Fictional Dream © 2006 (30 agosto 2006)
I La:sadie’s-Dir en grey (Tooru “Kyo” Niimura - vocalist/Kaoru
Niikura - prima chitarra e leader/Daisuke “Die” Andou - seconda chitarra e
chorus/Toshimasa “Toshiya” Hara - Basso [nei La:sadie's, Kisaki]/Shinya Terachi
- batteria e percussioni) sono uno dei più famosi gruppi di musica hard rock/visual-kei
giapponese.
L’autrice non intrattiene con gli artisti succitati alcuna
relazione di tipo economico-collaborativo.
Questo testo narra eventi di pura fantasia, destinati al
diletto ed all’intrattenimento di altri fans: non persegue alcun intento
diffamatorio (né pretende di dare informazioni veritiere sulle persone di cui
tratta) o finalità lucrativa.
Nessuna violazione dei diritti legalmente tutelati in merito alla musica ed alla
personalità degli artisti succitati si ritiene intesa.
L’intreccio qui descritto rappresenta invece copyright
dell’autrice (Callie Stephanides - http://fictionaldream.iobloggo.com). Non ne è ammessa
altrove la citazione totale né parziale, a meno che non sia stata autorizzata
dalla stessa tramite permesso scritto.
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Nel suo realismo senza speranza mi aveva sempre ricordato –
meglio: amichevolmente consigliato – di restare con i piedi ben piantati in
terra.
Non ho mai capito se lo facesse perché stavo crescendo
(tanto. Suppongo troppo per i suoi gusti), perché voleva proteggermi o perché
gli sarebbe piaciuto contaminarmi con quel suo cinismo così disperato, a tratti.
Così perbene.
In Giappone è qualcosa che conta davvero: essere perbene.
Essere come tutti gli altri.
Mi dibattevo tra le maglie del rispetto e del desiderio:
chiedevo d’essere solo me stesso. Soprattutto mi domandavo se non sarebbe stato
meglio nascere donna a quel punto: almeno nessuno avrebbe confidato abbastanza
nella mia intelligenza da prendermi sul serio. Forse sarei stato un po’ più
libero.
Per la verità, poi, le ragazze che conoscevo non erano per
niente stupide: erano molto più pronte di me a non chinare la testa e a non
farsi ingabbiare in un ruolo. O forse non avevano un padre come il mio: perbene
e attento e severo.
Proprio come un buon giapponese.
Tutte le volte in cui la sua voce mi richiamava all’ordine
- Hara Toshimasa: mi chiamava così. Come avrebbe fatto un professore di liceo –
qualcosa di freddo mi scivolava lungo la schiena: gli volevo bene e lo
rispettavo. In un certo senso non avrei mai saputo come scusarmi per non essere
perfetto. Per essere invece tanto lontano dal figlio che forse voleva: ero
troppo alto e non tenevo i piedi ben piantati in terra. In quello stesso periodo
non ero il solo ad avere quel problema, ma da ragazzi si è abbastanza egoisti da
credersi unici. Probabilmente anche mio padre pensava fosse l’ennesima disgrazia
abbattutasi sulla nostra famiglia avere un figlio che si era del tutto bevuto il
cervello.
Un figlio che, da un giorno all’altro, si era messo a fare il
musicista.
Un figlio che giocava con il taglio e cucito e voleva fare il
designer o lo stilista.
Per la verità credo non nutrisse particolari speranze in me
da quando mi aveva visto giocare con la figlia della vicina. Avevo tre o quattro
anni e non mi sembrava spaventoso inginocchiarmi a terra, con una bambola in
mano da vestire e da pettinare. Era divertente e innocuo. Avevo tra le gambe una
piccola coda che mancava alla mia amichetta: al più pensavo di dover essere
gentile per compensare la disgrazia che l’aveva colpita. Per la prima volta in
vita mia – la prima, beninteso. Non l’ultima – capii fisicamente il significato
della parola ‘ceffone’. Evidentemente un giapponese perbene faceva
discriminazioni sulla base del contenuto delle mutandine: era bene me lo
ficcassi in testa da subito. Per quanto rispetto nutrissi nei suoi confronti,
non ero del tutto persuaso di quelle ragioni.
Della scuola imparai così a inghiottire le ipocrisie di
facciata per godermi il resto: potevo cioè giocare quanto volevo con le mie
piccole amiche.
