Fictional Dream © 2006 (18 aprile 2006)
I L’Arc~en~ciel (nella prima formazione major, Tetsuya Ogawa,
Ken Kitamura, Hideto Takarai e Yasunori Sakurazawa, poi Yukihiro Awaji in luogo
di quest’ultimo) sono uno dei più celebri gruppi di musica rock-pop giapponese.
L’autrice non intrattiene con i succitati artisti alcuna
relazione di tipo economico-collaborativo.
Questo testo narra eventi di pura fantasia, destinati al
diletto ed all’intrattenimento di altri fans: non persegue alcun intento
diffamatorio (né pretende di dare informazioni veritiere sulle persone di cui
tratta) o finalità lucrativa.
Nessuna violazione dei diritti legalmente tutelati in merito alla musica ed alla
personalità degli artisti succitati si ritiene intesa.
L’intreccio qui descritto rappresenta invece copyright
dell’autrice (Callie Stephanides - http://fictionaldream.iobloggo.com). Non ne è ammessa
altrove la citazione totale né parziale, a meno che non sia stata autorizzata
dalla stessa tramite permesso scritto.
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Sotto la pioggia battente di un marzo umidiccio che puzza di
marcio, c’è un ragazzo senza ombrello, con i capelli troppo lunghi e gli
occhiali scuri. Abiti firmati, eccessivi, vistosi. Abiti che creano la maschera
rassicurante dietro cui si è trincerato da una decina d’anni, sin quasi a
dimenticare come fosse prima.
No: pensandoci bene, questo ragazzo è uno che non dimentica
niente. Non dimentica, non accantona, non rimuove: ordina.
È un ragazzo senza ombrello, sotto la pioggia di un marzo
deprimente.
Cammina sicuro, diritto, rapido malgrado le zeppe.
Cammina sicuro, diritto, rapido, malgrado tutti i suoi
problemi.
Di quando in quando si ferma a riprendere fiato, a scuotere i
piccoli cristalli che la tensione di ogni goccia crea sul castano morbido delle
sue chiome. Si sente stupido ad aver dimenticato il proprio ombrello, perché non
può proprio permettersi di raffreddarsi.
Non può permettersi di fermarsi, di riposarsi, di prendere
neppure un’insignificante infreddatura. Non sa perché sia convinto che se
abbassasse la guardia il mondo stesso finirebbe: sa solo che quando ha provato a
rilassarsi qualcosa è accaduto sul serio. E il suo mondo è finito comunque.
È stata un’idiozia non pensare che avrebbe piovuto. In questa
stagione è sempre così: prima dei ciliegi ci sono le piogge e Tokyo – che è
bella quasi solo di notte, quando non la vedi per quella che è, ma per come
l’immagini – puzza di qualcosa che è smog stagnante e nostalgia e traffico e
marcio.
Il ragazzo che non sa dimenticare, però, ricorda pure che non
gliene è mai importato niente, prima. Che Tokyo gli è sempre piaciuta, perché è
proprio come lui: falsa dalla prima all’ultima cellula. E provocatoria. E
ambiziosa. Il ragazzo riprende a camminare sotto gocce calde, per fortuna,
sempre più rade tra squarci d’azzurro in cui però non vede quello che cerca. Non
è da lui, che si sforza di razionalizzare quasi pure l’oroscopo, ma gli dei
danno segnali che non gli piacciono. Qualche debole raggio di sole filtra tra
cirri densi, ma l’arcobaleno non si vede. È come se non esistesse più.
Da nessuna parte.
Il ragazzo cerca in una vetrina conferme della propria
esistenza e quasi si rivede come dieci, anzi venti anni prima: accerchiato da
ragazzini come lui, molto più grossi e normali di lui. Ragazzini che gli tirano
sassi, gli strattonano la cartella, gli gridano qualcosa che proprio non riesce
a ricordare. È qualcosa che sfugge al suo ordine, forse perché è troppo
doloroso. Forse perché è quello che l’ha trasformato in ciò che è ora. O meglio:
che era. La paura con cui non vuole fare i conti è quella di tornare indietro. A
dieci, anzi venti anni prima: diverso, indifeso, umiliato.
