Fictional Dream © 2006 (27 ottobre 2006)
I L’Arc~en~ciel (nella prima formazione major, Tetsuya Ogawa,
Ken Kitamura, Hideto Takarai e Yasunori Sakurazawa, poi Yukihiro Awaji in luogo
di quest’ultimo) sono uno dei più celebri gruppi di musica rock-pop giapponese.
L’autrice non intrattiene con i succitati artisti alcuna
relazione di tipo economico-collaborativo.
Questo testo narra eventi di pura fantasia, destinati al
diletto ed all’intrattenimento di altri fans: non persegue alcun intento
diffamatorio (né pretende di dare informazioni veritiere sulle persone di cui
tratta) o finalità lucrativa.
Nessuna violazione dei diritti legalmente tutelati in merito alla musica ed alla
personalità degli artisti succitati si ritiene intesa.
L’intreccio qui descritto rappresenta invece copyright
dell’autrice (Callie Stephanides - http://fictionaldream.iobloggo.com). Non ne è ammessa
altrove la citazione totale né parziale, a meno che non sia stata autorizzata
dalla stessa tramite permesso scritto.
*****
Esistono contesti in cui una maschera da pagliaccio non serve
a niente e sarebbe preferibile accantonarla da qualche parte, là dove dà meno
fastidio. Là dove nessuno può chiederti di sorridere a una telecamera, perché
c’è una luce rossa che ti pone in comunione con chi non vorrà mai sapere niente
di te. Non del tuo vero io, almeno, quello poco coreografico e accettabile e
commerciabile.
L’ho capito presto che il mondo non girava per gravità né per
forze newtoniane e geometriche, come recepivano le mie orecchie in quei
pomeriggi soleggiati di corsi pomeridiani e noia e sassate contro la finestra –
e se mi affacciavo, tetchan mi fissava immobile, dietro i suoi occhiali spessi,
con i jeans alla moda e i capelli troppo lunghi. Uno sguardo colmo di
rimprovero, come la sua testa era piena delle note che il basso sulla sua spalla
mi avrebbe regalato.
L’ho capito perché a diciotto anni ero uscito di casa per
studiare al Politecnico di Nagoya e i soldi che passavano i miei non bastavano
mai per la vita che sognavo o volevo vivere. Forse è stato anche per quello che
ho seguito Ogawa, perché mi piaceva l’idea di farne tanti divertendomi; farne
come un architetto non ne avrebbe mai accumulati.
Il problema, però, è che non riuscivo a vedere anche l’altra
faccia della medaglia, quella che mi sussurrava come vendere fosse anche
vendersi.
È lì che finisce il gioco e comincia il lavoro.
È lì, in ogni caso, che si colloca il capolinea.
È in quel preciso, geometrico punto d’arrivo e di stallo che
si colloca la mia voce, la confessione di un pagliaccio chiamato Ken Kitamura, o
come vi fa più comodo chiamarmi; quando diventi un’icona, quello che sei è una
variabile dipendente dall’umore di chi ha comprato la tua libertà.
A volte penso ch’è un brutto sogno, un brutto momento e che
tutto passerà, si dileguerà come la nebbia di novembre lungo il fianco di una
collina scoscesa. Ho vaghi ricordi di quei paesaggi e odori rassicuranti di
campagna, animali, famiglia. L’espressione concentrata con cui vedevo mia
sorella calpestare le foglie sotto le scarpette di cuoio.
Io non cammino ancora, ma i miei occhi registrano tutto. Sono
forse già in grado di leggere le note sul pentagramma della vita; le stesse che
un’altra voce ha poi cantato, sottraendole all’oblio dell’interlinea.
In momenti come questi la nostalgia è ancora più forte, la
nostalgia e la voglia di tornare indietro a quei colori, a quegli odori, a
quelle ingenuità; persino al liceale che ero, sempre teso e contratto e fedele
alla disciplina e al mio ruolo di studente serio e capace. Uno che avrebbe fatto
l’università, chiuso per un’ultima volta la custodia della chitarra e progettato
un nuovo ponte da stendere sulle immensità sospese di isole antiche.
