Fictional Dream © 2006 (19 dicembre 2006)
I L’Arc~en~ciel (nella prima formazione major, Tetsuya Ogawa,
Ken Kitamura, Hideto Takarai e Yasunori Sakurazawa, poi Yukihiro Awaji in luogo
di quest’ultimo) sono uno dei più celebri gruppi di musica rock-pop giapponese.
L’autrice non intrattiene con i succitati artisti alcuna
relazione di tipo economico-collaborativo.
Questo testo narra eventi di pura fantasia, destinati al
diletto ed all’intrattenimento di altri fans: non persegue alcun intento
diffamatorio (né pretende di dare informazioni veritiere sulle persone di cui
tratta) o finalità lucrativa.
Nessuna violazione dei diritti legalmente tutelati in merito alla musica ed alla
personalità degli artisti succitati si ritiene intesa.
L’intreccio qui descritto rappresenta invece copyright
dell’autrice (Callie Stephanides - http://fictionaldream.iobloggo.com). Non ne è ammessa
altrove la citazione totale né parziale, a meno che non sia stata autorizzata
dalla stessa tramite permesso scritto.
*****
Quando cade la neve, prima ancora del candore accecante che
assume il paesaggio – c’è qualcosa di lunare e spettrale insieme nelle colline
che somigliano a soffici dune, negli alberi che sembrano filati in una glassa
collosa e impenetrabile, trasparente e purissima – ti sorprende il silenzio.
È uno stato di allucinata quiete, di persistente
intermittenza; è davvero quasi la natura abbia imposto una battuta di arresto al
proprio fluire, concentrandosi sul tempo per cancellare, con piccoli tocchi
artistici, ogni altro dettaglio.
Capita anche a Tokyo.
È forse uno dei rari dettagli in cui la bellezza del caos si
lascia cogliere, ed è indubbio una megalopoli rappresenti quanto di più
stridente, disorganizzato e disarmonico esista. Hideto Takarai ne è sempre stato
convinto, perché è un piccolo ragazzo di Wakayama, Kansai, abituato alle
immensità di un paesaggio stretto tra montagne e mare, macchie di verde intenso,
quasi mediterraneo, che scolorano poi in un oceano ferroso, macchiato a tratti
di un azzurro imprevisto dalla bellezza accecante. A Wakayama non c’è bisogno
della neve per scoprire quanto meravigliosa sia l’armonia della natura: basta
quella tiepida primavera che scivola sulla pelle anche nei mesi invernali, e
l’ha accarezzato fin dal momento in cui ha aperto gli occhi sul mondo, in un
ormai lontano – no, non è proprio lontanissimo – ventinove gennaio
millenovecentosessantanove.
Di anni ne sono passati quasi trenta, ormai; è un peccato,
perché via via che si aggiungono le decine, sembra che i colori si lascino
mangiare dal grigio. È quel che Hideto ha sempre temuto, al punto che a trent’anni
pensava di morire per non sentirsi esaurito e vecchio. Poi, forse, si è detto
che un daltonico di toni non ne possiede poi molti, e tutta la vita non gli
basterà davvero a immaginarli.
Hideto – si chiama così. È un nome comunissimo in Giappone.
Lo è persino tra quelli famosi. Come lui, del resto, che tutti chiamano haido –
batte più volte le palpebre, per abituarsi alla luce tenue e speciale che
accoglie il suo risveglio in mattine come queste; mattine di neve e tranquillità
imprevista e ombre quasi piacevoli contro una retina riottosa.
È miope da sempre. Da sempre ha uno strano pudore nel portare
gli occhiali – anche se non può più farne a meno. Da sempre pensa però che
vedere – guardare le cose per quello che sono. Senza la minima poesia – non sia
davvero importante; meglio immaginare la vita oltre il tremito leggero di
pupille sfocate. Blurry eyes: un inno a quel suo modo unico di sognare i
dettagli che il velo del raziocinio lascia solo intuire.