Il ragazzo respira in profondità e cerca nel vetro opaco
conferme della propria esistenza: non ce n’è neppure una. Fino a poche settimane
prima il suo viso era ovunque, come ovunque era l’arcobaleno, che piovesse o
splendesse il sole. Ora sembra quasi sia stato tutto un sogno. Un sogno lungo
quattro anni. Ma solo un sogno. Il ragazzo senza ombrello, ma difeso dagli
occhiali scuri, respira in profondità. Si irrigidisce un po’ nei suoi vestiti
colorati e alla moda, ma riprende a camminare.
Non vuole fermarsi quanto smettere di pensare: sa solo, però,
che non può farlo. Che per quanto doloroso ed impietoso e pure ingiusto sia –
perché tocca sempre a lui? Perché è l’unico per cui non ci siano davvero pause,
day-off, spina-staccata, stronzate e normalità? – ha scelto con consapevolezza,
coraggio e orgoglio quel ruolo e non vuole tirarsi indietro. Il problema è che
ha troppe cose da fare. Troppi dettagli di cui occuparsi, sicché, a ben vedere,
il fatto abbia dimenticato l’ombrello non è poi così rilevante.
Il ragazzo è stanco e avrebbe quasi voglia di prendere un
taxi, ma ad arrivare farà sempre in tempo e forse neppure lo vuole davvero. La
realtà lo circonda e non sa neppure perché quella realtà voglia negare a tutti i
costi. Pensandoci bene sta imbastendo una specie di teatro di false tranquillità
più per ingannare se stesso che per impedire un suicidio. Il che, a ben vedere,
è quasi la stessa cosa.
Il ragazzo aspetta che il semaforo divenga verde e si domanda
se quella non sia una specie di metafora della sua esistenza, persistentemente
tesa ad attendere un fondamentale input di avvio. Una volta si è anche sentito
il grande manovratore: il campione di formula uno che brucia persino le tappe
del pit-stop e per cui sventola la bandiera a quadri come una specie di
benvenuto araldico. Ora non è più tanto convinto di aver visto giusto;
considerando lo stato disastroso della sua miopia, a ben vedere, c’è qualcosa di
persino grottesco in una simile osservazione.
Il ragazzo aspetta paziente che il semaforo divenga verde per
muoversi accanto a una folla impaziente e ordinata, che forse lo fissa con
sospetto per i suoi capelli ormai fradici, i suoi vestiti talmente alla moda che
parranno forse ordinari nel prossimo millennio e i suoi occhiali da sole, così
fuori luogo in una giornata che vuole invece l’ombrello che non ha.
Il ragazzo pensa che da tempo è abituato a sostenere quel
velato disprezzo, quella particolare inclinazione critica con cui lo squadrano e
che non si abituerà mai all’ipocrisia tutta giapponese delle maschere
convenienti. Ricorda che a tirargli i sassi erano tanti bambini più normali di
lui, mentre gli insegnanti erano sempre pronti a rifilare note all’adolescente
capellone che era, perché era molto più comodo che non ammettere i teppisti
fossero quelli con la divisa perfettamente allacciata e i capelli in ordine. Il
ragazzo sente quei brutti ricordi incunearsi come una spina dolorosa in una
ferita che probabilmente non si rimarginerà mai. Conoscerebbe anche un antidoto
efficace contro quella specie di desolato spleen, ma con lui non funziona per
niente.
Il ragazzo si muove assieme alla massa ordinata di individui
perfettamente aggiustati, eleganti e protetti dai loro ombrelli, pensando che
ancora una volta è solo, unico, stonato, e che nessuno si cura davvero di lui.
Nessuno si preoccupa neppure di riconoscerlo. Il ragazzo si sente meschino in
momenti come quelli e vorrebbe cancellare le sue sensazioni più basse e crudeli,
ma si dice che è una bella fregatura penare come sta facendo, se poi a
raccoglierne i frutti sono sempre gli altri. Ha costruito un arcobaleno che è
franato. Si è inventato un sogno che è finito. Ha acceso mille luci, ma non ne è
stato illuminato abbastanza. Dovrebbe essere un leader, invece si sente un
perdente.
