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Autore: Flynn93    13/11/2010    1 recensioni
Mikoto conosce solo il proprio nome, nient'altro. Non ha mai visitato il mondo, ha delle conoscenze accennate di Konoha e sogna. Sogna la propria libertà, il proprio futuro. Ma perchè sogna? Perchè ha passato dodici anni in totale isolamento?
Una storia raccontata dal punto di vista di una bambina, che potrà inziare a vivere se e solo se sarà in grado di accantonare il proprio passato.
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Kabuto Yakushi, Nuovo Personaggio, Orochimaru, Sasuke Uchiha
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Naruto prima serie, Naruto Shippuuden
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Il maestro era stato più duro del solito. Mi aveva allenata il doppio del tempo e alla fine ero stremata, ma soddisfatta. Avevo le ossa a pezzi, ma mi sentivo più forte di prima. Avevo appreso una nuova tecnica, il controllo dell'ombra per mezzo dello sharingan. Conoscevo la tecnica base, il controllo dell'ombra del clan Nara di Konoha, che abbinata allo sharingan era in grado persino di uccidere. 

Il maestro mi aveva fornito cento uomini da lui modificati. Erano alti e grossi, dall'aspetto bestiale e raccapricciante, e mi aveva ordinato di battermi contro ognuno di loro, uno alla volta, sforzandomi di utilizzare quella nuova tecnica. Scelsi l'avversario che mi pareva il più forte, un uomo alto più di due metri, massiccio e dalla pelle scura. Ma si rivelò davvero facile sconfiggerlo: tenendomi a debita distanza attivai lo sharingan, che, oltre a creare illusioni che confondevano l'avversario, mi permisero di far strisciare inosservata l'ombra, che lo avvolse in una stretta morsa. Lo sentivo dimenarsi, era davvero forte, ma lo acquietavo con le mie illusioni, i peggiori incubi che si potessero immaginare. 
Ero subdola, molto subdola. Il maestro mi aveva insegnato a esserlo sempre in battaglia. Non importava contro quale avversario mi battessi, l'importante era vincere. Sempre.
- Infilzalo. - mi ordinò. - Ma non ucciderlo. -
Manipolai l'ombra creando una sorta di lama appuntita che trafisse la mia "preda" da parte a parte nella zona del basso ventre, procurandogli un dolore inimmaginabile. L'uomo non si dimenava come prima, anche a causa della suggestione che mie illusioni gli provocavano.
- Brava, Mikoto. Ora finiscilo. Lentamente.
Al maestro piaceva assistere a morti lente e dolorose, sembrava che lo eccitassero. Mi chiedevo perchè mai lasciasse a me il compito di macellare le sue cavie. Io desideravo migliorare i miei ninjutsu, non arrangiare delle scenette macabre.
Finii l'uomo, che mugugnava come un animale. Un'altra punta entrò diretta nel costato, polverizzandogli le vertebre e spappolando gli organi interni. Era morto. Allentai la presa dell'ombra e rilassai lo sharingan. Il primo era andato, ne rimanevano novantanove.
- Vai, Mikoto. Sorprendimi.
- Uno alla volta, maestro?
- No, Mikoto. Tutti assieme.
Sgranai gli occhi. Tutti assieme? Sarei morta se li avessi affrontati tutti e novantanove contemporaneamente. Ma non c'era tempo per pensare: dieci di loro erano già sopra di me.

Andai avanti per ore e ore, finchè l'ultimo corpo non si accasciò al suolo.
Il sole tramontò dietro le solite colline alberate. Chissà cosa c'era lì dietro, nascosto anche al mio sharingan...
- Ben fatto, Mikoto. - si congratulò con me. - Puoi ritirarti.

Stremata e senza fiato, fui accompagnata da Kabuto nella mia camera. Attraversammo il labirinto sotterraneo di corridoi e porte, che dopo dodici anni avevo iniziato a memorizzare, finchè non giungemmo davanti alla scura porta della mia vuota e fredda stanza. Kabuto aprì la serratura con la solita chiave bronzea e spalancò la porta.
- Entra.
Obbedii. La porta si richiuse dietro di me con due mandate. Erano dodici anni che andava avanti così. Sveglia all'alba, allenamenti giornalieri sempre più duri e al tramonto di nuovo in cella, chiusa a chiave come una vera carcerata.

