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Autore: La Mutaforma    01/11/2010    1 recensioni
Rimase seduta nel suo piccolo cerchio per terra, comodamente abbracciata a se stessa, sotto la luce del crepuscolo, mentre ascoltava in silenzio le ingiurie che gli Yevoniti, da qualunque parte del mondo, le scagliavano contro. Quelle stesse parole dalle quali suo padre non avrebbe mai potuto proteggerla.
Né lei, né suo fratello, né il suo popolo intero, né tanto meno sarebbe mai riuscito a trattenerla nei confini del loro angolo, così come non ci era riuscito con la sua sconosciuta sorella, la zia della quale Rikku non avrebbe mai visto il volto.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Rikku
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Una macchina bambina'
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Prologo:

Deserto di Sanubia, inizio del Bonacciale di Braska. Dei disordini sull’isola di Bikanel mettono in allarme una piccola di Rikku di cinque anni che, uscita a giocare, riflette sulle parole che aveva sentito dire da suo padre, Cid. Nel suo cervello di cinque anni cominciano a vagare idee; idee sul mondo, su coloro che, in qualche modo, li avevano tagliati fuori da Spira. Loro, “gli altri” quelli che in separata sede condannavano gli Albhed quando non c’era Sin a tenerli occupati. Secondo capitolo della trilogia dedicata a Rikku. 

Loro, gli altri, il mondo intero

 
–“Fai una promessa a papà: resterai sempre con me, e non te ne andrai mai. Non cercherai mai nulla di diverso oltre la Base. Me lo prometti, Rikku?”–

–“Va bene papà…”–

Forse aveva risposto solo perché non credeva di avere scelta. Oppure perché non c’era ragione di replicare, di dirgli di no. Rikku voleva bene a Cid. Non gli avrebbe mai inflitto un dolore così grande.

La sua educazione era stata infondata soprattutto sulla diffidenza. Solo dei suoi simili poteva fidarsi. Coloro che vivevano al di là della Base, coloro che non erano Albhed, erano possibili nemici.

Le era stato imposto di odiare quelle persone da suo padre, ma Rikku non aveva mai capito perché odiare con tanto fervore persone che lei non aveva mai visto. Più dei mostri, perché suo padre le aveva detto di non odiare tanto i mostri. Erano i soli compagni di cella che gli Albhed avrebbero potuto avere a Bikanel.

 

Con le sue manine piccole e paffute cominciò a creare una montagnola con la sabbia. L’aria afosa ma frizzante intorno all’oasi le bruciava le narici e Rikku la respirava con desiderio, tanto che amava quel profumo di casa, di gioco, di tempo libero. Inclinò leggermente il secchio di plastica rosso e fece cadere due o tre gocce d’acqua sulla creazione e riprese il suo gioco. Ogni tanto, le veniva di alzare gli occhi al cielo. Anche se ora non ce n’era più il motivo.

La scia che Sin aveva lasciato nel suo cuore era difficile da cancellare. Cid le aveva sempre detto che quando andava a giocare da sola, ogni tanto doveva guardare in cielo, in caso Sin avesse attaccato la loro isola. Ed era vero, sì, che Rikku era pagana, ma ogni volta pregava, pregava che non venisse mai. Mai più. Perché lo aveva visto, anche se solo una volta, qualche settimana prima. E aveva avuto una grande paura.

Rabbrividì al pensiero e la manina tremante rovesciò troppa acqua sulla sua montagnola di sabbia.

Fece una smorfia irritata: avrebbe dovuto ricominciare.

 

Guardò con occhi secchi l’acqua scintillante della pozza acquifera, l’unica del deserto, l’oasi di Sanubia. Una volta le piaceva fare il bagno, perché il caldo del deserto, l’afa di quell’area desertica era insopportabile anche per lei. Ora non più.

Non da quando suo fratello le aveva raccontato che loro rapivano i bambini mentre facevano il bagno. Non ci credeva molto, a dire il vero, perché tutti in racconti horror che aveva sentito non aveva mai sentito parlare di un deserto. Bikanel era un luogo allegro, anche se solitario. Le dune dorate del deserto erano morbide, cambiavano volto al primo soffio di vento. Avevano qualcosa di umano, per lei.

