Fictional Dream © 2006 (23 giugno 2006)
I L’Arc~en~ciel (nella prima formazione major, Tetsuya Ogawa,
Ken Kitamura, Hideto Takarai e Yasunori Sakurazawa, poi Yukihiro Awaji in luogo
di quest’ultimo) sono uno dei più celebri gruppi di musica rock-pop giapponese.
L’autrice non intrattiene con i succitati artisti alcuna
relazione di tipo economico-collaborativo.
Questo testo narra eventi di pura fantasia, destinati al
diletto ed all’intrattenimento di altri fans: non persegue alcun intento
diffamatorio (né pretende di dare informazioni veritiere sulle persone di cui
tratta) o finalità lucrativa.
Nessuna violazione dei diritti legalmente tutelati in merito alla musica ed alla
personalità degli artisti succitati si ritiene intesa.
L’intreccio qui descritto rappresenta invece copyright
dell’autrice (Callie Stephanides - http://fictionaldream.iobloggo.com). Non ne è ammessa
altrove la citazione totale né parziale, a meno che non sia stata autorizzata
dalla stessa tramite permesso scritto.
*****
Tra le sue braccia, agita la mano.
“Saluta papà.”
A due anni esistono parole che non hanno alcun senso.
Obbedisci a una posa e a chi te la suggerisce, soprattutto se
ti fidi di una voce.
Un gesto finto, impacciato, guidato fin nella minima
oscillazione. In quei piccoli occhi – dicono simili ai miei, per il gioco delle
somiglianze che sembra inevitabile quando non conta neppure quel che c’è di
nuovo al mondo, ma come e quanto replichi bene il vecchio. Il sorpassato. Te
stesso. haido – non c’è la minima emozione; forse un po’ di stupore, per una
parola che può associare a un viso, finalmente. È l’unico vantaggio autentico
che gli lascio: la speranza di cancellarmi in fretta.
Ha detto che non è nulla di definitivo, che ha bisogno di
pensare, che è meglio persino per me, troppo impegnato per permettermi anche una
famiglia.
La invidio, perché è sempre stata piena di concretezza e
buonsenso e parole adeguate alle circostanze. Io non so davvero cosa sia meglio
per me, oltre bere fino al punto di vomitare il cuore e dimenticarmi anche dell’Apple.
Quello che mi piaceva sul serio era il sorriso di mia madre,
quando mio padre le allacciava la vita dietro il bancone del pub e le baciava
una guancia. La felicità era racchiusa in quel gesto: un arco una conchiglia una
metafora escludente. Un giorno, mi dicevo, avrei avuto anch’io quel guscio fatto
di carne e di emozioni. Sembrava scontato e semplice; non è così.
“Saluta papà,” gli ha detto.
Ho baciato sulla guancia mio figlio.
Si è nascosto dietro sua madre.
Non sono bastate neppure le parole di lei per scioglierci
entrambi dall’imbarazzo. Mi ha sempre visto troppo poco; di me conosce appena
una voce e un viso diverso da quello che mi appartiene.
Crede di essere figlio di haido, non di Hideto. A due anni ha
già fatto la sua scelta e capito tutto della vita. Gli unici coinvolti in questo
brutto quadro sono gli adulti; chi lo ha partorito e chi ci ha messo del suo.
Troppo poco, comunque, per fare il padre.
Avrei desiderato eguagliare il mio, ma mi è sempre mancata la
stoffa per essere davvero straordinario. L’unica certezza che possiedo è di non
aver sbagliato nello scegliere lei. Quello no. Eppure la volontà di amare non
basta mai, se ti manca tutto il resto.
Non riusciamo a guardarci per troppi motivi di cui nessuno,
per altro, somiglia davvero alla verità.
“Cerca di stare bene,” mi dice, pur sapendo che senza
un’ancora, prima o poi, andrò alla deriva come mi era stato annunciato un secolo
fa. Al contempo sa pure che molla gli ormeggi perché non sopporterebbe di
vedermi colare a picco. Non può invertire il flusso della corrente distruttiva
che mi attraversa. Non posso imputarle di volersi almeno salvare. Salvare se
stessa e il bambino.
“Non è nulla di definitivo.”