Già, ero la prigioniera di Orochimaru. Non era mio padre, o quantomeno non era stato lui a crearmi. Non ero frutto di uno dei suoi tanti esperimenti. Quelli non funzionavano su di me. Anzi, più volte il maestro aveva tentato di manipolare il mio corpo, ma invano. Non risultavo mai positiva ai suoi giochetti di laboratorio, e la cosa lo mandava in bestia. Così, piuttosto che arrovellarsi aveva deciso di sfruttare questa mia qualità.
Iniziarono così le mie giornate di allenamento. Sempre seguita e monitorata dal maestro, scoprii di poter controllare una miriade di tecniche, di poterle fonderle, creandone delle nuove e di inventarne altre dal nulla.
Ero diventata forte, molto forte, e di tanto in tanto il maestro si complimentava con me. Le sue dita viscide mi carezzavano la testa e i suoi occhi da serpente mi osservavano estasiati. Era il suo modo di congratularsi con me, la sua unica e sola allieva.

Ma cos'ero oltre a questo? Forse nient'altro, o forse molto di più. L'unico indizio che avevo sulle mie origini era un ciondolo rosso e bianco, dalla forma di un ventaglio tondeggiante. Era l'unica cosa che, da quanto io ricordassi, era sempre stata con me. Non avevo la benchè minima idea di cosa significasse quel simbolo, e il maestro si rifiutava puntualmente di darmi spiegazioni. Temeva che forse l'avrei lasciato? Come avrei potuto. Lui è l'unica cosa che avrei potuto chiamare "famiglia", l'unica persona che si era interessata a me in tutti quegli anni, che mi aveva tenuta con sè.
Ma il prezzo da pagare era alto. Se volevo continuare a essere addestrata da lui, mai e poi mai avrei dovuto lamentarmi per le ossa roventi, o per gli occhi che mi esplodevano ogni volta che utilizzavo lo sharingan, o per il ribrezzo che provavo nell'assecondare la sua voglia di morte. Lui mi voleva forte, vigorosa, attenta, scattante. Ma cosa volevo io? Ero forte abbastanza per lasciare il covo, magari abbattendo una parete e fuggire via. Lontano. Verso un mondo che non conoscevo. Chissà quante terre meravigliose c'erano oltre le colline alberate, e quanti uomini come me. E magari, tra questa moltitudine avrei trovato la mia famiglia. 

L'avevo immaginata tante di quelle volte che non portavo più il conto. Immaginavo mia madre, dalla quale avevo ereditato la morbidezza dei capelli e il fisico snello; mio padre, che mi aveva donato i suoi occhi scuri e la forza che dimostravo in battaglia. Nei miei sogni mio padre e mia madre erano una coppia felice, innamorata, sorridente. Se fossero stati loro a crescermi avrei imparato tante e tante cose diverse dal solo combattere. Non che non mi piacciesse, ma non capivo perchè mi fosse concesso solo quello.

Avrei potuto viaggiare, esplorare il mondo che si celava dietro quelle colline così silenziose, conoscere la gente, affrontare dei veri avversari e battermi con la foga di una vera guerriera. Dopotutto, cos'ero se non una combattente? Beh, ero una detenuta, certo. Ma cosa avrei potuto fare per cambiare la mia condizione? Ero sotto la stretta sorveglianza di due ottimi ninja, i quali da dodici anni a quella parte sforzavano il mio corpo fino all'inverosimile, che, fino ad allora, aveva risposto più che bene.
Ed era questa la cosa che mi assillava più di tutte: che fine avrei fatto se non fossi stata più in grado di sopportare quei duri allenamenti? Il maestro si sarebbe certamente sbarazzato di me. E cosa avrei fatto dopo? Non avrei saputo cavarmela, questo era ovvio. Ma almeno avrei avuto la possibilità di allontanarmi da quella cella vuota e buia...
Non se ne parlava. 
Volevo essere il ninja più forte in assoluto, e se questo significava restare isolati dal resto del mondo e spaccarsi la schiena quotidianamente l'avrei accettato senza fiatare.

Con questi pensieri che mi affollavano la mente, mi abbandonai sul giaciglio e mi persi nei miei sogni da ragazzina, che tanto avrei desiderato si avverassero.
   
 
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