Comunque, non avrebbe mai rischiato di essere catturata da uno di loro. Poi, anche suo padre glielo aveva detto che quello di suo fratello era uno scherzo, ma che doveva fare molta attenzione lo stesso.

Anche all’acqua, che era così allegra?

–“Mai fidarsi delle apparenze…!”– si disse la bambina pensierosa, dando un calcio alla sabbia. I granelli dorati, sottili come polvere d’oro, si persero in un soffio di vento che li prese e li trasportò lontano. Rikku li seguì con uno sguardo, o almeno immaginò di farlo, perché non riuscì più a vederli dopo poco.

L’acqua era calma, placida, qualche pigro pesciolino giallo a strisce rosse si aggirava sul pelo dell’acqua, alla ricerca di qualcosa da mangiare. Si chiese come potesse l’acqua, un elemento così tranquillo e pacifico, poter essere il nascondiglio di un mostro tanto grande.

Quando aveva chiesto a suo padre dove si nascondeva Sin quando non era a distruggere il mondo, Cid le aveva detto che si inabissava, si nascondeva nel mare, nell’oceano.

–Papà, ma allora perché tutti i soldati del mondo non vanno ad ucciderlo in fondo al mare?–

Aveva proposto qualcosa di simile, più o meno. Cid, per tutto risposta, aveva sorriso e le aveva accarezzato la testa mentre la prendeva in braccio, dandole un bacio sui capelli.

–Sei una brava figlia…– le aveva detto, ma Rikku continuò a pensare che il suo fosse un modo attenuato di respingere la sua proposta.

Solo dopo aveva scoperto l’arcano. Aveva sentito dire dagli adulti nella Base che solo un uomo speciale poteva sconfiggere Sin.

Un invocatore, o qualcosa del genere. Rikku non ne aveva mai visto uno, ma Cid le aveva detto che con un’asta, attraverso la preghiera, questi potevano invocare delle entità soprannaturali.

Rikku sorrise e, afferrando un ramo dalla sabbia, cominciò a ballare, fingendo di essere una piccola “invocatrice”. Chiuse gli occhi, assaporando il pensiero di riaprirli e vedere davanti a sé una di quelle entità mistiche di cui le aveva parlato suo padre. Ma non sarebbe comparso nulla, nemmeno quella volta. Eppure sorrideva, perché le piaceva giocare a fare l’invocatrice, a danzare a ritmo lento con un ramo tra le mani e la gonna al vento, mentre il rumore dell’acqua che placidamente tremolava in flutti stentati nell’oasi verdeggiante le faceva da sottofondo.

Per qualche motivo, suo padre odiava il mondo di Yevon. Odiava quel mondo da cui era stato tagliato fuori.

Odiava la pratica degli invocatori. Lo chiamava “suicidio”. E Rikku non sapeva né il motivo, né il significato di quella stessa parola. Lei invece trovava questi “invocatori” speciali e coraggiosi.

Rikku era curiosa. Per questo suo padre glielo aveva fatto promettere qualche tempo prima. Le aveva fatto promettere che non se ne sarebbe mai andata. Glielo aveva chiesto mentre la prendeva dolcemente in braccio, come quando faceva per dirle qualcosa di importante.

Rikku sentì vagamente che quella promessa andava mantenuta.

Forse.

Forse suo padre glielo aveva fatto promettere perché aveva perso qualcuno al quale non aveva fatto fare la sua stessa promessa. Eppure, non poteva astenersi dal chiedersi chi mai lo avesse abbandonato e perché una persona, un Albhed, avrebbe dovuto lasciare la Base. E perché suo padre avesse tanta paura di tutto ciò.

Dell’abbandono.

Dei confini di Bikanel che si stringevano ogni giorno di più.

Di loro. I “non Albhed”. Coloro che abitavano gli incubi peggiori di Rikku.