Parole che si succedono e rimbalzano nella mia mente, come
l’immagine via via sempre più inconsistente di una donna che ho amato e forse
amo, leggera e flessuosa, che sale in una mercedes elegante com’è tutto nella
sua famiglia – che non ho saputo eguagliare, né sostituire - e smette
all’improvviso di appartenermi.
C’è una falla, in me.
Non so dove. Non so come ripararla.
È troppo antica per arginare il danno, e al dunque affondare
una volta per tutte è quello che cerco.
Tetsuya Ogawa conosceva HYDE da quando si chiamava ancora
Hideto Takarai, era un chitarrista appena accettabile e somigliava a una
cantante folk americana, sarebbe a dire da un arco di tempo abbastanza lungo da
fargli credere ci fosse sempre stato.
Soprattutto, però, abbastanza consistente da costringerlo a
vedere in un’icona generazionale un essere umano, nulla di abbagliante o troppo
straordinario; uno come tanti, con troppi problemi e nodi irrisolti,
tuttavia, perché potessi pensare esistesse davvero la chiave per sciogliere il
suo enigma.
tetsu ricordava bene l’andamento progressivo e inevitabile
con cui mille crepe si erano aperte nel loro rapporto, sfaldandolo persino prima
che una decisione artistica trasformasse l’insofferenza in un problema di
contratti e di diritti; entravano in gioco i loro ruoli, più che la band.
La verità – non era così ipocrita da nasconderselo – constava
nel fatto che il test tailandese l’avesse costretto a fare i conti non la
realtà: haido aveva ingoiato l’arcobaleno di cui si era nutrito. Non v’era più
spazio per il primo motore di un sogno; l’imbecille che quell’iride aveva
costruito, blandito, salvato, senza che a nessuno venisse il sospetto l’arpeggio
di un basso fosse l’ogiva di una cattedrale gotica.
L’orgoglio gli aveva fatto male; la reazione che n’era
seguita era al contempo una difesa estrema e una bambinata. Aveva sentito il
bisogno di esorcizzare il demone nero dell’invidia con l’unico mezzo la vita gli
avesse insegnato, lavorando duro e tenendosi stretti i sogni sino a farsi dolere
le dita. Isolandosi poco a poco, per evitare, forse, di fargli davvero del male
in quel modo diretto, stupido e indifeso con cui, per contro, Takarai si muoveva
a tratti. Impunito e impunibile.
Ogawa sapeva di non poterlo odiare, ma di non poter comandare
per sempre alla razionalità geometrica della proprie strategie; a quel punto era
meglio ignorare ci fosse. Eppure, quando l’inevitabile era accaduto, era ancora
lì, spettatore un po’ incredulo e coinvolto, perché non puoi lasciare che un
colpo di spugna di rancori si porti via oltre un decennio di sogni divisi, sogni
da cui era difficile scindere quella piccola bambola bianca che, a tratti,
ancora nei suoi ricordi gli tirava un bacio casto e sporco al contempo,
ammiccando sotto lunghe ciglia e un manto setoso di chiome da strega.
Ai sette concerti di Shibuya, nei fatti, sembrava quasi che
Takarai avesse inviato la propria ombra a cantare, non la troia dai
virtuosismi tenorili che conoscevano tutti. Persino durante l’ultima tappa del
Real Tour, con le costole rotte e una decina d’ore di sonno in un mese di
lavoro, aveva saputo fare di meglio. Erano passati tre anni; aveva vinto tutto e
si era come spento.
“Ha fatto la stronzata di mettersi il guinzaglio, Tetchan,”
aveva lanciato Ken, con un’indifferenza solo apparente e molto studiata.
Avevano lavorato insieme per un mese, quei due, e ne avevano
tratto un rapporto più consistente e forte che non sul palco. Sul momento, per
la verità, aveva solo pensato che c’entrasse Sakura. Kitamura gliel’aveva
servito su un piatto d’argento; haido era per certo impazzito dalla felicità.
