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Autore: DubheShadow    03/11/2010    2 recensioni
Una canzone stupenda, dolce, romantica. Che prende al cuore.
Una canzone che, prima di tutto, ispira.
Ed ecco che così, cercando un po' l'atmosfera adatta per scrivere un racconto in tema "Halloween" (nonostante il risultato finale non richiami che per pochi versi la festa), ho costruito una storia attorno alla canzone dei Nightwish. Il risultato è stato una song-fic che estrapola prima di tutto le emozioni che il testo e la melodia ci regalano, in cui i Nightwish sono artisti e non protagonisti come nelle classiche fan-fiction.
I Nightwish diventano i creatori di una storia più alta, diversa, un racconto misterioso e tendente al fantasy, dove l'amore viene rivalutato, sviscerato nel profondo, e dove il sapore dell'ultimo bacio è come un raggio di luna che sfiora un pallido viso.
Buona lettura.
Genere: Dark, Drammatico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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 Trema il silenzio.

 Una, due volte, s’offusca la vista. Due, tre volte, un gufo solca in volo i sepolcri.

 Una, due volte, il vento sussurra: una, due volte, tace di nuovo.

 E così il tempo trascorre, sbocciando nella notte fra ciclamini viola pallido e bacche di corbezzolo, fresco della sua natura sfuggente e imperscrutabile. Una luna imperlata di brina comincia a sorger nel cielo, piena, rorida di passione, a volte offuscata da nuvole sfilacciate e sparse come zucchero a velo. Oltre le nubi che fanno comparire qualche stella fra i loro trafori, nubi divorate da angeli di marmo, e oltre alla luna loro madre che impera là sopra, una candela accesa è l’unica luce che rischiara il cimitero. L’unica umana, contaminata, l’unica che si riversa come petrolio sulle chiome degli alberi e ne rischiara la corteccia scolata di resina, così come l’oro nero ne avrebbe oscurato i rami e il fogliame.

 È un lucore tremulo, insistente ma cauto e forse anche un po’ tormentato, s’avvicina sempre più all’inferriata che delimita il camposanto. E arriva, quasi già preannunciato, il clangore del cancello che s’apre, un anelito d’accoglienza che contrasta con Loro che cercano di respingere colei che li usurpa. Nell’aria il profumo leggero delle foglie gelide si fa più intenso, un sapore che s’infila serpentino, per poi scomparire con una scia poco più che sospiro. E ancora, a qualche metro di distanza, si sente la frescura di una pioggia passata che rende morbido il terreno coperto d’autunno.

 Il procedere della donna ora è l’archetto di un violino, forte e graffiante, deciso, le labbra che mormorano parole di antichi poeti e di romantiche poesie, ad accompagnare una musica che pare un canone inverso. La lingua si muove a creare suoni graffianti, una gaelica melodia dall’incedere caustico. O sono incantesimi? Incantesimi per legare gli spiriti fuori dalle loro tombe, poiché stanotte ciò è possibile, stanotte le loro bocche sanguineranno di nuovo, e i loro piedi potranno ancora camminare senza chiodi a perforarne il passo, o cappi a costringerli a un palo.

 Un sentiero tappezzato di foglie s’inerpica per tutta la triste necropoli, ai lati corridoi molesti mostrano lapidi immobili e fredde. Non un goccio di vita da dedicare ai morti, questa è la decisione del popolo, che stanotte non ha crisantemi da donare, né favole da raccontare agli spiritelli nascosti fra le fronde dei cipressi.

 Dei sospiri increspano l’aria, sono le voci atone delle anime morte. Vagano fra la terra brulla del loro carcere ignaro, eterei, impalpabili. La donna li immagina, lì, seduti ognuno su del marmo freddo, ultima casa, ultimo terribile ristoro. E a un tratto li vede, sorridenti ad accarezzare – trapassare – i fiori secchi che li circondano. Tanti petali poggiati come una sindone, adagiati sulle bare a riscaldarle con teneri crepitii; privati del loro colore, terrei, reincarnano l’indifferenza dei visitatori saltuari. Gli spiriti osservano la ragazza, diffidenti, l’atmosfera tagliata da respiri gelidi. Quando passa fra le loro dimore, non allungano le mani per prenderla o toccarla, ma rimangono immobili. Ci sono donne, bambini. Non un vecchio. È il tratto di cimitero dei morti felici, dei morti giovani. C’è anche chi tiene in grembo piccoli involti come se fossero neonati in fasce, ma nelle braccia degli spettri non c’è nessuno da cullare, solo panni ripiegati con cura.