Il ragazzo alza lo sguardo verso gli schermi al plasma di
Shibuya. Un pugno di giorni prima c’era ancora la voce dell’arcobaleno che
gridava nel vento la legge durissima e inaccettabile della verità e della
menzogna. Un pugno di giorni prima c’era anche lui, in un ruolo che non gli
somigliava per niente, ma che gli piaceva per quella specie di patina glamour
che gli cuciva addosso. Al ragazzo sfugge un mezzo sorriso e rammenta a se
stesso tutte le ragazze che non l’hanno mai guardato neppure per sbaglio e
quelle, altrettanto numerose, che l’hanno piantato. Un pugno di giorni prima, su
quegli stessi schermi, c’era invece una specie di puttaniere circondato da
bambole gonfiabili: donne belle come non gli è mai capitato di avere per quello
che semplicemente è. Pensandoci bene l’unica verità di quella maschera era la
smorfia amara incollata in luogo del sorriso.
Il ragazzo china il capo e pensa che sugli schermi ora
passano gli Shazna, o i Luna Sea, o i Glay o qualunque altro gruppo un tempo
abbia creduto di poter stroncare sul nascere. Non c’è riuscito: a un certo punto
l’arcobaleno è crollato. Anche se smettesse di piovere per sempre non c’è
speranza di vederlo spuntare di nuovo. Il gioco speciale di coincidenze e
rifrazioni e suggestioni totali e profonde sembra irripetibile. Tutto qui. Il
ragazzo pesca nella propria tasca il cercapersone e memorizza la sua tabella di
marcia. È già stato in almeno dieci posti diversi e ha vestito un centinaio di
ruoli di circostanza. Dovrebbe essere contento di tornare a casa, ma ormai finge
anche lì e, se possibile, si fa ancora più pena, perché sa che non gliene verrà
niente: in nessun caso. È il leader. Dunque è colpevole del disastro del gruppo
e di un disastro emotivo e, a questo punto, forse anche dell’estinzione dei
panda, del buco nell’ozono, della recessione che avanza e dello smog di Tokyo.
Il ragazzo pensa che probabilmente è per questo che non è mai
piaciuto a nessuno, perché racconta le cose per come sono, senza tentare smorfie
ruffiane o di farsi voler bene per quello che non è. Il problema è che la vita
non va per niente così. Tutti predicano l’onestà, ma quando se la trovano
davanti preferiscono voltarsi dall’altra parte.
Il ragazzo sa che è per questo che ha cominciato a farsi
crescere i capelli, a tingerli di rosso e a non fidarsi dei sorrisi.
Il ragazzo sa che è per questo che ha indossato la camicia
rosa il giorno dei suoi ventuno anni: per fargliela vedere a tutti quei
benpensanti che gli davano del teppista per i suoi colori, senza averli mai
visti sul serio.
Il ragazzo sa che avrebbe proprio voglia di un abbraccio vero
e che gli piacerebbe da morire tornare a casa da chi non l’ha mai giudicato
male, neppure se era strano o imbarazzante o diverso. Il ragazzo, però, sa che
tiene duro soprattutto per loro, perché è a loro – alla sua famiglia – che
dedica in primo luogo ogni successo. A loro ed a chi si preoccupa di ascoltarlo,
ancorché giudicare il suo look o la sua lingua tagliente o il suo carattere a
tratti spigoloso come il suo viso o i suoi occhiali da vista. Senza ombrello,
fradicio e stanco, il ragazzo si dice pure che il mondo è fatto solo di
superfici taglienti e quando provi ad attraversarle ti ritrovi a pezzi, per
quanto pure tu possa illuderti di essere solido e infrangibile. In fin dei conti
si dice pure che è stato il primo tanto disonesto da cercare per sé una parte
così impegnativa.
Forse troppo, per uno come lui: dove mai si è visto lo scemo
di Osaka che si inventa dal niente un arcobaleno?