Non si era soffermato a riflettere sulla circostanza fossero
ormai tutti più vecchi, corrotti, realisti. Non si era neppure ricordato dell’haido
innamorato di Megumi e di Megumi soltanto, intimidito, imbarazzato, ma con un
sorriso eccezionalmente vivo davanti alle telecamere. Il sorriso più vivo dopo
la morte del novantasette. Non aveva colto la traccia sottile che un chitarrista
molto più intelligente e intuitivo di quanto non lo fosse un basso gelido e sul
chi vive perenne gli aveva dato per ricucire antiche ferite; non aveva capito
che il cuore di Hideto si era come spezzato per l’ennesima volta, solo perché
non somigliava a nessuno di loro.
Non fingeva, né l’amore, né la solitudine.
Poi, quasi senza soluzione di continuità, la realtà gli era
arrivata addosso; un déjà-vu, ma pur qualcosa di completamente diverso. Era
luglio, uno di quei mesi roventi, che la canicola soffocata dallo smog di Tokyo
rendeva ancora più intollerabili.
Avevano cominciato a lavorare a Smile. I testi di
haido funzionavano, ma erano vuoti, del tutto privi di emozione. Per l’ennesima
volta non aveva potuto fare a meno di pensare gli somigliassero. Takarai
scriveva seduto sul divanetto dello studio, a testa bassa, senza distrazioni. Di
quando in quando si fermava per giocherellare con quell’anellino d’oro che aveva
preso il posto d’ogni stravaganza da rockstar. Parlava poco, ancora meno del
solito.
Beveva molto, molto più del solito, molto più di quanto
ricordasse, senza riuscire a diventare mai abbastanza alticcio da sembrare
davvero allegro.
Aveva un’aria da uomo per la prima volta in vita sua; troppo
seria, però, quasi fosse invecchiato all’improvviso o avesse aperto gli occhi
per guardare una vita assai meno poetica e colorata di quella che raccontavano
le sue canzoni.
“Non ti sembra di bere troppo?” aveva accennato una volta,
senza particolare partecipazione. Altrettanto atono aveva risposto lui; un anno
a Londra, ormai era diventato un gaijin completo, soprattutto nei vizi.
Due giorni dopo aveva detto all’improvviso di sentirsi poco
bene, allontanandosi dallo studio. Era notte fonda; forse mezzanotte, se non
l’una del mattino. Come ai vecchi tempi si tirava tardi per le registrazioni.
Dopo un’ora era parso quasi logico affacciarsi dalle parti del bagno: c’era
vomito ovunque e haido incosciente sul pavimento.
Grumi di sangue picchiettavano ammassi giallastri di una cena
neppure digerita; gli era mancato il fiato persino per bestemmiare. Al contempo,
nondimeno, era come se la nube di rancore e incredulità che li aveva allontanati
si fosse dissolta, perché quel nuovo Hideto silenzioso e così adulto era sempre
lo stesso del “Tetchan posso venire da te?”: era Ogawa che aveva smesso
di ascoltarlo.
L’aveva accompagnato in ospedale, senza far nulla di più se
non passargli come mille altre volte un braccio contro le spalle e trascinarlo
verso la propria auto. Non gli aveva chiesto di parlare, perché sapeva che non
sarebbe accaduto; poi, all’improvviso, magari nel momento meno scontato, haido
l’avrebbe fatto comunque. A modo suo.
Era pallidissimo, spigoloso, quasi brutto, poi, nel momento
in cui le loro dita si erano sfiorate in una specie di maldestro saluto, nei
suoi occhi la luce della paura si era fatta tanto viva da fargli male.
Un po’ come l’inevitabile referto medico.
‘Come hai potuto farti tanto male, Doihachan?’
L’aveva pensato. Non detto.
Non voleva sembrargli sentimentale o debole, perché sarebbe
stato quasi ammettere che non era mai riuscito a guardarlo davvero solo come un
compagno di squadra o un amico. Preferiva mantenere una distanza di sicurezza
che inficiasse il peggiore dei pericoli immaginabili, permettergli di entrargli
dentro, in quel modo tanto distruttivo e tanto pericoloso che conosceva per
un’esperienza senz’altro indiretta, ma egualmente vivida.
“Dovresti pensare seriamente a disintossicarti,” gli aveva
detto, severo e controllato come al solito, fissando l’asta della flebo per non
indovinare il dolore o la delusione di occhi che avevano posseduto sempre e solo
una domanda senza risposta.
‘Mi vuoi bene?’
Non era nulla che ammettesse davvero una replica.