I colori di quei giorni – non so perché, ma non ne resta che
un rosso acceso, autunnale – sono sbiaditi con una facilità sorprendente,
sommandosi alle consapevolezze che, un centimetro dopo l’altro, avrebbero dovuto
separarmi dal bambino che ero.
Forse ero troppo alto perché mi dessero fastidio, oppure non
erano ancora del tutto convinti che non fossi una donna: mio padre nicchiava, ma
nel suo cuore credo temesse non fossi normale come voleva. A furia di
trastullarmi con le femmine, cioè, ne fossi stato contaminato.
Hara Toshimasa, cresci.
Hara Toshimasa, tieni gli occhi aperti.
Era il suo modo per proteggermi dalla vita e spaventarmi con
il tono della sua voce: perché gli volevo bene e al contempo sapevo che non
sarei mai stato come lui. E come voleva. Forse una sua copia obbediente e
perfetta come un automa. Capita. A tratti ti viene da pensare sia quello che
cerca un genitore e tu non puoi fargliene una colpa.
Crescendo, in ogni caso, avevo perso un po’ di paura e un po’
di pudore: anche se arrivava uno schiaffo e gli occhi mi bruciavano, poco alla
volta, realizzavo che sarebbe finita. In un modo o nell’altro, cioè, avrei
smesso di essere solo un figlio.
Solo Hara Toshimasa.
A dire la verità, forse per il modo in cui era stato sempre
pronunciato, cominciai a non riconoscermi neppure in quel nome, che mi faceva
scattare sull’attenti persino quando mi ripromettevo di fingere indifferenza.
Sulla scena underground di Nagano e poi con i Gosick ero
Toshiya. Molti erano convinti fossi una donna: se ero in vena di giocare, non
aprivo bocca e mi tenevo stretto l’equivoco. Era qualcosa che mi riportava
indietro ai giorni rossi e dorati che avrei dovuto dimenticare. Non ero il solo
cui accadesse: nelle visual-kei era piuttosto la regola. Più somigliavi a una
donna, poi – a una bella donna – più ti guardavano. Suonavo il basso per un
equivoco talmente stupido da suonare imbarazzante: mentre c’era chi lo sceglieva
per il fatto fosse uno strumento difficile e da virtuosi, pensai di dedicarmici
perché aveva meno corde di una chitarra. Ergo – nella mia visione distorta della
sua cassa armonica – doveva essere pure più facile da suonare. A furia di
impazzire su ogni arpeggio, però, ero diventato bravo (o così dicevano). Per mio
padre mi ero montato la testa e avrei dovuto pensare a un lavoro vero. Per mio
padre, cioè, un giapponese perbene non rientrava alle cinque del mattino con le
guance ancora rigate da un eyeliner di poco prezzo, che colava con il sudore
sotto i faretti dozzinali di una brutta live-house.
In quei momenti, però, quando Hara Toshimasa era Toshiya,
inguainato di pelle ed esposto allo sguardo ammirato di qualcuno che non pensava
al contenuto delle mutande e agli stereotipi conseguenti, quanto a quel che
suggeriva un basso, trovavo un posto nel mondo che avevo cercato. Ero un pesce
colorato in un acquario pieno di miei simili: oltre i bordi, privo dell’ossigeno
dell’unico luogo mi appartenesse davvero, sarei morto soffocato. Soprattutto,
poi, non ero solo e non ero diverso: ero uno tra i tanti, entro il metro di una
normalità che ci eravamo inventati tutti. Tutti quanti: forse stanchi di
sentirci dire che eravamo quelli sbagliati.
Avevo diciannove anni la prima volta in cui sentii parlare
dei La:Sadie’s. Il mio era un mondo di voci, di note, di passaparola: dicevano
che il cantante aveva una voce più alta di quella di Kiyoharu dei Kuroyume.
Persino il sottoscritto – che nei sogni credeva eccome – pensò fosse la solita
esagerazione con cui le band indie tentano di darsi un tono. C’era sempre uno
che cantava come Kiyoharu, come Baki o come Morrie. C’era sempre uno che suonava
la chitarra come hide o la batteria come Yoshiki. C’era sempre qualcuno,
insomma, che somigliava a qualcun altro, e poi non diventava davvero nessuno.
Be’, non era del tutto vero. C’era anche chi cantava come
Baki e come Morrie, per diventare poi molto più famoso, e riempire il Budokan
fino all’ultima rastrelliera.
Al tempo stesso il passaparola ha qualcosa di attraente e
unico: ti costringe a guardarti intorno. Se non a fidarti, a pensare che
potresti conoscere qualcuno piuttosto interessante.