Il ragazzo respira piano e cerca di nuovo il cielo oltre le
lenti scure. Le nubi si sono diradate, il sole che lo scalda di nuovo rende ora
ragione dei suoi occhiali e tra due grattacieli – pallida e un po’ inconsistente
– una piccola iride gli fa un timido saluto. Il ragazzo scuote i capelli come un
cane bagnato, pensando che non si raffredderà, perché non è tanto stupido da
fumare come qualche cretino di sua conoscenza, che i suoi vestiti avranno solo
bisogno di una buona tintoria – oppure potrebbe comprarne di nuovi. Perché no? –
e che ormai è proprio tempo di tornare a casa, ordinare qualcosa per cena e,
magari, fare pure una telefonata da troppo tempo rimandata: per parlare di
nulla, magari, ma per ascoltare un tetchan che sia finalmente privo di
doppi sensi o suppliche interessate.
Comunque sia, Tetsuya Ogawa sa che impiegherà un mucchio di
tempo a digerire quello che è successo e se proprio deve passare per il cattivo
della situazione, che almeno si ricordino di incollare a Sakurazawa la parte
dello stronzo: perché è il termine tecnico per indicare chi ha trasformato in
merda la pentola d’oro dello scemo di Osaka.
L’unica cosa davvero piacevole di quell’esilio coatto era
stata la Porche. Dovendo incollarsi l’etichetta di musicista e di leader di un
gruppo – una volta, almeno – famoso, non era nulla di professionale o
eclatante, ma Tetsuya Ogawa era tanto vicino al proprio limite di saturazione
per cercare distrazioni utili a contenere escandescenze dannose. La sua
distrazione era una bella macchina europea – di quelle costose, ma che importate
in Giappone divenivano proibitive, oltre che inservibili – che avrebbe dovuto
guidare solo per le riprese di un documentario promozionale, ma che era rimasta
disponibile per qualche altro giorno ancora.
Per qualche chilometro in più.
Tetsuya Ogawa amava guidare, sapeva di farlo particolarmente
bene – senz’altro con più stile di Takarai, che era fermo agli anni Cinquanta. O
di Kitamura, che andava al più bene per un film americano anni Settanta – e,
soprattutto, era consapevole del fatto pensare alla strada fosse un ottimo mezzo
per liberarsi da pensieri molesti. Pensieri che dal febbraio di quell’anno si
erano affastellati oltre ogni limite ragionevole, e sembravano non voler migrare
altrove.
Tetsuya aveva scalato la marcia con un gesto rapido, sicuro,
netto. I suoi movimenti obbedivano sempre a geometrie molto definite, quasi la
sua passione per la modellistica si fosse tramutata nel tempo in una specie di
dirittura comportamentale. Sicuramente qualcosa gli si era indurito dentro in
quei sette mesi: abbastanza da cambiarlo del tutto. Forse non necessariamente in
meglio.
L’autunno tedesco non aveva né colori né odori che potesse
paragonare a quelli che conosceva. Era sempre stato aperto alle novità, ma le
condizioni particolari di quella nuova esperienza – come doveva chiamarla
per ragioni pubblicitarie – bastavano a fargli montare una nostalgia prepotente
di tutto: persino dello smog di una città troppo recente e troppo brutta in
confronto all’opulenza antica dell’Europa. Era un settembre di rosso e di oro:
bello da dipingere, meno da ricordare.
Nessun esilio durava per sempre e il Giappone attendeva come
un’ideale fossa dei leoni. Non ne aveva davvero paura; c’era quasi una
rassegnata consapevolezza alla base. Il futuro dell’iride dipendeva dal
pubblico, dalla sua lealtà oltre le maschere. Da un’oculata strategia di
mercato.
Tetsuya Ogawa aveva socchiuso le palpebre e individuato
all’orizzonte quel che cercava. Aveva rallentato ancora, passando dalla quinta
alla quarta, con fluidità e controllo. Fluidità e controllo.
Un cazzo.
Marketing.
Contava più del talento, più della musica, più di tutti loro.
Marketing.
Un tossico non era un problema di note ma di immagine, per
esempio.
Il fatto True fosse alla testa dell’Oricon,
all’improvviso, non significava più nulla. Bene. Benissimo.
Marketing. Per ragioni di marketing era importante dare un’aria di
novità e di svecchiamento e di costruzione di nuove icone. Tetsuya Ogawa si era
lasciato sfuggire un sorriso tirato e un po’ cinico, che a ben vedere nascondeva
una quantità di sentimenti nerissimi e ben riposti. Era meravigliosa la quantità
di parole con cui una produzione tentava di darti il benservito, tenendosi
stretto l’essenziale.
