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Autore: Furiarossa    08/11/2010    0 recensioni
“Io sono il demonio” Pensai, ancora una volta senza riuscire a controllarla voce nella testa “Attraverso i confini dell’umanità, spalancherò fauci di tenebra e inghiottirò bocconi di vita”.
Cosa si prova ad essere un licantropo? Cos'è, davvero, un licantropo?
Scopritelo in questa storia, forse il romanzo più breve che io abbia mai avuto intenzione di scrivere ...
In bocca al lupo!
Genere: Azione, Dark, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Prologo

 

Rannicchiato nel buio, ricordo, tremavo. Sulla mia schiena scivolavano pochi raggi di pallidi di luna, la luna che non osavo guardare, ma i miei occhi non fissavano e le tenebre. Strizza le palpebre, stringendo più forte le braccia intorno la busto, e sentii i muscoli contorcersi in una morsa dolorosa, in un crampo. Poi vidi le torce elettriche spuntare da dietro l’angolo della strada, illuminando il selciato antico della via.

Era come trasportare un istante del medioevo nel presente, come a sapere che al posto delle pile a batterie avrebbero dovuto esserci fiaccole ardenti al posto dei grossi teppisti metallari dei contadini religiosi  inferociti. Uguale tutto il resto, proprio come allora.

Mi davano la caccia, questo era lampante, solo mi stavo ricordando a stento perché. Insomma, ero nei guai e non ne capivo il motivo.

Però non avevo la paura giusta, quella del ragazzo braccato. Era terrore, ed era quello sbagliato.

Viscerale, profonda, arcaica. Paura, paura che fa sudare, paura che fa battere i denti. Un martello su un tamburo al posto del cuore, il grido antico della razza che si levava dl petto, l’urlo rosso e gorgogliante del sangue.

“Andrò all’inferno” Pensai, irrazionalmente. Non c’era motivo per cui avrei dovuto essere dannato in eterno.

I miei inseguitori mi circondavano. Sollevai lo sguardo verso di loro e vidi i loro volti minacciosi. Quello che sembrava il capo aveva i capelli lunghi, lisci, neri, con ciocche che ricadevano sulla fronte ampia e bronzea, sotto la quale si aprivano due occhi scuri e febbricitanti, lucidi, sgranati. Le labbra sottili erano curvate in un ghigno sgradevole che gli arricciava in pieghette gli angoli della bocca.

«Ciao, sfigato» mi disse, sollevando un coltello a serramanico grigio che mi apparve stranamente familiare «E addio per sempre».

I suoi occhi si sgranarono ancora di più, dandogli nel buio l’aspetto di un curioso gattone. Mi stampai in mente la sua faccia prima di strappargliela via.

Odore di sangue. La pelle si solleva, viene via dalle ossa, le snuda alla luce della luna, scivolando e frusciando.

Urlai, ritraendole mani, ma la faccia del Capo pendeva come un vecchio cencio dalle mie dita, sgocciolando un liquido curo e denso. Di fronte a me l’uomo gridava di dolore e le sue iridi perfettamente tonde sembravano ancora più grandi senza la pelle intorno. I muscoli facciali e i tendini scoperti scintillano umidi e rossi di sangue, viscidi.

“Mangialo” Disse un voce nella mia testa.

«No!» esclamai, scagliando a terra la pelle del nemico e scappando va.

Mi feci spazio a spallate fra coloro che mi avevano circondato, i quali erano ancora troppo scossi da quanto era successo per attaccarmi, e imboccai un’altra via. I miei piedi nudi battevano sul selciato, sentivo la carne che si adattava alla pietra, tastando i bordi e le fessure, i colpi che vibravano nei talloni.

Mi seguirono, gridando tutti insieme come indemoniati.

“Io sono il demonio”Pensai, ancora una volta senza riuscire a controllarla voce nella testa “Attraverso i confini dell’umanità, spalancherò fauci di tenebra e inghiottirò bocconi di vita”.

Sboccai fuori dalla stradina protetta dai palazzi antichi e mi trovai all’aperto.

Il cielo era bellissimo, una grande coperta blu scuro di velluto, trapunta di stelle aguzze come diamanti.

La luna era lì in mezzo, bianca e gigantesca. Tonda, una palla morbidamente luminosa, perfetta.

Mi abbagliò. Mi rapì. Il sangue ribolliva nelle vene, rovente, e pulsava nelle orecchie come un rombo sordo, chiuso, co un maremoto confinato in una grotta. Musica irresistibile e flauti nella mia testa, una danza che on sapevo riconoscere.

E poi, lentamente, i flauti smisero di suonare, lasciando solo il tamburo del mio cuore.

La mia identità, tutto ciò che ero, è morta per sempre in quel momento, perciò non chiedetemi cosa io fossi prima.

Cambiai la mia pelle, tutto fu estasi mentre mi liberavo. Il dolore non è che piacere troppo sconfinato, lo sfiorai più volte, ma il resto fu ebbrezza, una sinfonia magistrale sotto la pelle.

Poi vidi tutto con chiarezza. Sentii.

E dolcemente mi gettai nel mio ruolo. Uccisi.

  
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