Fu esattamente quello che capitò.
Era il tipo più truce avessi mai incontrato – io, che pure
trascinavo il mio basso tra soggetti che mio padre non avrebbe certo detto
raccomandabili. Non era tanto il suo aspetto a farti tremare, quanto la sua
aura: era quel genere di ragazzo che il buonsenso ti consiglia di evitare. Non
potrei dire fosse simile a quei bulli che ti pestano nel ballatoio di un liceo:
quelli sono seccature, non spaventosi. Forse la sensazione più vicina al mio
disagio era il brivido che mi correva lungo la schiena, quando mio padre mi
chiamava Toshimasa.
Hara Toshimasa.
Trasudava la più sfacciata sicurezza avessi mai visto, senza
muovere un solo muscolo del viso. Aveva i capelli lunghi, tinti di un colore
improbabile, e abiti adatti a un lugubre straccione, come avrebbe detto un
giapponese perbene: eppure non c’era niente di ambiguo nella sua mascella dura e
squadrata e nel naso deciso, mezzo nascosto da una frangia che avrebbe
pacificato mio padre con quella che pensava fosse l’indecenza dei miei capelli.
Un pomo d’Adamo prominente e una corporatura sottile eppure stagna, decisamente
ben piantata in terra, completavano il profilo di un chitarrista sconosciuto,
che si aggirava tra le transenne del parco in cui dovevamo suonare – una jam
session indie, di quelle in cui speri sempre qualcuno ti noti. Qualcuno che sia
quello giusto, almeno – quasi già ne fosse il padrone. Non riuscivo a staccargli
gli occhi di dosso, anche se avevo il terrore lo realizzasse e mi apostrofasse
come quello che ero: uno sfacciato importuno. Non a caso, quando lo vidi puntare
deciso nella mia direzione, con quella sua espressione impenetrabile e la sua
aura nera, mi dissi da solo: ‘D’accordo, Hara Toshimasa, se ancora non ci ha
pensato tuo padre, stavolta qualcuno ti farà davvero il culo’.
Non era carino da dire, ma sembrava il tipo a cui sarebbe
riuscito benissimo e senza pagare uno yen.
‘Scusa, accendi?’ mi disse invece, con un accento che non era
quello delle mie parti. Mild Seven Light, pensai. Come dettaglio mi sembrava più
rassicurante che se avesse estratto una Lucky Strike, anche se non c’era nessuna
valida ragione per dirlo. Tirò una lunga boccata soddisfatto, prima di guardarsi
intorno e chiedermi a bruciapelo – senza realizzare deglutissi in modo pietoso e
non vedessi l’ora di togliermelo di torno – ‘Sai chi comanda, qui? Chi è che ha
organizzato tutto?’. Gli indicai i responsabili del campo con un cenno secco.
Non avevo fretta di trattenerlo, ma neppure riuscivo a lasciarlo andare del
tutto. Non avevo mai incontrato un musicista simile: uno che fosse già così
quadrato sicuro determinato fin dagli esordi.
E non per posa, di quello ero sicuro.
Ne ebbi la prova poco dopo, quando davvero avvicinò uno dei
produttori annoiati che seguiva la scaletta delle entrate. Non era alto come me,
ma aveva una statura significativa per un giapponese e quello sguardo che
avrebbe sciolto pure le nevi del Fuji. Eppure la paura lasciò spazio a
un’ammirazione profonda, quando lo sentii scandire – una voce gelida,
controllata persino nella rabbia – ‘Non ci sottovalutate. Noi diventeremo
davvero famosi’. Un ragazzo alto e massiccio, dai lunghi capelli di un rosso
acceso, lo afferrò per un braccio. ‘Non ti scaldare, Kao, che poi Kisaki s’incazza.’
Si chiamava Kaoru. Kaoru Niikura. La sua tecnica di chitarra
era sorprendente, ma non valeva la potenza della sua personalità. Ti intimidiva
senza dirti nulla. La musica poteva sfiorarlo e solo con il suo permesso, perché
era lui a darle vita. Non era la sola luce, in ogni caso, tra faretti
scalcinati: i La:sadie’s avevano davvero qualcosa di speciale.
Tutta Nagano, sentendoli suonare, se ne accorse. Anche quel
loro cantante strambo, nei fatti, padroneggiava uno strumento miracoloso: la sua
voce possedeva arpeggi indimenticabili. Ero intimidito al pensiero toccasse poi
a me rivelarmi per quello che ero, ma anche grato per la lezione che mi avevano
impartito.