Hideto ha bisogno di tempo per svegliarsi del tutto – a quel
confine indefinito e pericoloso, tra il sogno e la veglia, tra il reale e
l’immaginato, del resto, ha dedicato non poche strofe delle sue canzoni. Forse
proprio quelle più belle e più riuscite. Alcune solo immaginate – né ha mai
voglia di farlo. C’è qualcosa nel mattino che l’ha sempre disturbato, in qualche
modo; da quando vive a Tokyo, soprattutto. A Wakayama, da bambino e poi da
ragazzo (ragazzo-ragazza, con quei suoi capelli lunghissimi e neri a frustare il
vento nell’ebbrezza della velocità), macinava chilometri in bicicletta sul
lungomare ch’erano appena le quattro. Il disco aranciato del sole neppure si era
affacciato oltre la distesa immobile di un mare di ferro – lungo la linea
dell’orizzonte era rugginoso, lo ricorda bene. O forse lo immagina: per un
daltonico era un grigio più scuro, appena venato di rosso – mentre la sua ombra
filava rapida ed inconsistente. Un flash imprevisto contro la retina
dell’osservatore; eterno nel suo esistere solo come intermittenza.
Ma le quattro del mattino a Wakayama non sono le quattro del
mattino di Tokyo, perché una megalopoli cancella il silenzio persino nella sua
espressione più necessaria e virtuosa. A Tokyo neppure le quattro del mattino
sono un buon momento per pensare, perché c’è sempre un goccio di troppo, un
ubriaco che vomita o piscia in un angolo, una festa che si trascina in strada,
un ufficio che apre i battenti per non perdere il treno dei soldi e del
progresso.
Hideto non somiglia a quei ritmi. A volte, quando ha voglia
di scherzare, il suo migliore amico gli dice che resterà giovane per sempre. Non
come Dorian Grey, no, come una clessidra in cui un singolo, minuscolo granello
abbia intasato l’emorragia della sabbia e del tempo. tetsu è bravo a lenire le
sue paure e a inventare immagini, ma lo fa di rado perché è il suo opposto; il
tempo di haido è un piano pianissimo fatto di lunghe soste interiori. Tetchan,
invece, si muove su accelerazioni repentine. Hideto ama i ritmi pigri
dell’autunno e dell’inverno, quando tutto rallenta sino a parere immobile. È un
affetto poco o nulla ricambiato, comunque, perché Hideto è uno che lavora
moltissimo in qualunque stagione; soprattutto nell’ultimo anno, poi, al punto da
stupirsi per il momento di quiete assoluta che l’ha sorpreso all’improvviso.
Sbatte le palpebre per l’ennesima volta: il sonno se n’è
andato, ma non per questo la visione si è fatta più nitida. Non è un problema,
perché le ombre l’aiutano a pensare. Non che non l’abbia fatto abbastanza
nell’ultimo anno – negli ultimi due, anzi – ma la nebbia si è diradata solo
recentemente e ha bisogno di mettere qualche punto essenziale. Tokyo è nemica,
però, di certe pause e di certe riflessioni. Persino alle quattro del mattino –
che poi, alle quattro del mattino, spesso Hideto sta ancora lavorando. È alla
sesta, settima tazza di caffè, alla ventesima sigaretta, al trentesimo colpo di
tosse, alla seconda, terza risata. Sempre, fuorché in momenti come questi.
Quando cade la neve.
Hideto è certo stia accadendo, perché sono cinque anni che
vive in questa città. Ha traslocato un numero incalcolabile di volte, salendo
sempre più in alto, su, fino al cielo; fino al Paradiso del ventesimo piano di
un condominio troppo lussuoso di Shibuya.
Hideto sa che a guardare da fuori la sua vita, chiunque
vorrebbe reclamarne un pezzo. Non ha neppure trent’anni, ma possiede già tutto.
Persino troppo, forse. O troppo poco. Nessuno, cioè, sa pure quanto male
faccia quando cadi giù dal tuo ventesimo piano. Che la vita, cioè, è fatta
soprattutto di proporzioni, nel bene come nel male. Soprattutto nel male, però.
Comunque Hideto non ha voglia di pensare a questo; non ora
che il dolore si è quasi esaurito. Sospetta che non se ne libererà mai del tutto
– che sarà l’ennesimo anello di una strana catena che la vita ti avvolge contro
la pelle, fino a marchiarla di lingue rossastre e dolorose – ma sta tentando di
recuperare il controllo. Ha cantato della sua perdita e degli stati di
persistente corrosione che divorano chi è spaventato, esaurito dalla vita, vinto
dalle circostanze, disgregato dai propri stessi sentimenti, lacerato dalla loro
stessa oscurità. Ora sta risalendo la china verso la luce, come faceva il disco
rosato del sole oltre la ruggine immobile di un mare d’inverno.
