che, con la sua delicatezza, erode lentamente anche la più tenace delle rocce.

-Domani sarò qui, così come ogni notte da tanto tempo, ormai. Ti aspetterò, ma adesso vai, altrimenti la tua famiglia si preoccuperà.-

-Da quant'è che sono qui?-

-Non lo so. Non sono più capace di calcolare lo scorrere del tempo, Kushina.-

Poi, delicato, voltò la testa, sfiorandole le labbra con le proprie.

La ragazza rabbrividì, allacciandogli le braccia al collo ancor più strettamente, approfondendo quel contatto di bocche morbide, l'una giovane e calda, l'altra vellutata e fredda, in una rapsodia di sospiri e carezze che non aveva mai provato in vita sua. Le mani del pianista sbagliarono note e confusero i tasti, la mente fin troppo assorbita dalla passione per concentrarsi appieno sulla musica, e ripresero correttamente solo quando i due si furono staccati, lei rossa e imbarazzata, lui sorridente e incantato come non mai.

E poi, immortalando quel sorriso nel freddo disfacimento dei raggi lunari, tutto si dissolse, come in una nuvola di vapore acqueo. I fiori brillanti, i capelli dorati di Minato, la musica dolce del pianoforte, svanirono di colpo, così com'erano apparsi.

Nell'aria di Roma, simile al canto di un usignolo, rimase però una frase, una richiesta gentile che Kushina si ripromise di accontentare.

"Ti aspetterò domani..."

La ragazza annuì debolmente, scie di lacrime che le scendevano nuovamente lungo le guance, e poi si accasciò a terra, il volto immerso in quell'erba fredda e crudele che aveva sostituito i fiori delicati che l'avevano fatta innamorare. Chiuse gli occhi, scivolando nel buio dell'incoscienza, e rivolse un piccolo pensiero a sua madre e Mikoto, di cui le sembrava quasi di poter udire la voce.

La stavano chiamando?

Non rispose.

 

***

 

Si svegliò, che era già pomeriggio inoltrato, tra le fresche lenzuola di un letto d'albergo.

I mobili italiani avevano un buon profumo di legno, e, tra i tanti altri aromi presenti nella stanza, percepì anche un certo odore di disinfettante.

-Kushina? Sei sveglia?-

Aprì gli occhi, esitante, ritrovandosi davanti il volto preoccupato di Mikoto. La mora aveva il volto segnato da profonde occhiaie, e, a giudicare dalla sedia posta accanto al letto e da un certo affossamento tra le coperte, sembrava che le fosse rimasta accanto per tutta la notte.

-Miko-chan? Che mi è...-

-Pazza sconsiderata!- la voce di sua madre la interruppe violentemente, e la donna fece irruzione nel suo campo visivo con una mano sollevata, come per darle uno schiaffo. Mikoto le bloccò il braccio, indirizzandole uno sguardo di fuoco, e poi tornò a fissare Kushina.

-Si calmi, signora. Sua figlia non sta bene, non è il caso che si comporti in questa maniera.-

-Che mi è successo?-

-Ieri sera ti sei persa tra le rovine, e ti abbiamo ritrovata svenuta nell'erba, senza scarpe e con il vestito pieno di fango.- puntualizzò la mora, non senza una certa irritazione -Spero tu ti renda conto dello spavento che ci hai fatto prendere, habanero.-

-Vi chiedo perdono. Io... volevo solo vedere le rovine, ma poi...-

-Ma poi?- la incalzò la madre, incrociando le braccia sul petto.

-N-non so cos'è successo. Mi sono sentita male.- mentì Kushina, arrossendo lievemente.

-Oh, habanero...- mormorò Mikoto, buttandole le braccia al collo -... promettimi che non farai mai più una cosa del genere, ok?-

L'Uzumaki affondò il viso tra i capelli corvini dell'amica, aspirando il loro rassicurante profumo di mandorle, e sospirò. Stava per dirle una grossa bugia, e le dispiaceva.

