Anime & Manga > Inuyasha
Ricorda la storia  |      
Autore: Arabelle Lee    01/11/2010    10 recensioni
E' una gift-fic per il compleanno di una persona a me cara. Ed è solo un piccolo gioco: cosa può accadere a una fan writer incallita che scrive sempre dello stesso personaggio?
Genere: Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Sesshoumaru
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Sì, sarebbe stata una brutta giornata

Sì, sarebbe stata una brutta giornata. Clementina lo aveva capito quando aveva tirato fuori il braccio dalla coperta per spegnere la sveglia e la sua mano aveva centrato la lampada. La lampada con Pikachu comprata da Mondo Otaku quando aveva otto anni era rotolata giù dal comodino e quando lei, completamente sveglia, si era sporta dal letto per prenderla, le era sfuggita dalle dita. La coda gialla di Pikachu  si era spezzata in tre parti e un orecchio giaceva mestamente sullo scendiletto.
Le labbra di Clementina si erano increspate e contratte.
Nossignori, sono troppo grande per piangere. Lo riparerò, si era detta, buttando via le coperte e cercando di mettere a tacere la vocina che frignava imperterrita nel suo cervello. Non è vero, non sei in grado di riparare un bel niente. Vai ancora in giro con il nastro adesivo sulle cinghie dello zaino, quelle che avresti dovuto ricucire da sola tre mesi fa.

Oh, sì: sarebbe stata una giornata davvero brutta. Andando a ritirare la sua felpa preferita dallo stendino Clementina aveva visto la grande macchia d’olio rifulgere, intatta, proprio sopra il ciuffo di Ryuzaki. Gesù, quanto era bello! Si era divorata tutta la serie di Death note almeno cinque volte e quella era la sua felpa preferita: il suo tesoro di felpa. Certo, non doveva portarla quando andava a cena fuori e magari non doveva mangiare le alette di pollo alla golden west del centro commerciale tenendosi così lontana dal tavolo. Però pensava che l’olio cotto fosse facile da mandar via. La porterò in tintoria, si disse, mentre la vocina ghignava che no, quando l’olio si fissava non c’era tintoria che tenesse.
Pessima giornata, si era detta ancora, poche ore dopo, quando aveva clamorosamente fallito l’interrogazione di storia, e per di più balbettando, tanto che la V di Visigoti era diventata una vvvv, inceppandosi come le pale di un ventilatore.

Pessima davvero.

Era il 31 ottobre, e sapeva che la metropolitana sarebbe stata affollata da adolescenti con corna rosse appuntate fra i capelli e ventagli di piume nere che sbucavano dagli zaini.
Anche Clementina era un’adolescente a tutti gli effetti, ma odiava Halloween, non sopportava l’idea di vestirsi di nero e di cacciarsi una parrucca viola sulla testa per  passare la notte schiacciata tra decine di corpi sudati in qualche casa lasciata libera dai genitori.
Infatti, non lo avrebbe fatto.
Sorrise, mentre si infilava correndo nelle porte della metropolitana, come chi sa qualcosa che nessun altro conosce e si senta fiero del privilegio. Privilegio era la parola giusta. Avrebbe festeggiato Halloween scrivendo del suo unico amore: unico e suo, perché nessuno lo avrebbe mai insidiato. Non una ragazza più bella di lei, non una distrazione, non il tempo. Il suo amore era chiuso – intrappolato, recintato, prigioniero! – nel recinto dei suoi sogni e lei era la sua signora. La padrona delle storie. La sua padrona.
Folla, nel vagone, come aveva previsto. Una donna con gli occhiali leggeva Twilight. Una grassona coi capelli tinti sospirava sulle notizie di Leggo. Un ragazzo con le gambe lunghe ascoltava Well well well sull’iPod.  Clementina si girò, in cerca di aria. Non erano ben due posti liberi, quelli che le sembrava di aver visto più avanti?

Non del tutto. I due sedili erano occupati da due enormi buste di plastica della Coop: nella prima c’erano quelli che sembravano metri di velluto viola, sporco come se fosse stato strofinato nella più nera delle carbonaie. Nella seconda, un faldone da ufficio con gli angoli di cartone rosicchiati. Nel terzo sedile, c’era la proprietaria delle buste.

Una barbona, pensò Clementina arricciando il naso. Una stronzissima senzatetto. Neanche tanto vecchia. Capelli rossi lerci incollati alla fronte, sotto il cappuccio della felpa, viola anche quella. Piedi neri infilati in finte Croc rosse. E le mani. Mani sottili, bellissime nonostante le croste di sporcizia sulle nocche e ai polsi, che si muovevano incessantemente in un movimento sempre identico, una curva gentile che partiva dall’alto e si inclinava a sinistra e poi appena a destra per poi tornare in alto seguendo una curva speculare alla prima.