Poi, con calma, avrei tentato di rimorchiare la loro
batterista.
Il destino non è mai lineare e a volte ho il sospetto che si
diverta con poco.
Stavo riponendo il basso, quando qualcuno mi batté sulla
spalla. Questa volta aveva una t-shirt anonima, un paio di jeans e, sotto la
frangia troppo lunga, un paio di occhiali da vista, ma la sua aura potente era
rimasta immutata.
‘Sei bravo, anche se il tuo gruppo non è granché. Bevi
qualcosa con noi?’ mi disse con quella sicurezza che sentivo ora serpeggiare
sulla mia pelle, come una corrente irresistibile. Non era il tipo abituato a
sentirsi dire di no e, se anche fosse capitato, avrebbe inteso quel no a modo
suo. Come un assenso, cioè: o qualcosa di prossimo.
Fu una serata strana e memorabile insieme, anche se la loro
batterista era un ragazzo.
‘Lo so che è difficile crederlo con quel musetto, ma ci sono
cascato anch’io’ rise Die, la loro seconda chitarra.
‘Certo, stronzo. Per te basta che uno respira’ fu il commento
alquanto seccato di Shinya, tanto androgino che l’avrei quasi presentato a mio
padre per fargli capire che non ero poi l’unico figlio imbarazzante al mondo.
Kisaki, il loro bassista, era troppo silenzioso per essere il leader: per quanto
poco li conoscessi, cioè, avevo già captato come la corrente dell’ordine e del
potere si avvolgesse piuttosto attorno a Niikura. Sul momento, in ogni caso, non
me ne preoccupai: mi sentivo bene, immerso sino all’ultima cellula in
un’atmosfera che mi apparteneva e mi infondeva una straordinaria sicurezza.
L’unico rimpianto era pensare che ci saremmo persi di vista, perché il mondo
delle note, a tratti, non lasciava che un’eco impalpabile anche dei sentimenti
migliori.
Mi sbagliavo, però.
Tornai a casa che erano le sei e mezza del mattino. Mio
padre, in giacca e cravatta come ogni giapponese perbene, depose la colazione
per darmi uno schiaffo più forte del solito, senza una sola parola. Senza
neppure chiedermi dove fossi stato. Avrei voluto raccontargli la soddisfazione
della notte appena passata, ma non avrebbe capito. Non era cattivo, ma per certi
versi era quasi fosse sordo e cieco, come altri adulti già incasellati in una
routine grigia, cioè, rifiutava di considerare un mondo che non fosse monotono e
uniforme.
Rosso, magari, come i capelli di un chitarrista di passaggio.
Non sentii il dolore, né l’umiliazione: ero ancora pieno
della forza che avevo assorbito sul palco. Ne avrei desiderata ancora. E ancora.
E ancora.
Nel gennaio del millenovecentonovantasette, Kisaki abbandonò
i La:sadie’s. Poco meno di un mese più tardi – quando neppure ricordavo di
avergli dato il mio numero – Niikura mi chiamò. ‘Ciao, sono Kao. Ti ricordi di
me?’ Gli mancava un bassista per conquistare il mondo: quanto a me, non vedevo
l’ora di essere conquistato. Tutto qua.
“Oh, cazzo! È lui! È proprio lui!” aveva rantolato Die,
mentre tentava di asciugarsi quelle lacrime troppo ilari che, al dunque,
avrebbero rischiato di denunciarlo.
Shinya gli aveva strappato di mano un foglietto spiegazzato,
concedendosi un secondo per capire e molto meno per soffocare una ridarella
contagiosa. Kyo, recitando come al solito nel suo tono più tragico, aveva
liquidato l’intera questione con un “Ti ucciderà. E sarà anche molto doloroso”
che Toshiya non aveva alcuna ragione di credere non potesse contenere una
qualche verità fondamentale, perché da quando i Dir en Grey erano stati fondati
non aveva ancora trascorso abbastanza tempo con Kaoru da comprendere quanto
solido fosse il suo senso dell’umorismo. Sospettava in ogni caso fosse più
prudente che le sue caricature – soprattutto se concentrate su di un leader
carismatico almeno quanto terrificante – restassero occultate tra i tabs del
basso.