-Te lo prometto, popi.-

-Beh, meglio così. Adesso ti lasciamo in pace, così potrai riposarti un po'. Sarai stanca, non è vero?-

-Più o meno...-

Le due donne uscirono, chiudendo delicatamente la porta, e Kushina ebbe tutto il tempo per chiudere gli occhi, riaprirli, guardare il soffitto e chiuderli di nuovo.

No, non l'aveva sognato. Ne era certa.

Tutto quello che le era accaduto, quella notte, era vero, così com'era vera la sensazione struggente delle labbra di Minato sulle proprie. Era accaduto tutto così velocemente che non aveva ancora avuto tempo di ragionarci su, ma sapeva per certo che, quella sera stessa, sarebbe ritornata alle rovine. Non poteva impedirselo.

Scese dal letto silenziosamente, avvicinandosi poi alla propria valigia, che qualcuno aveva preventivamente appoggiato accanto all'armadio. La spalancò con un colpo secco, e, dopo qualche secondo di silenzioso rovistare tra i vestiti, tirò fuori una piccola scatola di legno lucido.

Era bassa e rettangolare, luccicante, e sul coperchio, intarsiati con una raffinatezza tipicamente orientale, dei petali rosati di ciliegio, in madreperla, spiccavano sul legno rosso cupo. Kushina li accarezzò, pensierosa, ricordando i tempi allegri e spensierati della prima infanzia, prima che suo padre morisse. A ben pensarci non ne ricordava neanche il volto, ma sapeva ricostruire, nella sua testa, il momento esatto in cui le aveva regalato quel carillon.

Era Tanabata, la notte delle magie e dei fuochi artificiali. E lei, con il suo piccolo yukata rosso ricamato a carpe koi, aveva quasi pianto dalla felicità quando quelle mani grandi e rugose le avevano porto la scatola di legno, sulla cui superficie lucida si riflettevano i mille colori dei giochi pirotecnici. E, quando l'aveva aperta, dolci erano scaturite le note di una canzone, una ninnananna che sua madre, negli anni a seguire, le cantava tutte le sere, prima di andare a dormire.

Poi, dopo la morte di suo padre, non c'erano state più ninnananne.

Tutto era finito in pezzi, tutto tranne quel carillon. Resisteva, stoico di fronte alla furia cieca del tempo, e sembrava quasi uno sberleffo, il blasone di un'epoca dimenticata che non sarebbe tornata mai più.

Lo aprì con delicatezza, girando poi la minuscola chiavetta dorata che campeggiava sul velluto rosso di cui era rivestito l'interno. Immediatamente, intrise di una tristezza senza pari, delle note delicate e malinconiche si fecero strada nel fragile cuore di quello strumento di legno e acciaio, vibrando con tutta la passione di una creatura viva.

Inginocchiata sulla moquette polverosa, il carillon stretto tra le braccia sottili, Kushina iniziò a cantare, incespicando su quelle parole che ormai non ricordava quasi più.

-"Hi, Miss Alice, anata garasu no, me de donna yume wo... mirareru no?"- c'era stato un tempo in cui quelle parole non riusciva ancora a capirle bene, in cui si addormentava immaginandosi bambola e sognava mondi fatati di creature fantastiche e potentissimi demoni. E, tuttavia, così come erano ormai scomparse le memorie di quei sogni, anche il testo della canzone era smarrito, dimenticato da qualche parte della sua vita. Un pezzo del puzzle che era andato perso per sempre, senza che ci fosse la minima possibilità di recuperarlo.

Una lacrima cristallina le rotolò giù dalla guancia, infrangendosi, impietosa, sul velluto del carillon. Lo richiuse, mettendo a tacere la ninnananna, e lo infilò in fretta e furia nella valigia, come vergognandosi di ciò che aveva appena fatto. Si alzò poi in piedi, rassettandosi i capelli, e, fugando ogni pensiero che riguardasse il passato, iniziò a studiare un modo per recarsi nuovamente da Minato senza venire scoperta.

Perché quella notte sarebbe tornata alle rovine, ne era certa.