Clementina ne seguì i gesti, affascinata. La metropolitana correva nella galleria, facendola dondolare sulle ginocchia. Faceva caldo. Chiuse gli occhi e si concentrò su quello che avrebbe fatto appena arrivata a casa. Una doccia, un panino e poi. Poi avrebbe scritto di lui.

Sesshoumaru.
Il demone dai capelli d’argento e lo sguardo di miele. Il cattivo-che-diventa- buono. Il personaggio più bello in cui si fosse mai imbattuta nella sua breve storia di lettrice. E di scrittrice, sissignori. Perché Clementina non era così egoista da tenere del tutto per sé il suo grande, incontrastato amore. Ne scriveva ogni giorno, raccontando le sue avventure che terminavano nello stesso modo: un tramonto rosa fragola dove Lui teneva fra i suoi artigli la mano di lei, Clementina. Nuovo personaggio, scriveva pazientemente nelle caselle del sito di fan fiction.

Le storie erano sempre le stesse: Clementina, con il fedele zaino nero riparato con il nastro adesivo, finiva nel mondo del demone. Lui la sdegnava, lei si inalberava per il suo comportamento, qualche pericolo la minacciava e lui interveniva per salvarla. Nasceva l’amore, fieramente avversato da entrambi. Infine, il demone cedeva al nuovo sentimento e le sfiorava le labbra con le sue. Cambiava l’epoca, si modificavano i dettagli, ma la storia, infine, era la stessa. Questa sera, per esempio, avrebbe ambientato la vicenda ai tempi dei Tre moschettieri. Sesshoumaru sarebbe stato Athos, il pallido e fiero e tormentato conte, e lei sarebbe stata una infine remissiva, e non sanguinaria, Milady. Pregustando la dolcezza di un abito di seta e di una pettinatura a boccoli, e pregustando ancor di più la visione di quegli occhi d’oro che si socchiudevano, ardenti di passione, prima di avvicinarsi ai suoi, Clementina sospirò.

Il suo amore. Il suo schiavo.

Un brivido gelato. Dalla nuca ai polpacci. Come se si fosse aperta una finestra e da quella finestra entrasse un turbinio di neve. Clementina si girò. Il finestrino della metropolitana era chiuso. Nessuno, peraltro, sembrava aver avvertito la ventata. Forse ho la febbre, si disse, battendo le palpebre. La luce sembrava più fioca, come se qualcosa non funzionasse nei tubi di neon sul soffitto del vagone.

Quando il treno entrò in una nuova galleria, svanì del tutto. Clementina urlò. Aveva paura del buio, le sembrava che senza luce qualcosa avrebbe strisciato verso di lei dagli angoli per divorarla. Si avvicinò, persino, all’uomo che leggeva le cronache sportive accanto a lei, stringendosi contro la sua spalla. Non accadde nulla. Gli altri passeggeri erano immobili, come se non fosse accaduto niente, come se il vagone non fosse fermo, privo di luce, in una galleria, come se lei non avesse urlato. Pietrificati, come statue, nel buio.

E nel buio scintillò una luce.

Era bianca e fredda, e danzava, in un movimento sempre identico, una curva gentile che partiva dall’alto e si inclinava a sinistra e poi appena a destra per poi tornare in alto seguendo una curva speculare alla prima. Clementina spalancò la bocca in una O di stupore. Le mani. Le mani della barbona brillavano. E, ora lo capiva, quella che le dita lunghe tracciavano era una mezzaluna. Identica a quella azzurra che era impressa sulla fronte del suo amore.

No…non del mio…

In alto e poi in basso e poi a destra.

Io non…

Sotto la mezzaluna, apparvero due occhi.

Io…

E poi a sinistra a in alto.

Io…

Due occhi d’oro, fiammeggianti di rabbia e disprezzo.

…non volevo…

Due occhi che fissavano lei, in modo orribilmente diverso da quello che aveva immaginato e descritto in centinaia di storie. Due occhi che non appartenevano a questo mondo. La osservarono per un tempo che sembrò infinito.

…non ho fatto niente di male, balbettò la mente di Clementina prima di annebbiarsi e oscurarsi e spegnersi come un fiammifero esposto al vento. Il suo corpo si afflosciò contro quello dell’uomo col giornale sportivo, che la guardò stupito, riscuotendosi da un’immobilità di cui non era mai stato consapevole. Anche la donna grassa e quella con gli occhiali si alzarono per sorreggere Clementina. La metropolitana arrivò alla stazione Cipro. Mentre dagli altoparlanti un uomo con la voce alterata chiedeva urgentemente di un medico, la barbona raccolse le sue buste e uscì. Salì le scale, arrivò in strada, respirò l’aria fredda della sera. Alzò gli occhi. La mezzaluna d’argento splendeva nel cielo nero. La barbona chinò la testa in segno di rispetto, accostò le nocche alle labbra, vi posò sopra un bacio.

“E’ tutto a posto, Signore”, mormorò, prima di sparire nella notte.

 

   
 
Leggi le 10 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Inuyasha / Vai alla pagina dell'autore: Arabelle Lee