E l’essenziale, per la Ki/oon, era quel nanerottolo con il
vocione che avrebbe fatto il barista, se lo scemo di Osaka non si fosse
preso la briga di trasformarlo in quella troia egocentrica che si era mangiata
tre quarti dell’arcobaleno. Per esempio. Comunque la Ki/oon fingeva buone
intenzioni e a tutti aveva fatto comodo nicchiare. Tetsuya Ogawa aveva persino
evitato, con molta diplomazia, di commentare il bel servizio monografico di
Shoxx: un monografico su Takarai, con tanto di baffi e completo da mafioso.
La Sony pensava di annichilire lo spettro di Sakurazawa,
virilizzando l’amorevole fidanzatina del batterista? Grandioso.
Peccato haido avesse pure l’espressione di un cocainomane
arrivato al capolinea: il che, a ben vedere, non aiutava a migliorare di molto
l’immagine pubblica del gruppo. Se n’era accorta pure la produzione, che non a
caso si era messa in testa di girare quel bel making rassicurante,
costruito ad arte per mostrare tre bravi ragazzi che pensano solo alla musica e
a una vita sana.
Un cazzo.
Tetsuya Ogawa si era concesso un altro bel respiro, senza
distrarsi e senza perdere di vista la strada. Non aveva voglia di sorridere, di
farsi fotografare, di concedere interviste. Malgrado tutto doveva farlo e si
vedeva. Non poteva reprimere una specie di sordo disgusto tutte le volte in cui
si trovava a fissarne le stampe. Non poteva recriminare, perché sua – e solo sua
– era la responsabilità della faccia che si ritrovava. Al più poteva prendersela
con Ken, che aveva il dovere ontologico di impegnarsi un minimo nella recita, ma
non poteva farlo, perché Kitamura avrebbe potuto rinfacciargli la laurea che non
aveva preso, per i sogni dementi di un idiota che aveva reclutato un eroinomane
per la propria batteria.
Su haido era meglio stendere un velo pietoso.
Gli voleva bene, lo odiava fino a volerlo ammazzare e gli
faceva pena in eguale misura.
Sembrava un cane bastonato – sui coglioni, avrebbe
aggiunto Ken, che su certi dettagli mirava al cuore del problema – con
l’aggravante di non vergognarsene neppure un po’. Lo invidiava e l’avrebbe preso
a calci per la stessa ragione. Non era escluso, del resto, prima o poi lo
facesse. Poteva persino accadere a minuti. Aveva scalato ancora, rifuggendo la
tentazione più spaventosa del mondo: quella di accelerare all’improvviso e
fargli sperimentare quel che aveva sentito Tetsuya Ogawa, quando l’adorato
Yacchan aveva mandato tutto a puttane. Piombare alle spalle di quel puntino nero
che filava veloce sulla mountain-bike, caricarlo e schiacciarlo e cancellarlo.
Fine.
Ma non l’avrebbe mai fatto. Aveva voglia di perdere la
pazienza, di insultarlo, di rinfacciargli mesi e mesi di insonnia e assistenza
psicologica ininterrotta e babysitteraggio gratuito: quello sì. Niente di
diverso. Tetsuya Ogawa aveva socchiuso gli occhi, pensando a notti infinite,
lacrime isteriche, scene ch’era meglio restassero nell’oblio più assoluto,
perché non c’era proprio fanservice le giustificasse.
Si era sentito molto necessario e molto padrone e persino
quasi soddisfatto in quel contesto, perché la debolezza totale e rassegnata di
Hideto somigliava quasi a un rinnovamento delle consegne e della sua forza.
Eppure si era sentito egualmente toccato ed egualmente sconfitto e spesso
arrabbiato: soprattutto per l’egoismo senza rimedio di Takarai.
Già, perché anche se non faceva che lacrimare e non mangiare
e aggrapparsi a lui e mormorare i suoi queruli ‘Grazie, Tetchan’, era
ancora pieno dei suoi ‘Yacchan starà bene?’ ‘Che farà, Sakura?’,
senza il minimo rispetto per chi si era trovato a rimediare a tutte le stronzate
del suo caro Yasunori, rimettendoci la faccia, il rispetto per se stesso e la
credibilità di un sogno.