E nulla e nessuno avrebbe potuto fermarla.

 

***

 

Minato, quella notte, attese l'arrivo di Kushina sin dal tramonto.

Fremeva d'impazienza, accarezzando il pianoforte con meno grazia del solito, e sospirava, colto da un'ansietà che non conosceva e, pertanto, non sapeva gestire. Se avesse potuto alzare le mani dai tasti d'avorio se le sarebbe infilate nei capelli, ma, vista la situazione, si limitò ad aumentare il ritmo da "moderato" a "andante". E la noia, mai provata in secoli e secoli di stasi, lo colse.

Sbuffò, e improvvisamente la musica stupenda che suonava gli sembrò tediosa, così come il prato di fiori di belladonna (un monito meschino, quello) e l'incessante moto dei martelletti del pianoforte. Studiò con noncuranza le proprie mani, rimaste invariate, e lo strumento che vezzeggiavano, anche lui identico e immune dal lento logorio del tempo. Oh, quanto l'avrebbe preferito marcio e sfaldato, oppure anche solo scordato, capace insomma di esulare da quella perfezione disgustosa che, apparentemente, lo circondava.

Era una bellezza fittizia, falsa.

Non come...

-Minato!-

Si voltò al suono della voce, spalancando lievemente gli occhi. Oh, e lei arrossì, quando vide il suo sguardo stupefatto.

Era bella, come la notte prima, con i lunghi capelli ramati che, sciolti, le arrivavano fino ai fianchi. E sorrideva, leggera e quasi inconsistente in un abito di lana bianca, a maniche lunghe, che le fasciava il corpo proporzionato con notevole gentilezza.

-Non pensavo che saresti tornata, piccola Kushina.-

-N-non pensavo che ti avrei trovato...-

-Mi troverai sempre qui, ogni volta che vorrai.-

Lei arrossi, prendendo a torturarsi le mani con fare colpevole. Minato le indirizzò un'occhiata confusa, scuotendo leggermente la testa.

-Ecco, io...- mormorò la rossa, più piano che poté -... il fatto è che non rimarrò qui per sempre.-

Le mani del pianista si arrestarono per un attimo, ed ebbero un lieve tremito.

-Non abiti qui?-

-No.-

-E dove, di preciso? Da qualche parte nelle campagne italiane?-

-Ecco... non proprio. Sai dov'è il Giappone?-

Il biondo, stavolta sinceramente stupito, spalancò gli occhi e si produsse in un'esclamazione di sorpresa.

-No.-

-"No" cosa?-

-Non puoi andartene così lontano!- sbottò, pestando sui tasti con tutta la forza che aveva -E' una follia!-

-Follia?- mormorò Kushina, confusa dall'exploit così insolito del pianista. Quest'ultimo, accorgendosi del proprio sfogo eccessivo, arrossì e chiuse gli occhi, espirando.

-Perdonami. E' da troppo tempo che non conduco una conversazione civile.-

-No, anzi... mi è sembrato che tu fossi dispiaciuto per... per la mia partenza.-

-E lo sono, piccola Kushina. Chissà quanto dovrò aspettare, per parlare nuovamente con qualcuno...-

-E' solo per questo?- domandò lei, avvicinandoglisi -Solo per paura della solitudine?-

E Minato si voltò, incatenandola con quelle iridi azzurre che sembravano fatte del più puro dei cieli.

-No, non è solo per questo. Kushina, è così sbagliato innamorarsi di una persona che praticamente non si conosce?-

-Forse sì.- ammise, alzando le spalle -O forse no. L'amore è un sentimento strano, imprevedibile. E poi non è certo una domanda da porre a chi è così inesperto rispetto a te, non trovi?-

-Cosa ti suggerirebbe la tua inesperienza, se ti dicessi di amarti?- sussurrò il biondo, dolce.