Un pugno di giorni e non aveva ancora memorizzato in modo
abbastanza efficace le tracce dell’album cui avrebbe dovuto dar voce, offrendo i
propri arpeggi alla formidabile cattedrale sonora che quei quattro avevano
allestito prima ancora di reclutarlo: per quanto difficile fosse pronosticarsi
un futuro, Toshiya era convinto di aver seguito una corrente favorevole. Un
feeling immediato e totale, che la consapevolezza dei rispettivi limiti non era
in grado di minare, e il sentimento profondo di una missione che nessun altro
aveva scelto di assolvere – Basta con le canzoni d’amore. Dove cazzo è
l’amore qui intorno? Voi lo vedete? provocava il prophet dal palco. E aveva
ragione – gli bastavano a tollerare la noia dei lunghi viaggi in treno, delle
prove in studi scalcinati, dei trasferimenti continui.
Le dita contro ogni corda del basso, a limarne la voce più
modulata e profonda, Toshiya si sentiva ovunque a casa e credeva in quel che
concorreva a creare. I testi di Kyo erano crudeli, erano difficili: erano
poesia. Tutte le sue sensazioni ribelli e trattenute, frustrate da un’educazione
asfissiante e da un Paese più opprimente ancora, trovavano infine una voce. In
poco più di un metro e mezzo di carne c’era l’oracolo che avrebbe svegliato il
Giappone. Se l’amore non era da nessuna parte, se ovunque non c’erano che
catene, se l’esistere quotidiano non era che una lunghissima apnea senza scopo,
da qualche parte qualcuno avrebbe smesso di sentirsi solo, perché la sua lotta
angosciosa per la vita sarebbe esplosa nelle note di un inno collettivo.
Toshiya voleva entrare nelle corde di quella melodia.
A prezzo di tutto.
A prezzo della sua stessa libertà.
Tornare a casa dopo qualche giorno di assenza gli procurava
sempre una strana sensazione, quasi la gioia persino un po’ ansiosa del rientro
si fondesse al timore di inciampare in quella che poteva essere l’unica realtà
possibile: le catene dell’intransigenza paterna. Per un poco, forse vedendo nel
basso un hobby meno pericoloso di quelli che sapevano attrarre ragazzetti come
lui, suo padre aveva nicchiato. Non aveva smesso di ricordargli come fosse fatto
un giapponese perbene, stilando una teoria di nomi di vecchi compagni o
conoscenze superficiali ch’erano approdati da qualche parte.
Toshimasa, invece, che aveva già vent’anni, cosa pensava di
fare?
Toshiya meditava una risposta che non sarebbe piaciuta a
nessuno. Cominciava con un atto di ribellione neppure molto originale – Kyo si
chiamava Toru, per dire. Ed era davvero un bambino quando si era ribattezzato da
solo – ‘Non mi chiamo Toshimasa. Adesso sono Toshiya’ e proseguiva
con una tirata sul valore della musica. Un valore vitale e sentimentale.
Ovviamente tutto era perfetto solo nei suoi sogni, in cui ciarlava con la
sicurezza di Die e il gelido controllo di Kaoru: fantasie in cui l’aura potente
che l’aveva convinto fino in fondo della bontà del suo sogno diveniva la sua e
vinceva ogni resistenza. In concreto non sapeva come raccontarsi a chi l’aveva
generato e mantenuto per due decadi senza sentirsi indegno o schiacciato. A
tratti Toshiya si chiedeva se il problema non fosse proprio l’esser nato
giapponese. Fosse stato inglese o tedesco, chissà? Magari nessuno avrebbe
sindacato sulla libertà di sognare e di illudersi. Kyo, però, in qualche modo
gli suggeriva di stare in guardia: lo faceva proprio nelle sue canzoni
disperate, che non se la prendevano con nessuno in particolare, se non con un
colosso che abbracciava il mondo intero ed era la stessa società che avrebbe
guardato sempre troppo l’ostrica per accorgersi della perla.
Kyo era un lottatore ed un profeta. Kaoru, un pilota Gundam e
uno stratega. Die era un giullare di corte troppo intelligente per non
raggirarti. Un Rigoletto di quasi centottanta centimetri, dai capelli rosso
fuoco come la sua energia. Shinya era una specie di Gioconda che ti fregava
anche solo con la sua apparente imperturbabilità. Toshiya, troppo scoperto,
eppure chiuso negli egoismi di un piccolo acquario sognato, forse avrebbe dovuto
crescere e accorgersi che senza una maschera la carne era vulnerabile e avrebbe
sanguinato con ridicola facilità.