 Lei prosegue, i suoi piedi che scorrono sulla ghiaia sovrastata dal fogliame putrido, che scricchiola e struscia, si lamenta sotto i suoi passi. Le anime scompaiono appena lei supera le loro tombe, affastellate le une sulle altre, un marasma confuso. Restano solo le foto, incrinate, con i vetri infranti, a ricordare come tante pallide ombre i defunti, a distinguere fra loro i mucchi di ossa. A smistare nomi senza più identità.

Ogni singolo crocifisso sanguina gocce vermiglie immobili in eterno sulla stessa caviglia, il taglio nel costato solo un luogo dove s’accumula polvere e sporcizia. Gli occhi perennemente socchiusi, le labbra sospiranti miracoli insinceri. Vivi, vivete! Sembrano urlare. Non attentate al simulacro che di voi si fa beffe, e ogni giorno spira sempre più all’inafferrabile Alto.

Come se fosse facile.

 Una, due volte, gli spiriti tentano d’assicurare il richiamo: una, due volte, si fallisce e si riprova invano.

 Lei arriva sulla sommità della collina, laddove le ultime tombe si confondono con una macchia boscosa. S’accoccola come un gatto randagio fra le braccia aperte di una statua d’angelo seduto, abbandonando la candela ai suoi piedi. L’angelo piange una lacrima sconsolata che le bagna i capelli color cannella, ma le sue mani, aperte ad accogliere gli sprovveduti, ghiacciate, martoriate dal muschio, non possono rifuggire all’abbraccio di morte che lei gli concede. Le vesti della donna sono nere come il carbone, nel carbone sembrano esser state intinte e poi immerse in una vernice vermiglia, che riga il tessuto come diluvi scagliati su un vetro appannato. La seta dell’ampia gonna fa da coperta alla pietra, il petto poggiato sul cuore di gesso dell’angelo, quasi ad affogarvi dentro la solitudine, cercando un rifugio nella fermezza divina. La testa giace sull’incavo fra la spalla e il collo, laddove la pietra è levigata e piana, accogliente.

 Un tremolio scuote le spalle della strega, forse un singulto trattenuto che si perde nella pelliccia di lupo che le fa da mantella. Il pelo, bianco ai bordi e di un grigio argento al centro, è liscio e morbido, fra il manto sono imprigionate lacrime amare di un passato nascosto. E ora anche la donna piange, una pioggia di scintille dorate impresse nell’acqua che ne dipinge le guance arrossate, e ne fa concime per cascate copiose e terribilmente silenti. Non uno scrosciare che interrompa la quiete, solo il tremore d’anime, e la sensazione di non esser più soli. Né lei, né Loro, e né colui che s’appresta a cingerla in un nuovo fervore.

 E anche il pianto si calma, il legame si scioglie, pian piano le mani di lei abbandonano il collo dell’angelo e si riposano in grembo.

Una folata di vento è la rabbia degli spiriti che si scatena, improvvisa. Tu, impura… va’ via, lasciaci in pace. È lieve, qui tutto è attutito, forse dalle foglie d’autunno, forse dal respiro di Dio, che dà fiato a tutti Loro. Ed è quella folata, portata da lontano, l’unione di tanti respiri, a spegnere la candela della strega, accentuata da un lento sfrigolio e dall’ultima intensa fiammata. Il fumo si disperde, vola in alto a ricongiungersi con le nuvole, è un’organza che si stende e s’avviluppa su se stessa, decretando il termine di un gioco, di un sapore, di un atteso ritorno.

 Si dice che chi provi ira sappia anche amare… e la donna sa amare, di questo ne è certa. In una maniera scontata, in una maniera mortale, ma è pur sempre amore, si dice, avvolgendosi un po’ più stretta nella pelliccia di lupo che le copre le spalle.

 Tira lentamente degli oggetti fuori da una sacca di tela nera che porta a tracolla: polveri colorate costrette in ampolle dal collo sottile, una scatola di fiammiferi, del velluto blu notte che nasconde un cartoccio di rune. Con una indolenza studiata, ammucchia dei rami e accende un flebile fuoco alla base dell’angelo, che indaga tutto dall’alto, e approva, o forse no. La candela giace dimentica poco più in là, supina in terra, scruta e invidia la nuova e folgorante luce. La vampa che si scatena dal falò oscilla fortemente, è un guizzo nell’oscurità che danza su note solo sue. La strega attornia le rune intorno al piccolo rogo, in un cerchio magico, quindi apre le fiale, una a una, e ne riversa sopra spolverate rase del loro mistico contenuto.