-Mi suggerirebbe di darti ascolto.-

-Kushina, vieni qui.-

Lei gli si avvicinò, evitando per quanto possibile di calpestare i fiori, e lui le fece posto sul lungo panchetto da pianista, permettendole si sedersi. Kushina si accomodò, fissando con un che di concentrato la bella tastiera che le stava davanti. Un tempo aveva preso qualche lezione, ma non ricordava più nulla.

-Sai suonare?-

-Un poco, anzi, per nulla. E' da anni che non tocco un pianoforte.- mormorò, rattristata, sfiorando con l'indice uno dei tasti, senza però pigiarlo. Non voleva rovinare la composizione continua che scaturiva dalle mani di Minato con una goffa intromissione come quella.

-Oh, ma questo non significa niente.-

-In che senso?-

-Piccola Kushina, la musica è qualcosa che scaturisce direttamente dal cuore. Non puoi imbrigliarla con la tecnica, e per quanto tu possa esercitarti, se la tua anima non palpita di fronte alla dolcezza delle note è inutile cercare di suonare una melodia, anche la più semplice.-

-Sì, ma...-

-Con gli strumenti umani il discorso cambia. Li hanno resi privi di anima, a furia di duplicarli, tanto che adesso seguono unicamente il talento tecnico del musicista. Ma questo, questo è diverso...- fece un cenno verso il pianoforte, sorridendo con la dolcezza possessiva di chi rimira un oggetto amato. Kushina percorse il profilo dello strumento con il palmo della mano, saggiandone le curve e la perfezione in un unico tocco. Sembrava circondato di una dolce, soffusa aura dorata, che le riscaldava la mano con il suo tepore.

-Questo... suonerà?-

-Saremo lui ed io a guidarti, piccola Kushina.-

La rossa posò le mani sulla tastiera, timorosa, e poi, improvvisamente, i tendini delle dita sembrarono sciogliersi, armonici, in un'unica scossa fluida. Avanti e indietro, su quei listelli d'avorio che le scaldavano i polpastrelli, le falangi si mossero da sole, quasi animate da vita propria, e lei non poté fare altro che assecondarne le movenze, sorridendo come un bambino di fronte ad un regalo troppo grande per essere vero.

-E'...-

-Incredibile, non è così? Questo perché la musica che porti nel cuore è davvero stupenda.-

E suonarono insieme, ancora e ancora, improvvisando una composizione semplice e fresca come il vento che, spirando leggero dall'Agro Pontino, rinfresca il Tevere e dona l'ispirazione ai cantori delle ballate da osteria. E di quello stesso vento avevano la vitalità e l'allegria, la forza e il gaudio.

Quando Kushina si fermò, le braccia a pezzi, lasciando a Minato il compito di proseguire l'esecuzione, fu come se le stelle si fossero spente tutto a un tratto. Erano trascorsi pochi secondi dalla fine, e già quei suoni le mancavano indicibilmente.

-Sai...- il biondo spezzò quella cappa di relativo silenzio con la sua voce armoniosa-... è la prima volta che permetto a qualcun altro di suonare con me.-

-D-davvero?-

-Sì. Ho sempre odiato le esecuzioni a quattro mani, perché per me erano come un'intromissione nel mio modo di vedere l'arte.-

-Ah. Beh, grazie!- esclamò la rossa, illuminandosi di un sorriso radioso che provocò l'ennesima stretta nel cuore di Minato. Tra quanto se ne sarebbe andata? Forse una settimana, o forse un mese... poco importava, non riusciva nemmeno a guardare il suo viso senza essere triste al pensiero che potesse partire.

E non voleva sentire quel peso ogni volta che la guardava. Non voleva.

Sospirò, fermando le mani sulla tastiera. Kushina sobbalzò, fissando le dita immobili del pianista, e poi, pietrificata, le osservò mentre si staccavano dalla superficie levigata dell'avorio e si piegavano leggermente, finalmente libere di toccare solamente l'aria.