“D’accordo,” gli aveva risposto quieto. Sospettava che la
ragione profonda fosse il suo ordine, non il buonsenso di capire che
trentaquattro anni erano troppo pochi per un fegato e polmoni ridotti come i
suoi – ma il buonsenso non sembrava appartenere alle stelle autentiche, quelle
tanto luminose da bruciarti e bruciarsi con ridicola facilità.
“Ho come l’impressione che il matrimonio di haido non vada
molto bene.” Era stato Sakura a dirglielo, mentre lavoravano a Reverse.
Quando gli aveva proposto quella collaborazione, il
batterista l’aveva fissato con un’espressione quasi offensiva; come se quell’incredulità
fosse l’accusa tacita per un rancore che la storia aveva tutto il diritto di
giustificare. Come se avesse dimenticato quel ragazzetto del Kansai, folle per i
Dead End, che gli sbavava dietro sino al punto da porre in gioco la propria
faccia per averlo. Come se avesse dimenticato il bassista rompicoglioni che
faceva la balia e il leader.
Non aveva pensato neppure per un momento che anche a tetsu
fosse mancato il suo gorilla? Contava sempre e solo haido, che al dunque
non diceva di no neppure alle stronzate?
Aveva ingoiato il rospo.
Si era fatto riscoprire e riconoscere per quello che era
diventato, dopo anni di luci e interviste e carta patinata e calci in culo
ingrati di un pubblico che neppure sapeva distinguere un basso dalla chitarra.
Yasunori si era sciolto poco a poco, finché non era arrivata quella riflessione.
E Ogawa era emerso di nuovo, nel modo peggiore.
Una battuta del cazzo, in ogni senso, ma non era perfetto.
“La sua vita sentimentale ti sta molto a cuore, vedo.” Non
avrebbe dovuto; era accaduto comunque. Sakura aveva celiato sul momento, ma non
era seguito che un nuovo silenzio, sclerotizzato come vecchi rancori e troppi
sospesi. La colpa, in fin dei conti, era di Takarai: come ne sentiva parlare,
per qualche distorto motivo, subentrava un’autodifesa estrema, puntellata su un
cinismo di circostanza violento e prevaricatorio.
Probabilmente Sakura parlava come un vecchio amico e come
qualcuno che aveva sempre lasciato parlare Hideto più di haido.
Tetsuya, però, non voleva ascoltare per quel motivo, per il
fatto ci fosse stato un tempo in cui solo tetsu raccoglieva il meglio e il
peggio di una candida chimera. Un tempo ch’era finito troppo presto e che si era
mangiato l’arcobaleno. Un tempo non più recuperabile.
Non aveva mai smesso di pensarvi in tutti quei mesi:
un’ossessione violenta, che la tensione traduceva nel suo opposto, un dito
puntato, accusatorio e crudele, quando il suo cuore cercava in realtà di negare
la risposta dovuta a quegli occhi. E haido, silenzioso nei suoi mille tranelli e
irrisolte infelicità, sfuggente e a tratti arrogante, usciva dallo specchio dei
suoi incubi per costringerlo in una posizione di difesa.
Quasi tre lustri, e quella battaglia che non aveva mai avuto
il coraggio di combattere era ancora lì.
In posizione di stallo.
Awake, più che una rinascita, era stato un incubo.
Un paio di volte persino Ken e Yukki avevano abbandonato lo
studio, liquidandoli con uno ‘Scannatevi, cazzo e poi vediamo di lavorare’,
come non accadeva neppure agli esordi, quando tutto sembrava piuttosto troppo
facile, per il successo vertiginoso che li aveva vestiti.
Troppo facile, troppo immediato: era quello il problema.
Quello e il fatto non sembrassero più ripetibili scene
memorabili come quella di Snow drop, seduti su un divano, a piangere come
fontane davanti a un anime, vicini e coinvolti come un solo cuore.
Aveva musicato Trust nella piena consapevolezza di non
credervi affatto, o meglio di non volersi concedere di aprire la porta che
troppe delusioni avevano chiuso a doppia mandata.
Questa volta la chiave era sparita davvero e non ne
esistevano validi duplicati.
Hideto sembrava sfidarlo a modo proprio; non tornava quasi a
casa, lavorava più di lui. Poche parole, mezze frasi, troppe sigarette.