Invece niente: Ogawa era quello cattivo e quello carrierista
e quello insensibile e quello che dimenticava gli amici. Poi, però, quando c’era
da fare i divi, Takarai correva in prima fila con il broncio da troia. Ecco come
stavano le cose. Guai a dirlo, però: se osavi soltanto, esplodeva lo
psicodramma. E nello psicodramma la colpa ricade solo su chi urla di meno.
Tetsuya aveva inforcato gli occhiali da sole per difendersi
dal riverbero, mentre la schiena sottile di Haido, curva sul manubrio, era ormai
visibile.
Awaji resisteva solo per passione, calcolo individuale e per
l’insano ottimismo di chi spera d’essersi sbagliato: di non lavorare, cioè, per
una band di malati di mente. Ken avrebbe consumato l’attesa fumandoci su e
rincorrendo pensieri che non divideva con nessuno.
Magari era una specie di ripicca.
Kenchan adorava Sakurazawa.
Lo stronzo, a ben vedere, era sempre lo scemo di Osaka:
quello che provava a far quadrare i conti, che chiamava le cose con il proprio
nome, che faceva incazzare la diva, ma correva pure a riprenderla. E non
dormiva la notte per starla ad ascoltare. E non viveva più, per ricostruire un
arcobaleno fatto a pezzi.
Lo scemo di Osaka. Proprio uno scemo.
Aveva accelerato, superando senza difficoltà la
mountain-bike. Takarai l’aveva ignorato.
Era lo stesso bambino viziato che preferiva ammazzarsi nei
fossi, piuttosto che ammettere una sconfitta.
Un deficiente irresponsabile, infantile, rompiscatole: una
palla al piede. A essere assurdo era forse il fatto ci fosse qualcuno pronto ad
affermare dovesse sentirsene pure onorato.
Molto divertente. Sul serio.
Aveva frenato, chiudendo la strada di campagna. Si era
sfilato la cintura, prima di scendere e appoggiarsi con indolenza contro lo
sportello. Aveva avvertito lo stridere dei freni della bicicletta, lo schizzare
quasi provocatorio e violento della ghiaia sotto le ruote.
Takarai era furioso: bastava guardare la forza con cui si
mordeva le labbra per intuire la quantità feroce di insulti che non osava
neppure pronunciare.
“Smettila di comportarti come un bambino. Ken e Yukki ci
stanno aspettando.”
“Non torno indietro. Neppure se mi chiedi scusa.”
Aveva spiegato le labbra in una specie di sorriso sarcastico.
“Perché dovrei chiederti scusa? Perché ti ho detto che solo
un deficiente difenderebbe Sakurazawa? Perché ti ho ricordato che se ci troviamo
in questa situazione è solo per merito suo e di chi è ancora tanto idiota da
trovargli giustificazioni?”
haido era sceso dalla bicicletta: teso, contratto, rabbioso.
Aveva fatto per aggirarlo, ma l’aveva afferrato per un braccio; era ancora
troppo sottile, infantile, patito sotto la brutta pelliccia di un cappotto
inguardabile.
“Rispondimi,” gli aveva detto con violenza.
“Tu non sai un cazzo, Ogawa. Di me, di noi, di niente.
Tieniti i tuoi giudizi e lasciami in pace.”
Non aveva sciolto la stretta: l’aveva piuttosto tratto con
più urgenza ancora nella sua direzione.
“E tu cosa sai di me, Doihachan? Tu quante volte sei stato ad
ascoltarmi?”
Takarai aveva chinato il capo, senza dire niente.
“Non m’importa se agli occhi di tutti passo per quello che se
ne frega. Non m’importa delle etichette appiccicate a caso da un pugno di
dementi che guarda, invece di ascoltare. Non m’importa. Ma non ti permetto di
pensare questo di me. Tu non puoi proprio farlo, Doihachan.”
Aveva chiuso gli occhi, singhiozzando. Con timidezza,
dapprima, poi con convinzione crescente, aveva sentito le dita di Haido sfiorare
i suoi capelli e accarezzarli con una specie di confusa timidezza.
“Non piangere, tetchan. Io ti voglio bene. Anche se sei
scemo, io ti voglio bene.”