Anche quello era Ken Kitamura, uno che sorrideva meno, ma, se
non altro, lo faceva perché era davvero felice. Il sorriso, invece, come le
lacrime spese con troppa facilità, alla fine si inflaziona da solo e perde ogni
significato. Ormai è una specie di paralisi che mi sfigura le labbra, oppure
l’unica cosa possa fare per star loro vicino e rendere meno amaro e distruttivo
il calice colmo di veleno con cui hanno sostituito il miele della fama.
Lo sapevo da tanto, lo ammetto; lo sapevo, come lo immaginava
tetsu, ma non potevamo afferrarlo per le spalle, guardarlo in faccia e dirgli
‘Perché ti buchi?’ ‘Ti droghi, Sakura?’ ‘Stai rovesciando in un cesso tutto
quello che abbiamo costruito. Te ne rendi conto?’
O forse dovevamo farlo, ma nessuno di noi era preparato ad
affrontare qualcosa del genere. Non pensavamo neppure di arrivare tanto in alto,
forse è stato quello che ci ha impedito di capire che se fossimo caduti, ci
saremmo proprio per questo fatti proprio male.
Un’altra verità è che non so da che parte stare. Se essere
triste o arrabbiato. Se compatire Sakura o tetsu.
Non ricordo neppure com’è cominciata, né quando è finita
davvero. Di sicuro non è stata la lettera di Yacchan il punto fermo; quella
serviva alle jene per rifarsi la bocca dal fiele che ci avevano vomitato
addosso.
I punti fermi sono altri: Yacchan che non esce dal bagno
neppure se gli urli che ti stai cagando addosso. haido che si chiude nello
studio di registrazione e singhiozza per mezza giornata, senza dirti cosa
diavolo gli sia preso, così, da un momento all’altro. tetsu che non scolla una
mezza parola per ore intere e diresti sia diventato un pezzo di marmo, se non
gli guardi le dita mentre cambia le corde del basso – corde che ora spezza di
continuo, neppure fosse ancora un principiante – e realizzi che tremano come
quelle di un vecchio. Sakura strafatto malgrado la diretta, con gli occhiali
scuri e una specie di ghigno fuori tempo e fuori fuoco, che devo quasi scuotere
per svegliare in modo accettabile. haido che prova a sorridere, ma se gli guardi
gli occhi ti accorgi che sono già quelli di un suicida – non a caso comincia ad
indossare sempre gli occhiali da sole, persino se quel sole maledetto non c’è
più da nessuna parte. tetsu che non dorme neppure a inghiottire tubi interi di
sonniferi e forse si chiede che valore abbia essere il leader, se è palese non
possa guarire quell’inaspettato tumore. tetsu, che forse è il mio migliore
amico, ma che non so come aiutare.
Tutto quello che posso fare è incollarmi in faccia la
maschera da pagliaccio e ridere per tutti e quattro, e nascondere dietro il
rumore assordante e falso di un applauso divertito il nostro silenzio. Forse è
questo l’unico ruolo mi competa davvero, per quanto non spetti a me decidere che
parte occupi in una storia su cui tutti hanno voluto dir la propria e dispensare
giudizi, ma che sono pure certo nessuno abbia davvero capito.
Così è la vita, in fin dei conti; chi vi è immerso non
conosce quel pezzetto di cielo che lo sovrasta.
In principio tetsu e io fummo distratti da ‘altro’. Ne
avevamo parlato spesso tra noi, come capitava un po’ con tutto, dalle ragazze
alla musica. Più di musica che di donne, comunque, si discuteva, perché Tetchan,
senza avere grandi inibizioni, parlava raramente dei propri sentimenti. Penso
entrasse in conto anche haido, comunque. Non avrò mai la certezza che
l’ammirazione incondizionata di Ogawa fosse diventata qualcosa di molto più
complicato, ma il suo prendere le distanze da Takarai, ai miei occhi, non era
che l’opposto di quel che sembrava.