Capelli lunghissimi, onde morbide contro fogli di appunti.
Vecchi gesti distratti, che procuravano déjà-vu dolorosi.
Aveva voglia di accarezzarli, ecco; doveva sforzarsi di essere franco almeno con
se stesso, ma non l’aveva mai fatto.
Non voleva cedere a quella seduzione, per quanto la sua
persistenza fosse il primo dei capi d’accusa pensabili.
Litigi continui, su tutto.
“Questo non è il nuovo album di HYDE. Te lo sei dimenticato?”
“Vaffanculo.”
Ogni giorno così. Un inferno.
Quando lo strazio si era concluso, haido si era tagliato di
nuovo i capelli; incapace di recuperare un passato morto, forse, aveva
rinunciato a quella maldestra e tacita supplica. La routine di lavoro indefesso
e marce forzate per la produzione era ripreso. La stanchezza mordeva come una
nuova insofferenza reciproca. Ne aveva parlato con Ken, come al solito, e
Kitamura, quella volta, non aveva tentato di essere conciliante o diplomatico.
“Se questo è un gruppo, Tetchan, mi scopo un travestito. Con
tutto il rispetto per Rena, si intende.”
Aveva annuito a testa bassa.
“Sono quindici anni, tetsu. Non so davvero come ci siamo
arrivati, ma a queste condizioni sono io che non voglio continuare.”
Diretto, limpido, inequivocabile; ogni volta riscopriva le
ragioni profonde per cui l’aveva sempre visto come qualcosa di determinante e
insostituibile nell’alchimia della loro storia. In quel caso, nondimeno,
realizzare l’inoppugnabilità di un punto di stallo non salvava davvero nessuno.
Due anni dal giorno in cui il segreto dell’indifferenza aveva
cominciato a sgretolarsi; due anni, un’estate caldissima e la stanchezza tesa
che precedeva un evento epocale. Forse sarebbe stato il canto del cigno, forse
solo l’ennesimo tentativo di percepirsi ancora come un corpo unico, indiviso e
indivisibile in ogni propria cellula.
Erano rimasti soli, come forse imponeva quell’evidente e
ridicola guerra tesa alla definizione di nuovi ruoli e nuovi equilibri. haido si
era raggomitolato sul divano dello studio, con gli occhi chiusi.
Una presenza-assenza indisponente.
Un memento dalla persistenza dolorosa; aveva di nuovo la
febbre alta da tre giorni, ma non aveva mancato una sessione, quasi a sbattergli
davanti tutto quel che in passato gli aveva rimproverato.
Distruggeva scientemente ogni suo ricordo e ogni sua certezza
per costringerlo a scoprirlo di nuovo? A volergli bene per quello che era, dopo
quindici anni di brutte mascherate?
“Vattene a casa. Stai male,” gli aveva detto secco, senza
sollevare lo sguardo dal basso. Immobile, rigido, guardingo dall’estremo opposto
del divano.
haido aveva riso, senza rispondere nulla; un’ilarità
sarcastica e polemica, era evidente.
“Come ti pare. Ti ricordo solo che cominciamo tra due
settimane e non sono ammesse scuse.”
“D’accordo, sono-il-leader-Tetchan. Morirò solo in
autunno. Va bene?”
“Fatti tuoi,” aveva replicato gelido, pizzicando le corde con
una forza che sarebbe forse bastata a spezzarle.
Aveva ascoltato il silenzio che li aveva inghiottiti come una
liberazione, sforzandosi di azzerare ogni proprio pensiero, nella consapevolezza
inoppugnabile fosse l’unico modo per resistere davvero a una voce insopportabile
che aveva sempre gridato nel punto più profondo del suo ego.
‘Lo vuoi. Vorresti fosse tuo, perché sei il solo a non
averlo mai tradito.’
Non era razionale.
Non era giusto.
Non era nulla che gli appartenesse davvero.
La realtà aveva smesso di avere senso; corda dopo corda aveva
pizzicato via ogni emozione inopportuna, concentrando sugli arpeggi i residui di
un’umanità scomoda, grave come un macigno.
Quando aveva sollevato lo sguardo, l’orologio segnava l’una
del mattino. Si era alzato senza voltarsi, immaginandosi solo con le proprie
tenebre, ma al riparo da sguardi inopportuni.