“Ho rimediato un paio di serate per il fine settimana” aveva
scandito laconico Kaoru, mentre Toshiya faceva scivolare tra le dita di Die un
bigliettino in cui lo ritraeva con un mitra al posto della solita Mild Seven.
“Il posto è un po’ fuori mano, ma c’è abbastanza spazio per raccogliere un po’
di gente. E… Che avete da ridere voi due?” Toshiya era sussultato, liquidando il
grugnito con un cenno vago. “Niente. Niente. Dove dormiamo?” Kaoru aveva
lanciato un’occhiata piuttosto significativa all’altro chitarrista, riducendolo
al silenzio. “Per terra. Procuratevi un sacco a pelo, anzi. Non siete mai stati
in campeggio?”
“Quello è proprio un criminale di guerra” aveva borbottato
Die, mentre lo accompagnava alla stazione di Osaka. Prima o poi avrebbe dovuto
prendere in considerazione l’ipotesi di trasferirsi, ma i soldi erano ancora un
miraggio piuttosto lontano per farne il potenziale veicolo di una qualche
indipendenza. Toshiya aveva riso, con una complicità senza malizia e con la
spontaneità che non era mai stato in grado di soffocare. Era vero: Kaoru era
imperativo in modo inquietante, ma possedeva anche lo stile di chi non si
sarebbe fermato davanti a nulla, perché al dunque la sua legge interiore
dominava gli eventi senza esserne mai schiacciata. Aveva trattenuto in sé la
profonda sensazione di benessere che le prove sapevano comunicargli finché non
era stato in casa. Sul momento non c’erano state né recriminazioni né rampogne.
In qualche modo si era preparato a ricevere almeno la manesca disapprovazione
paterna, ma poteva darsi un po’ di buonsenso fosse trapelato nelle maniere
spicce e grette di chi credeva ancora alla logica della pura e semplice
prevaricazione.
Aveva ascoltato un po’ di musica, riposto il basso e
realizzato di dover sostituire almeno un paio di corde, usurate da un uso e un
abuso sconsiderato, da che si era trovato tra le mani le composizioni di Niikura.
Solo in un secondo tempo l’idea del campeggio l’aveva raggiunto, come una specie
di pensiero strambo e felice.
Campeggio.
Poco ma sicuro, in mancanza di soldi, Kaoru li avrebbe fatti
dormire sulla spianata del concerto. Era da lui: lo stesso che era riuscito a
far credere ai suoi d’esser diventato castano per il cloro della piscina, quando
sarebbe annegato in due centimetri di pozzanghera.
Era ancora intento a frugare nel ciarpame del garage, alla
ricerca di quelli che potevano essere i residui di un’infanzia non troppo
lontana, quando suo padre gli si era materializzato alle spalle. “Cosa stai
facendo, Toshimasa?” Era trasalito senza volerlo: sussultando, anzi, come un
ladro colto in flagranza di reato, per quanto pure quella fosse casa sua.
Soprattutto fosse la sua vita.
“Ho bisogno di un sacco a pelo. Venerdì parto per…” Gli era
arrivato così il primo ceffone: una sferzata violenta e precisa, che l’aveva
lasciato attonito come mai prima. “Ma che…” Un altro schiaffo, seguito da una
tempesta di parole. “Non vai da nessuna parte. È ora di finirla, Toshimasa. Non
sei più un bambino. È ora che ti assumi le tue responsabilità e diventi…”
Qualcosa del coraggio di Kyo e della fierezza con cui aveva sentito parlare
Kaoru quel giorno doveva averlo posseduto, permettendogli di tradurre in parole
l’ansia convulsa e sconfitta che l’aveva devastato sino a quel momento.
“Un giapponese perbene? Come te?”
Era stato un errore tattico: l’aveva capito dal guizzo d’odio
puro che aveva colto in un genitore severo e intransigente, eppure giusto e
persino affettuoso, a tratti, malgrado quel suo modo così ottuso di crescerlo e
torturarlo, custodendolo come un fiore ormai reciso e dunque destinato a morire.
Per la prima volta, con una qualche ragione, Toshimasa aveva
avuto paura.
Sarebbe stata comunque l’ultima della sua vita.