 Gesti nati da un egoismo dolente. La luna, il trentuno di ottobre, cala come un sipario sul senno del popolo, lo rende più ardito e avventato, trascina con sé anche un po’ di speranza da spargere assieme alla sua polvere di stelle. Ed è investita, la donna, da questo pulviscolo nuovo, che rianima e concede l’iniziativa di combattere, almeno una volta, il non lieto sapore di un futuro da trascorrere soli. Forse qualcuno resusciterà solo per lei. Se non sbaglierà, uno spirito allevierà il suo sconforto, e la solitudine sarà l’unica, stanotte, a morire.

 È un sortilegio angosciato che nasce da un disperato affannarsi.

 Una, due volte, del nero di morte. Due, tre volte, dell’acquasanta di vita.

 Una, due volte, un rosso per riaccendere la passione: una, due volte, la fiamma a ritmo sfavilla.

 

 Un ricordo di ghiacci lontani, un ricordo d’albore e di vecchia sevizia. Una baita in Siberia, in una Russia tinteggiata di rosso, una Russia dipinta col sangue sparso fra le nevi e pronto a macchiarne il candore. Ogni goccia lascia un solco leggero, il liquido caldo ne scioglie sempre un tratto, un rivolo che si costruisce il suo letto in un canale incavato, simile in tutto e per tutto ai fiumi che percorrono le steppe d’oriente. Il gelido inverno, quasi incessante, è come una dolcezza in cui cullarsi ogni notte: il bianco è la luce dell’anima, la corteccia nera degli alberi e delle case è un graffito fatto con il carboncino da una mano esperta, e delinea i contorni altrimenti impercettibili di un paesaggio da sogno, dove orsi e volpi polari si rincorrono fra dune e calanchi in cui si sprofonda come in un mare di bolle. Lì c’è una pace diversa, perenne e ospitale, dove il sole ogni tanto riesce a perforare le nuvole cariche di neve e ti accarezza con un calore insolito, timido e appagante al tempo stesso. Ma c’è sempre qualcuno che, ovunque ci si vada a rifugiare o a nascondere, come pavidi esseri trasportati dal vento, è in grado di scovare la creatura che cerca, e interrompere qualsiasi parvenza d’armonia e d’intesa.

 Il sapore di uno sparo sa di morte già prima che colpisca e uccida, è l’intento che s’incanala nella canna di un fucile e ne putrefà le membra. Un veleno maligno che s’infila nel proiettile e ne infuoca il fulcro, il fumo della follia concentrata di un cacciatore che nomina preda. Un singolo sparo, indirizzato troppo bene, troppo mirato, la lingua del diavolo scaraventata nel mondo terreno per perforare un corpo e, al contempo, far esplodere due cuori. Tra le fronde, la sagoma dell’assassino scompare, solo il suo ghigno resta impresso nell’aria. Una brezza crudele trascina quella risata funebre fino a una piccola baita, addormentata nella quiete del bosco, illuminata appena dai raggi argentei di una luna piena e grande nel cielo.

 Un lupo vi si avvicina. Zoppica appena, uno squarcio sul petto macchia il manto di carminio, intriso di rose rosse che sbocciano e appassiscono, colando i loro petali sulla neve. Un pegno d’amore che si spegne nel crepuscolo calmo, spirando fra l’ombra e l’ignoto, ridiventando nell’anima un’ultima volta umano.

 Un urlo risuona lugubre come un ululato alla luna.

 Una, due volte, un coltello taglia quelle carni: una, due volte, la Morte pare afferrare la strega.

 Una pelliccia, ecco quello che di lui le restava, colui che aveva amato, e che segretamente ancora ama.

 

 L’incantesimo è ormai concluso. Diversi eoni sono comparsi dal nulla, immersi nel loro fioco bagliore azzurrino, piccoli globi che seguono la scena da lontano come lampade di carta di riso ad un capodanno cinese. Sembrano quasi le onde di un oceano tranquillo, onde sfiorate da un sole mattutino caldo e rasserenante, onde sotto cui si cela il mistero di innumerevoli vite. La quiete si porta via anche l’ultimo rancore, l’ultima reminiscenza scompare. Quel che è stato è stato, una strega ha il dovere di dimenticare. Ed ecco nel mentre che alcune raffiche fanno vibrare l’aria, una figura prende consistenza, diventa appena più percettibile, uno spirito appare rispondendo all’appello della magia.

 Questa notte, sa di essere mortale anche Lui. Questa notte, danzerà per lei, perché per lei è importante. Questa notte non c’è spazio per indecisioni o questioni refrattarie. La luna è complice e veglierà tenera su ogni nuovo evento e su ogni nuovo amore. Ha labbra rosse, la donna, rosse come i ribes o una rosa, rosse come il sangue. E i suoi occhi sono scaglie d’oro disperse in una laguna, i capelli cannella schiarita da vaniglia mielata e suadente. Il violino, dal nulla, ricomincia a suonare, solo per loro, solo per ora. E le mani dei due finalmente si toccano, le dita s’intrecciano come viticci, in una disperata richiesta di non potersi più staccare l’una dall’altra.