-Ma... che...-

Prima che potesse continuare, le braccia del pianista le circondarono il collo, e il suo peso, tangibile eppure delicato, li fece scivolare entrambi a terra. Per qualche secondo la rossa rimase senza parole, le mani appigliate ai ciuffi d'erba umida e il cuore veloce come quello di un colibrì, poi, lentamente, ricompose i fatti appena avvenuti come un puzzle, fino a comprenderne realmente la gravità. E fu come se una scossa elettrica l'avesse attraversata, lasciando dietro di sé niente più che stupore e annientamento.

-P-perché? Non hai detto che...-

-Appena il sole getterà i suoi raggi su questo luogo, io mi dissolverò nell'aria e morirò, così come sarebbe dovuto accadere già da tempo.- mormorò il biondo nell'incavo del suo collo. Lo sentiva così vicino che, se fosse stato umano, avrebbe potuto percepire tranquillamente il battito del suo cuore.

Ma nessun rumore proveniva da quel petto, immoto ormai da più di due secoli.

Gli infilò le dita nei capelli, troppo stupita persino per piangere, e li lascio scorrere sulle falangi, saggiandone la consistenza morbida. Minato sospirò, stringendosi ancora di più al suo collo, con un che di infantile che la fece sorridere. Ispirava tenerezza, e solitudine.

-Perché l'hai fatto?-

-Mi sono innamorato di te.-

La rossa sobbalzò, imporporandosi al suono di quelle parole. L'aveva già intuito, certo, ma non avrebbe mai pensato che lo spirito potesse esporsi così tanto. Ah, come avrebbe voluto poter ripetere le stesse parole... ma non ne aveva il coraggio. Aveva paura che, se avesse aperto nuovamente la bocca per parlare, le parole le sarebbero morte nella gola, soffocate dal pianto.

Chiuse gli occhi, stanca.

-Non dovevi.-

-Innamorarsi di te è forse un peccato, Kushina?-

-Sai che non mi riferisco a quello. Tu, tu...-

Ed ecco, così come aveva previsto, che si mise nuovamente a piangere. Si portò una mano alla bocca, soffocando i singhiozzi, mentre Minato si puntellava sulle braccia, fino a sollevarsi sul suo corpo. Si ritrovò a fissare i suoi occhi azzurri, tristi e sfocati attraverso il velo delle lacrime, sospesi a pochi centimetri dai suoi.

-Non piangere, piccola Kushina.-

-C-come puoi dirlo? N-non puoi chiedermi di n-non piangere, quando so che m-m...-

-Morirò? Oh, Kushina, se sapessi quello che si prova a stare per anni ed anni seduti su quel pianoforte, ad aspettare che giunga qualcuno a rallegrare il proprio supplizio... be', forse allora capiresti i motivi della mia scelta. Hai spezzato per sempre l'equilibrio fittizio che si era creato in due secoli di prigionia, ed è unicamente per questo che morirò stringendoti tra le braccia, finalmente libero. Non lo sono mai stato, prima che arrivassi tu. E poi...-le si accostò, baciandola dolcemente e poi staccandosi -... mi rimane solo una notte di vita. E voglio trascorrerla con te, nella sua completezza.-

Kushina comprese immediatamente il significato di quelle parole, e trattenne il fiato. Sentì i capelli di Minato solleticarle una guancia, e la bocca di lui che le depositava una serie di baci roventi lungo il collo. La pelle scottava sotto le sue labbra.

Espirò piano, socchiudendo gli occhi, e poi tutto si fece scuro e fumoso.

E furono sospiri e gemiti, e lacrime e intenso dolore, e vita e morte, in una notte che prometteva di non finire mai.

Ma nulla è eterno, nemmeno l'oscurità.

 

***

 

Quando si svegliò, avvertendo la carezza del sole sulla pelle nuda, Kushina comprese immediatamente di essere sola. E "sola" nel senso più orribile e assoluto del termine, separata, cioè, da colui che per sempre avrebbe amato.

Si tirò a sedere, rabbrividendo per il freddo, e raccattò velocemente i propri abiti, sparsi nel prato come nuvole in un cielo scuro. Li indossò senza emettere un suono, lentamente, risoluta e distrutta da un dolore che le serpeggiava nella testa e nel cuore, infido e silenzioso come il veleno di un serpente. Una volta finito si lasciò cadere nell'erba, abbandonando il capo tra i fili verde brillante, frenando con una leggera pressione delle dita le lacrime che già minacciavano di scorrere.