Hideto sospira e si volge sul fianco. Orfana del suo
implacabile, prezioso hair-stylist, la frangia sempre troppo lunga gli cade fin
quasi agli zigomi, difendendolo dall’inevitabile realtà come un ulteriore,
preziosissimo schermo; non abbastanza, in ogni caso, da oscurare del tutto quel
miraggio di avorio un poco rosato che sopravvive al riverbero imperfetto di una
luce inesistente contro i suoi occhi sfocati.
Sono le quattro del mattino.
Sta nevicando.
Megumi dorme profondamente e non sa che Hideto la sta
guardando. Non è nulla di consueto, perché le rarissime volte in cui hanno
dormito insieme – in fondo non sono neppure due mesi che si frequentano. Anzi,
forse sono persino innamorati, ma Hideto ha paura di chiamare per nome un
sentimento che gli ha sempre fatto male – è accaduto piuttosto il contrario. È
Megumi, cioè, quella che si sveglia per prima, che prepara la colazione, che
canticchia qualcosa a bassa voce, aiutandolo a dimenticare la cacofonia
insopportabile dei mattini di Tokyo – sempre congestionati dal traffico. Sempre
ingrigiti dal fumo. Sempre avviluppati come un nodo gordiano di automobilisti
impazienti e pieni d’odio, puntualmente tesi a dimostrarselo lungo lo svicolo
elegante su cui ha le finestre. E meno male che esistono i doppi vetri.
È Megumi che dà un senso al tempo e che, in qualche modo, ha
liberato l’emorragia dei granelli di sabbia nella clessidra impigrita della sua
fragilità interiore. Hideto lo sa bene, e c’è della gratitudine autentica nella
tenerezza con cui lascia che le dita percorrano la linea morbida e liscia della
guancia di lei.
C’è qualcosa di vulnerabile in un volto addormentato. È come
se tutte le difese, le pose, le mille maschere di circostanza che si indossano
alla luce del sole – o sotto mille luci artificiali. O davanti ad un pubblico
malato di onnipresenza e onnipotenza – crollassero miseramente.
C’è qualcosa di intimo nel guardare chi dorme; lasciarsi
guardare, poi, è forse la più estrema e assoluta professione d’amore si possa
fare. Amore e fiducia, perché ti aspetti che la persona che veglia il tuo sonno
ti difenda e non ti abbandoni. Mai.
Hideto socchiude gli occhi e trattiene il fiato. Quello che
l’ha appena attraversato è un pensiero che lo fa sentire a disagio e che fatica
a inghiottire.
C’entra con i due anni che sta provando a dimenticare.
C’entra con quel confine sottile tra il sonno e la veglia in
cui si è lasciato travolgere troppo spesso dai propri stessi sentimenti.
C’entra forse con la stessa neve di Tokyo, appena un anno
prima; solo che a dirsi sia trascorso appena un anno, Hideto quasi non ci crede.
Eppure è vero: appena dodici mesi fa, in un giorno come questo, Hideto si è
reincarnato.
Era morto e ha ripreso a respirare. Gli avevano tolto la
voce, eppure ha cantato di nuovo. A tradurlo in pochi accenni, pare solo
qualcosa di bello e persino facile. Forse meccanico nelle sue implicazioni.
Non è stato così, però. Non lo è stato affatto.
Anche quel giorno, comunque, alle quattro del mattino Hideto
era già sveglio.
Non gli pareva nulla di eccezionale, però, perché aveva quasi
dimenticato come si dormisse. Da quel ventiquattro febbraio, a ben vedere, non
l’aveva più fatto. Erano le quattro del mattino, scendeva la neve e forse
qualcosa di umido sotto le sue ciglia. Era già salito di nuovo sul palco, con un
nome che gli somigliava di più – come uno Zombie, cioè – ma l’appuntamento del
Dome gli faceva paura. Un’infernale paura.
Il nuovo Hideto si chiede forse il perché, o evita di porsi
domande, come ha evitato di guardare le registrazioni, se non il minimo
indispensabile per l’ultima VHS del gruppo – e gli è parso comunque troppo.