La telefonata l’aveva raggiunto nel cuore della notte. Poco
ma sicuro una delle sue sorelle si sarebbe svegliata e l’indomani l’avrebbe
denunciato al plotone domestico. Poco ma sicuro il suo karma doveva avere
qualche grave difetto genetico se, malgrado una casa piena di femmine, si era
quasi preso una cotta per un maschio del Kansai. Daisuke – o meglio Die, come
preferiva esser chiamato, pure se in inglese era non un nick name molto carino –
aveva sollevato la cornetta con la voce ancora impastata di sonno, sperando il
leader non avesse avuto una pensata di addestramento delle sue alle
quattro del mattino, o si sarebbe davvero iscritto alla Todai come il suo
curriculum gli avrebbe permesso, mandando a cagare Niikura e la sua aura da
demone distruttore. L’aveva raggiunto un pigolio strozzato, come una specie di
preghiera cupa, che il silenzio della notte rendeva ancora più sinistra e
incomprensibile. Il sonno l’aveva abbandonato all’istante, come aveva
riconosciuto il proprietario di quella voce lontana.
“Toshiya? Ma che cazzo di scherzi fai?”
Ed era caduta la linea.
Die aveva grugnito una specie di trattenuta bestemmia,
rivoltandosi tante volte tra le lenzuola da finire quasi strangolato, ma non
ritrovando neppure la speranza di chiudere di nuovo gli occhi. Poteva essere uno
scherzo: e a quel punto l’avrebbe punito in modo esemplare – magari
intaccandogli tutte le corde del basso per il gusto di vedergliele esplodere in
faccia al primo o al secondo arpeggio. Ma poteva pure darsi si trovasse in
qualcuno di quei casini in cui, chissà perché, pensi che a convincere gli amici
ti farai meno male – e non era mai così.
Oltre la sua propensione a scherzare anche molto oltre il
consentito, Die si era ritrovato un cervello che – come belava sempre sua nonna
– era un peccato sprecare morendo di fame. Francamente non aveva mai capito da
cosa la vecchia traesse simili conclusioni, tanto più che era nato almeno trent’anni
dopo l’ultima guerra utile per affamare i giapponesi, ma sapeva pure come
meningi ben lubrificate potessero tornare utili nella musica, qualche volta, non
meno che in un cubicolo da sarariman. Certo: non aveva la pretesa di spaventare
nessuno e fare di conseguenza il leader, ma due parole in confidenza a Kaoru
avrebbero oliato non poco la via della verità. Sicché l’indomani si era
arrischiato nell’impresa più pericolosa del mondo: svegliare Niikura.
Qualche demone celeste doveva averlo assistito, perché il
leader aveva già aperto gli occhi su quell’universo che ambiva a dominare in
preda a un inquietante raptus compositivo.
“Kao? C’è uno spostato dei tuoi!” era stata la generosa
introduzione che gli aveva concesso uno dei fratelli Niikura, prima di grattarsi
lo scroto davanti ai suoi capelli rossi e a un trench nero degno di un film
dell’orrore o di un maniaco al parco – come aveva suggerito la più piccola delle
sue sorelle.
Kaoru aveva allontanato il muso dai tabs per squadrarlo
interrogativo. “Be’? Ci hai provato con Shinya, ti è andata bene e volevi
dirmelo? Guarda che sono cazzi vostri. Il mio non ve lo presto.”
Ed era tornato serafico a imbrattare di note qualunque
superficie disponibile.
Die aveva pensato con inquietudine che forse Kisaki aveva
ragione: Kaoru era un malato di onnipotenza, monomaniaco e pure parecchio
rompicoglioni. In più, con quell’aura maligna, era pure probabile fosse un oni
dell’Inferno in vacanza. Restava il fatto fosse pure l’unico che, se lucido,
sapeva oliare la vita fino a trasformare le salite in discese.
“Molto spiritoso. In quante lingue dovrò ripeterti che era
notte, era truccato e che il suo stacco di coscia era meglio di quelli di casa
mia? E poi che c’entra! Volevo solo dirti che stanotte ho ricevuto una
telefonata strana.”
Kaoru aveva alzato un sopracciglio e grugnito “Uh?”
“Toshiya. Stava piangendo. Mormorava cose strane tipo ‘vuole
ammazzarmi’ e…”
Kaoru aveva posato la matita con un gesto tanto secco che
quel semplice suono era risuonato con la nettezza di una fucilata.
“Die, se è uno scherzo dei tuoi sei carne morta. Chiaro?” Il
chitarrista aveva deglutito, arretrando di un metro buono, benché staccasse
l’altro di quasi dieci centimetri. Nessuno aveva mai visto Kaoru davvero
arrabbiato: ora Die sapeva pure perché fosse meglio evitarlo.