Cid gliel’aveva detto. Gliel’aveva detto tante volte, per accertarsi che non le venisse nessuna curiosità, per sedare la sua voglia di scoprire quel mondo misterioso. Per trattenerla nei limiti familiari.  

–“Ricorda Rikku, per un Albhed il mondo è come un prato in fiore circondato da filo spinato. Restando con i tuoi simili puoi avere una vita quasi normale, nonostante le ingiurie di coloro che ci odiano. Ma, se oltrepassi il filo spinato, è la fine. Dall’altra parte, ci sono loro. E sono dappertutto…”–

E il suo prato in fiore era molto, molto piccolo. E oltre quello, il mondo intero, contro di lei.

E a quel pensiero si sentì come un pesciolino controcorrente. Forse quella sua figura retorica le venne perché guadava l’acqua dell’oasi, oppure perché stava ancora pensando a Sin, non lo sapeva.

Sapeva solo che era terribilmente azzeccata. E non c’era mai stata volta in cui aveva odiato avere ragione.

 

Terminata la sua danza rituale, la piccola Rikku fermò i piedini sulla sabbia, e fu tentata di nuovo di guardare il cielo. E si chiese se ora che Sin era morto, chi sarebbe venuto a guastare la sua felicità.

Gli Yevoniti.

I Guado.

Persone di cui suo padre non voleva mai parlare, ma dalle quali la metteva costantemente in guardia.

Sarebbero venuti durante il Bonacciale, per recintarli come animali in gabbia con gabbie di filo spinato, oppure avrebbero sterminato la sua razza. Per solo un momento, Rikku provò a chiudere gli occhi, ed a immaginare quel giorno che poteva essere domani e quel momento stesso.

Potevano morire tutti in qualunque momento. Eppure, a quanto lei sapesse, nessun Albhed aveva mai perso la speranza. La speranza comune di essere accettati, di essere visti sotto un aspetto umano e non più religioso. Perché quella che gli Yevoniti chiamavano “guerra santa”, non aveva nulla di santo, non per lei.

Erano gli unici Albhed del mondo. E oltre i confini di Bikanel, c’erano solo gli Yevoniti. Tantissimi, a migliaia. Il mondo intero, mentre loro erano solo una piccola tribù della quale gli Yevoniti meditavano da tempo l’estinzione.

Li avevano spinti nel deserto, pensando che si sarebbero esistenti da soli. Ma gli Albhed erano un popolo nomade, abituati fin troppo ai cambiamenti. E così amavano la loro terra, avevano finito per stabilirsi nella loro cella, amandola e costruendosi un rifugio che potesse ripararli dalle ingiurie del mondo esterno. Eppure pareva che nemmeno ciò bastasse.

 

Si accovacciò per terra, stringendosi le ginocchia al petto e con il suo bastone tracciò un cerchio irregolare intorno alla sua figura, abbastanza grande per potersi sedere, ma incredibilmente piccolo rispetto alla sabbia di tutta l’isola di Bikanel.

La calda e amorevole dimora degli Albhed.

Era solo un’impressione quella di suo padre di essere al sicuro restano nei confini del Bikanel. Quel giorno, quando Cid le aveva fatto promettere di non andar mai via, avrebbe voluto dirglielo. Che pur restando nei confini della sua isola, pur rimanendo chiusa in quel piccolo cerchio nella sabbia, tutto ciò non avrebbe impedito agli Yevoniti di colpirla con le loro offese.

 

Rimase seduta nel suo piccolo cerchio per terra, comodamente abbracciata a se stessa, sotto la luce del crepuscolo, mentre ascoltava in silenzio le ingiurie che gli Yevoniti, da qualunque parte del mondo, le scagliavano contro. Quelle stesse parole dalle quali suo padre non avrebbe mai potuto proteggerla.

Né lei, né suo fratello, né il suo popolo intero, né tanto meno sarebbe mai riuscito a trattenerla nei confini del loro angolo, così come non ci era riuscito con la sua sconosciuta sorella, la zia della quale Rikku non avrebbe mai visto il volto.

 

 

 

   
 
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