La verità è che alle quattro del mattino del ventitre
dicembre millenovecentonovantasette il suo cuore batteva impazzito, facendogli
male come non ricordava neppure. Molto più del solito.
Hideto si era strofinato gli occhi, fissando poi lo sguardo
contro quelle falci ossute su cui le maniche di un pigiama troppo largo
scivolavano con irrisoria facilità. A volte provava pena e schifo per come si
era ridotto. A volte riusciva a guardarsi con la distanza con cui si fissa un
oggetto, non il proprio riflesso.
Hideto pensava al Dome e alla batteria da cui avrebbe
ricevuto l’attacco. Yukihiro era perfetto e gentile e infaticabile, ma non era
un ciliegio. Quella primavera non sarebbe più tornata. Mai più.
Hideto era rotolato sul fianco, mordendo con rabbia il
cuscino e inghiottendo un singhiozzo. Aveva promesso a tetsu di stringere i
denti e di andare avanti; quando gliel’aveva promesso, però, Tetchan era lì,
accanto a lui. A rendere tutto più facile. In momenti come quelli, però,
Ogawa non poteva esserci, come non poteva lavargli la memoria e renderla adatta
a un uomo.
Hideto non voleva crescere, e non avrebbe mai perdonato il
Dio in cui non credeva, ma che l’aveva costretto a farlo. Un Dio crudele.
Hideto si era alzato e avvicinato alla finestra. Era buio e
cadeva la neve. Larghe falde contro le luci della strada. Frammenti di un
inverno come tanti: troppo freddo per rinascere davvero. Sul tavolino
basso, elegante ed essenziale del suo salotto, c’era la set-list della serata.
Hideto l’aveva scorsa più e più volte, chiedendosi dove
avrebbe trovato la voce. Non era un problema di gola – in verità c’entrava anche
quello, visto che erano due giorni andasse avanti ad aspirine e trentotto e
mezzo. Ma non poteva fermarsi – ma di cuore: in quel ridicolo rettangolo
di carta c’erano quattro anni che avrebbe dovuto dimenticare. Vomitare e poi
rinnegare.
Hideto sapeva di non poterlo fare, come di non volerlo
affatto; non si era mai vergognato di niente, non poteva cominciare dall’affetto.
Hideto si era mosso leggero in una casa deserta, enorme e al
contempo opprimente, come sono a tratti quegli ambienti in cui è l’assenza di
suppellettili a fartene sentire il peso. Mancavano due giorni a Natale, ma non
se ne avvertiva neppure l’ombra. Due anni prima, invece, Yasunori si era vestito
da renna e avevano riso come deficienti in un camerino ingombro di costumi.
Due anni prima, Hideto e haido erano quasi la stessa persona
e si concedevano il lusso di divertirsi insieme.
Megumi si è mossa, scivolando con più decisione nella sua
direzione. Hideto le bacia la fronte e pensa che dodici mesi fa non immaginava
neppure di trovare qualcosa di tiepido e caldo contro cui nascondere le pieghe
peggiori di una cappa chiamata solitudine. Ora c’è lei, come non c’era
allora.
Quell’Hideto aveva acceso una sigaretta ed era rimasto a
guardare la neve, mentre la notte diventava alba, mentre i fiocchi si sfaldavano
in un’acquerugiola tetra, mentre la sua insonnia non portava consiglio, né
speranza, né coraggio. Aveva sollevato il telefono e composto un pugno di cifre.
L’aveva fatto con il chiaro intento di svegliare tetsu e
dirgli la verità: che non avrebbe cantato. Non sarebbe più salito su quel
palco, non avrebbe arricchito nessuno con l’agonia dei suoi sentimenti e se pure
fosse accaduto, non avrebbe firmato l’autorizzazione.
Tetchan gli aveva risposto assonnato, scoperto e fragile come
chiunque al risveglio. Hideto gli aveva grandinato addosso quella vigliaccheria
improvvisa e imprevista, da sofferenza metabolizzata male e digerita peggio. Da
bestiola colpita al cuore e colpita a morte, soprattutto. Da bambino tradito ed
adulto disilluso.