Voleva solo finirla lì, morire su quel prato che li aveva accolti, lei e lui, creando una favola fatta solo per loro.

Improvvisamente, voltando la testa, lo vide.

Stava a qualche metro di distanza, diritto nell'erba come un soldato sull'attenti. Un fiore.

Era esattamente identico a quelli che riempivano la conca in cui era sito il pianoforte, ma se possibile sembrava ancora più bello. Grande, di un bianco rosato screziato di carminio, era l'amaryllis perfetto, di una purezza e delicatezza senza pari. Sembrava quasi che emettesse luce propria, con la corolla aggraziata rivolta al sole, in una muta richiesta di vita.

E Kushina si avvicinò, sapendo già cosa fare. Al corso di ikebana le avevano spiegato le caratteristiche di quel fiore, così mostruosamente bello, eppure pregno di un veleno mortale capace di uccidere un uomo adulto. Ne staccò le stelo con delicatezza, poi avvicinò i petali alla bocca e, tratto un profondo sospiro, li ingoiò.

Avvertì quel sapore amaro, disgustoso, scenderle giù per la gola in un bolo viscido. Tossì, poi avvertì le guance bagnate, e, dopo averle toccate, si accorse che stava nuovamente piangendo.

-Minato...- sussurrò, abbandonandosi nuovamente sul prato.

Era sua la colpa, soltanto sua. Se non si fosse messa in mezzo, se non l'avesse trovato, molto probabilmente il pianista avrebbe continuato a vivere.

L'unica cosa che poteva fare, per scusarsi, era seguirlo nelle stesse tenebre che lo avevano inghiottito.

 

***

 

Fu Mikoto a trovare il cadavere di Kushina.

La cercarono per giorni e giorni, senza risultati, finché all'Uchiha venne in mente che potesse trovarsi nel foro. E fu lì, tra l'erba fremente di vita, che la ragazza pianse sul corpo ormai sfatto dell'amica, urlando il proprio dolore ad un cielo che, con le sua immensità azzurra, sembrava quasi beffarsi di lei.

Molte furono le ipotesi sulla morte della giovane Uzumaki, ma, alla fine, fu assunta per buona quella dello stupro. Infatti, pare che nel corpo della ragazza non vi fosse traccia alcuna di veleno, e la sua morte risultò inspiegabile persino per i criminologi più esperti.

Passarono gli anni, e il foro si riempì lentamente di turisti, acquisì notorietà e importanza come mai prima d'allora. Tuttavia, benché fosse pieno di gente a qualsiasi ora del giorno, benché la luce non lo abbandonasse mai del tutto, nessun visitatore fu mai in grado di scorgere la verità.

Un osservatore che sapesse cosa cercare, e soprattutto che ne possedesse le capacità, li avrebbe certamente visti.

Lei rossa di capelli, seduta tra le rovine come una visione evanescente, e lui, altrettanto labile e leggero, intento ad accarezzarle i capelli. Sarebbero rimasti lì per sempre, a bearsi della reciproca compagnia, aspettando qualcuno che potesse vederli davvero.

Ad accompagnarli, da lì all'eternità, c'erano quei fiori.

Bianchi e puri, striati di sangue come i loro sentimenti.

Amaryllis.

 

Owari

 

 

 

 

 

 

_Angolo del Fancazzismo_

Premetto che questa storia era nata per il famoso concorso "City, Song and Flower", che poi non è andato più in porto. Ergo, la pubblico comunque ù.ù

City: Roma

Song: Still Doll, di Kanon Wakeshima

Flower: Amaryllis

Peccato, mi sarebbe piaciuto leggere il giudizio della giudicia, anche se scommetto che avrebbe criticato l'insensatezza assoluta di questa one-shot. Vabbuò, ci si vede...

See you soon,

Roby

   
 
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