“No… No… Non sto giocando… Io.”
“Mi ha detto che il padre è un tipo tosto. Uno di quelli che
rompe parecchio e non molla l’osso. Speriamo solo non ci sia andato troppo
pesante e l’abbia pure rotto, stavolta” aveva scandito tetro Kaoru.
Die era rimasto in silenzio, trattenendo il fiato. “Vedi se
riesci a procurarti una macchina e non dire niente a Kyo, o potrei non
rispondere della sua reazione. Sai come la pensa. Andremo noi due.”
Il chitarrista aveva annuito e aggiunto subito dopo “E
torneremo in tre.”
Kaoru si era concesso uno dei suoi rari sorrisi, annuendo.
“Già. Torneremo in tre.” Poi aveva fatto crocchiare le nocche e, chissà per
quale contorta ragione, Die aveva pensato fosse meglio trovare quella benedetta
automobile.
‘Tu hai chiuso con quella gente, chiaro?’
La sua voce mi urlava ancora nelle orecchie, mentre mi
trascinavo in camera mia. Mi aveva picchiato altre volte, ma mai fino al punto
di perdere completamente in controllo. Avevo paura di aver smarrito del tutto il
coraggio, per questo avevo chiamato Die: per fingere che sentire una delle loro
voci mi rendesse abbastanza forte da stringere i denti e andarmene via.
Non era così.
Non avevo il diritto di coinvolgerli in qualcosa che era solo
mio.
Mi addormentai scosso dai singhiozzi ch’ero un grumo di
dolore.
Quando mio padre venne a svegliarmi l’indomani, più lucido e
consapevole di quello che aveva fatto, non riuscivo a muovermi. Non riuscivo
nemmeno ad aprire gli occhi.
‘Toshimasa! Toshimasa!’
La sua voce aveva un timbro che non riconoscevo, ma non
riuscivo neppure a rispondergli.
Mi piegai di lato e vomitai un po’, prima di perdere del
tutto conoscenza. Mi svegliai dopo un arco di tempo che non avrei saputo
quantificare, in un luogo che non riconoscevo e neppure riuscivo a mettere bene
a fuoco con l’unico occhio che ero in grado di aprire.
Una mano grande e callosa – come quelle di tutti i
chitarristi davvero potenti – mi sfiorò le palpebre con delicatezza. ‘Voglio
vederti con i capelli di un blu spettacolare come quello di quest’occhio. Vedrai
che delirio.’
Era Die. Provai a chiamarlo, ma avevo il palato secco ed
ammorbato dal sangue. Non aveva comunque bisogno della mia imbeccata per capire
fossi del tutto disorientato.
‘Sei conciato maluccio, ma non sei morto. Ti hanno portato in
ospedale.’
‘Papà?’ sillabai a stento.
‘Ha passato un brutto quarto d’ora, Totchi. Prima con i
medici. Poi con Kao. Quand’è incazzato è molto peggio del Dio della morte,
fidati’ mi disse.
Sicuramente stava sorridendo. Anche Die aveva un bel sorriso.
‘Ma non è niente rispetto al colpo che gli hai fatto prendere
tu. Penso che abbia capito finalmente’ aggiunse con una dolcezza palpabile. Non
volevo, ma le lacrime scesero giù da sole, rotolando lungo le mie guance. Die,
ch’era un gran chiacchierone, non disse niente: aveva capito tutto egualmente.
Chiusi gli occhi.
Nel dormiveglia mi raggiunse la voce di mio padre.
‘Toshimasa, scusami. Tu sei un bravo ragazzo. E anche loro.’
Sapevo quanto sudate e quasi estorte fossero quelle parole.
Sapevo pure che erano sincere e che non avevo bisogno di chiamare in conto
l’aura intimidatoria di Kaoru.
Anche mio padre era una brava persona. Un giapponese perbene.
Il mondo andava avanti anche perché c’era gente come lui. Un
po’ grigia ed un po’ triste, ma fondamentalmente innocua.
Gente che si era arresa alle regole, per stanchezza o per
paura.
Per questo, anche se non sarei più stato come loro, l’avrei
perdonato.
E poi, un giorno, saremmo ancora andati a pescare insieme come quando ero
piccolo e non avrebbe più pensato di avere un figlio sbagliato o strano, solo
perché i miei capelli avrebbero avuto il colore intenso di una notte estiva.