“Vuoi che ti raggiunga, Doihachan? Così ne parliamo con
calma.”
Gli aveva detto solo quello – Hideto poteva persino
immaginarlo mentre si sistemava gli occhiali, dava un’occhiata alla sveglia,
soffocava un’imprecazione sommessa – senza perdere il controllo, senza tradire
emozioni sbilanciate e imperfette, scolpite da un’emotività sempre troppo
indifesa.
L’aveva fatto sentire stupido per l’ennesima volta.
L’aveva fatto sentire fortunato, persino sicuro, quando era
arrivato davvero, alle quattro del mattino del ventitre dicembre
millenovecentonovantasette.
L’aveva abbracciato senza dirgli niente. L’aveva stretto
forte sussurrandogli appena: “Andrà tutto bene. Ormai ci siamo e andrà tutto
assolutamente bene.” Poi avevano cominciato a canticchiare I wish,
finendo con il piangere come due cretini. Tanto erano le quattro del mattino e
non poteva vederli nessuno.
Comunque è accaduto dodici mesi fa. In questo momento, poco
ma sicuro, tetsu starà dormendo accanto a Kaori, oppure lavorando a qualche
nuovo modellino, o provando qualche accordo. È difficile prevedere davvero le
sue mosse, perché nel suo essere metodico e ordinato, Tetchan è sempre diverso.
Per certo, però, non immagina che Hideto sia sveglio e stia passando in rassegna
quello che insieme hanno tentato di cancellare. Sarebbe stato un errore,
comunque, perché in quelle memorie non tutto è da buttare. Non la loro amicizia,
né il calore di quel palco. Forse neppure le lacrime che sono scese alla fine,
senza portare il minimo sollievo.
Pensandoci bene, senza quell’abbraccio sbilanciato e strano,
così stretto da non permettere al dolore di fuggire – ma neppure di vincere –
Hideto non ce l’avrebbe fatta. Avrebbe reso le armi senza chiedersi se fosse
davvero quello il suo desiderio; senza immaginare che, stringendo i denti e
tenendo duro, avrebbe trovato persino una come Megumi.
Mentre la neve continua a fioccare impalpabile e il sole
stenta ad annunciarsi, Hideto si alza con studiata lentezza. Non vuole
svegliarla, perché gli piace l’innocenza con cui dorme e perché gli piace ancor
più trattenere ancora per sé questi istanti strani, di quiete assoluta e
prolungata. Il Natale dovrebbe somigliare sempre e solo a questa pace, fatta di
timidi slanci, consapevolezze estorte alla veglia, qualche rimpianto e l’ombra
leggera di note che affiorano alle labbra.
Hideto dovrebbe avere un albero di Natale da qualche parte,
anche se non fa particolare attenzione a certi dettagli. Gli piaceva l’odore dei
mandarini di Wakayama e quello del forno vicino alla weekly mansion dove
hanno abitato per un po’ i quattro di allora. Lo conosce anche Yukihiro,
però, il che vuol dire che non ci sono fratture. Neppure nei ricordi.
Hideto canticchia – come di norma non fa mai – tra sé I
wish ancora una volta e pensa che è un bell’augurio da fare; chiedere di
sperare, cioè. Chiedere di guardare un po’ più avanti di quanto non lo
permettano occhi troppo miopi e sfocati, poco interessati, insomma, a crescere
davvero.
Hideto, per contro, proprio mentre è intento a rallegrarsi
per qualcosa di così infantile, si sente un uomo: completo nelle sue sfumature,
non offeso dalle ferite, sanato nel suo nucleo più profondo e vulnerabile. È una
consapevolezza che l’ha accarezzato in questi ultimi dodici mesi, difficili
eppure importanti, come difficile e importante insieme, in fondo, è la vita
stessa. Lo sorprende piuttosto il fatto che ci sia arrivato talmente tardi,
quando tutto era invece così immediato, persino accessibile.
Forse è vero che le quattro del mattino sono un buon momento
per pensare, nella solitudine ovattata di una stanza che ammira della neve la
sua soffice e innocua distanza.
Poi gli sfugge uno starnuto; e mentre Megumi, ancora
insonnolita, lo fissa perplessa, continua a decorare l’albero, pensando che
neppure il silenzio dura per sempre.
Per fortuna.