Hideto, per contro, c’era ancora, raggomitolato nel suo
angolo, silenzioso e discreto persino mentre le sue lacrime scivolano
indisturbate, senza cercare ascolto o testimoni.
Due solitudini allo specchio, riflesse nella reciproca
incomunicabilità. Intollerabile.
Gli si era inginocchiato davanti, traendolo contro di sé.
Sentiva il profumo dei suoi capelli, il tepore della sua pelle e l’ansito
irregolare del suo respiro.
“Torna a casa, Doihachan. Hai lavorato anche troppo. Goditi
un po’ la tua famiglia e non pensare a tutto il resto.”
haido aveva singhiozzato flebile, senza allontanarsi dal suo
petto; stringendo anzi con più forza l’abbraccio, quasi volesse entrargli
dentro.
“Sono solo ormai, Tetchan. Ho sbagliato anche questa volta,”
l’aveva sentito sussurrare piano.
Aveva chiuso gli occhi, senza rompere il contatto e senza
nascondere a se stesso l’ennesima verità: oltre la simpatetica infelicità
respirava un insano sollievo.
“Non ci credo,” aveva mormorato. “Tu non puoi stare solo.”
Forse haido aveva sorriso, una piccola smorfia tra le
lacrime. Amara e salata come quello che scivolava lungo le sue guance.
“Sembra proprio di sì, invece. Anche tu ne hai abbastanza di
me.”
Forse era vero, ma non nel senso che intendeva quel piccolo
stupido. Non davvero in quel senso.
“Ti accompagno,” aveva detto, incapace di chiamare pensieri e
sensazioni che non gli sarebbero comunque piaciuti, e che dunque era legittimo
marcissero in un nucleo nascosto e riparato del suo ego.
haido aveva dormito per buona parte del tragitto, rendendo la
vicinanza e l’attesa un quadro fiammingo di brutte suggestioni e tentazioni
certe. Non era in grado di fare un pronostico per le prossime ore. Non era in
grado di dire quale nume l’avrebbe soccorso, se la razionalità o il coraggio; in
quel caso era certo che non si sarebbero dati la mano, né vi sarebbe stato alcun
accordo.
Non aveva mentito, non a una prima occhiata: la casa sembrava
deserta, troppo grande per lui, sinistra come l’aveva percepita fin dal primo
giorno – o forse era l’effetto della notte e del silenzio. haido era entrato,
movimenti rallentati, un pesce nell’acquario sbagliato.
Si era volto nella sua direzione, trattenendolo con uno
sguardo inequivocabile.
‘Non lasciarmi.’
Era un ordine o piuttosto una supplica? In Takarai i due
piani si erano sempre confusi.
“A letto. Subito,” aveva detto con severità studiata.
Hideto aveva fatto un mezzo giro grazioso, quasi derisorio,
cadendo poi a terra, come una marionetta cui abbiano tagliato i fili. Stupido.
Oltre braccia scolpite e nervose – un fascio di tendini e
vene evidenti – era rimasto piccolo e magro; non femminile, ma senz’altro
androgino, quello sì.
Il tempo non lo sfiorava nella sua accezione più crudele, ma
nel dispensarlo da quella violenza lo consegnava all’unicità della solitudine.
L’aveva spogliato quasi tremando, consapevole di un contatto che stavolta non
era Takarai a cercare, eppure persisteva. Gli aveva bagnato la fronte,
impedendosi di guardare quelle piccole labbra, piene e cesellate come quelle di
una bambola. haido aveva reclinato il capo, fissandolo poco dopo con occhi
pallidi – forse lo sguardo che li aveva resi immortali.
“Perché, Tetchan?” l’aveva sentito sussurrare.
“Per me o per il gruppo?” Era rimasto in silenzio per un po’,
prima di allontanare una ciocca umida da quel viso troppo bello per appartenere
a un sesso e alla storia dell’uomo senza dannare.
“Per me,” aveva infine replicato, prima di chinarsi su di lui
e incatenarne la lingua.
“Va bene come risposta?” aveva poi mormorato.
haido aveva replicato con un sorriso timido e mite.
“Credo di sì. O non l’avrei aspettata per quindici anni.”