 La passione è qualcosa di strano, d’inconcepibile. Persuade, concede, e poi ritrae il tutto, una marea svampita che non si preoccupa per nulla delle conchiglie che lascerà sulla spiaggia. La passione rende deboli, perché fa credere d’essere invincibili, quando è solo l’unione dei corpi che permette d’offuscare i sensi. Ma nessuno potrebbe mai evitare di cedervi, poiché il piacere, la dolcezza che trascina con sé sono figlie divine di una madre irresistibile. Venere socchiude gli occhi e sospira, preparandosi ad un nuovo spettacolo. Le ninfe, accalcate sugli spalti, si scambiano un calice di vino con la dea, e bisbigliano portandosi una mano davanti alla bocca. Il rossetto è sbiadito, sbavato, ha lasciato la sua impronta venata sul bicchiere. L’ubriachezza dei senni perduti.

«Danzerò con te» sussurra lo spirito.

«Ma stiamo già danzando».

«Ogni notte. Promettimi che danzerai con me ogni notte» Giura. Fra un ricciolo che le ricade sul viso, vicino all’orecchio sinistro, compare la preghiera. Persuasiva e implorante, s’infiltra nella mente di lei come un nastro d’argento.

«Non posso». Ho già infranto una promessa, più antica, più vera. La delusione di Lui è percepibile, ogni sua emozione è in verità manifestata dalla natura, poiché da essa egli trae forza. Assieme alla tristezza, germoglia anche un po’ dell’ira di prima. Com’era? Chi prova rabbia sa anche amare… e lo spirito sa amare, di questo ne è certo.

 Danzano ancora, in un cerchio lento, attorno al fuoco che ora brilla d’arcobaleno. È una danza posseduta, infaticabile, in cui si sente permeare un incanto senza età né luogo, una magia che proviene da un oriente sconosciuto e che ad esso preme di tornare, facendosi ad ogni attimo più debole, più stanca. Lui interrompe per primo quel vorticare anomalo, e cerca di condurla oltre la collina, laddove, fra aceri giapponesi dalle foglie amaranto e betulle sottili come mani scheletriche, s’inerpica un piccolo e stretto torrente. Lei lo segue, ammaliata: il suo cuore, un tempo spezzato, ha ripreso a battere come quello dello spirito, forte, ritemprato a nuova vita.

 Arrivati al ruscello, si siedono l’una affianco all’altro, vicini alla riva. Guardano il fiume, assorti. Nell’acqua sono spuntate delle magnolie bianche, il cui centro risplende di giallo come se fossero tante capocchie di candele, o lucciole che per caso hanno deciso di posarsi tutte lì nello stesso fatale istante.

 Il corpo della donna comincia a venir scosso da brividi di freddo, la pelliccia di lupo le è scivolata dalle spalle mentre percorrevano il sentiero fra gli alberi, rimasta forse impigliata fra qualche ramo più audace. Abbandonata lontano, dimenticata. Lui l’abbraccia, in un istinto primordiale, immemore del fatto che non ha più calore con sé da offrire, non è che una mantella bucata e sdrucita, incapace di scaldarsi anche di fronte a un incendio. Ma, forse, la sua passione è più accesa di qualsiasi fuoco, e basterà da sola a contrastare ogni ostacolo. Così sospira di nuovo al vento: «Resterai con me?»

«Come posso…».

 Le parole sono fatue in un ardore fatto di silenzi. La risposta è dipinta fra gli eoni che taciturni li hanno seguiti, la stessa luna lo suggerisce col suo volto tumefatto dagli innamoramenti andati e smarriti. Le loro labbra quindi s’avvicinano, impaurite, si ritraggono per poi cercarsi ancora. Non c’è contatto; è mai possibile che morte e vita non possano davvero più risorgere insieme? Lo stesso Orfeo perse la sua Euridice.

«Baciami, finché le mie labbra sono ancora rosse». Baciami, finché l’alba non sorge. Un pallido rosa, sull’est, comincia a rischiarare il mondo, ignaro di significare, per stavolta, una fine invece che un nuovo inizio.

 Seduti sulla riva del peccato, dicono insieme addio alle maschere del destino.

 Una, due volte, le loro lingue si toccano. Due, tre volte, l’anima di lei si smarrisce.

 Una, due volte, il fuoco dell’incantesimo ghiaccia: una, due volte, si rompe come uno specchio, infrangendo ogni tenue speranza.

 Lontano, si sente l’ululare di un lupo.

   
 
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