Forse tetsu sapeva che non era più solo amicizia e allora
preferiva passare per quello freddo che non rovinarsi con qualcosa di
irreparabile. Forse proietto impressioni di parte, imprecise e viziate dallo
strano clima in cui vivevamo allora. Tutta colpa e merito di haido, comunque:
aveva bisogno dei nostri sguardi e giocava a confonderci per non perderci. In
compenso si perse lui, si smarrì Sakura e l’arcobaleno sbiadì come i toni nello
sguardo di un daltonico.
Tetchan e io condividevamo ansie e sospetti che nascevano sul
fanservice, ma si proiettavano sullo schermo nero della nostra coscienza come
paure radicate. Tra il dire che l’omosessualità non sia un problema e accettarla
in un amico, il passo da compiere è molto più lungo della gamba che dovrebbe
tentarlo. Affrontavamo il tema in modo obliquo, quasi sempre per ridere, ma
senza riuscire a staccare gli occhi da quell’angolo dello studio in cui haido e
Sakura stazionavano vicini. Forse tetsu soffriva per quel coraggio che gli aveva
fatto inghiottire i sentimenti e sempre impedito di scoprire le carte. Io mi
sentivo a disagio, perché non sapevo a quale voce credere, se alla razionalità
che minimizzava ogni gesto entro la cornice, o all’istinto che rilevava i
dettagli peggiori. Entrambi concordavamo almeno su di un punto: era stato
Takarai a cominciare.
Quando l’avevo conosciuto, malgrado la sua aria hippy, Hideto
non mi aveva dato l’impressione d’essere uno di quelli. Era molto virile,
persino nel suo essere all’occorrenza trasandato e sciatto come un ragazzo di
vent’anni interessato solo alla propria divorante ambizione. Si muoveva come un
maschio. Parlava come un maschio. Mangiava e si sbronzava come un maschio. La
troia del palco svaniva con un po’ di latte detergente e l’inflessione pesante
dell’Osaka-ben. Era carino e pieno di talento, ma non lo percepivo come qualcosa
di diverso da quello che potevo leggere in uno specchio. Il mutamento era stato
strisciante e lento e quando l’avevo realizzato – il sottoscritto, ma Tetsuya
con me – eravamo già in Marocco, a fissare increduli una principessa dalla
bellezza quasi dolorosa.
haido e io dividevamo la stessa stanza, ma finanche nel
privato non c’era comunque verso di rivedere Takarai.
Flash incoerenti si susseguono sulla mia retina. Me lo rivedo
com’era allora; venticinque anni, ma ne dimostrava dieci di meno. I boccoli che
gli scivolano decisi fino a mezza schiena. Palpebre socchiuse come tutti i miopi
che impiegano un po’ di tempo a mettere a fuoco. Non portava gli occhiali,
perché aveva paura rovinassero la linea perfetta del suo naso. Aveva le gambe
corte e leggermente arcuate di tutti i giapponesi, ma erano pallide e sottili.
Le ginocchia nodose si intravedevano appena oltre l’orlo di una maglietta
oversize, come ne portava qualche ragazza con cui passavo la notte nel convitto
degli studenti di Nagoya. Ragazze che non potevano reggere il confronto con
quella bellezza ingenua e torbida al contempo; ci aveva regalato la sorella che
non aveva mai avuto, salvo nascondersi chissà dove.
A tratti lo fissavo con troppa insistenza, perché si voltava
a guardarmi con aria interrogativa. Ero colmo di domande confuse e non ce n’era
una che potessi fargli. tetsu la pensava come me, credo, o forse si era persino
già innamorato. haido era diverso nel modo di muoversi come di raccontarsi, per
immagini e parole. Il suo sguardo, soprattutto, a volte accarezzava Yacchan come
un guanto, salvo ritrarsi immediatamente, forse per la sottile paura d’essere
troppo manifesto e sfacciato.
Ne parlavo con Tetchan e provavamo a riderne, ma credo
temessimo entrambi che fosse vero. Se non andavano già a letto insieme, di
sicuro Takarai l’avrebbe desiderato. A quasi trent’anni, cioè, un migliore amico
non ti sta sempre incollato fin quasi a seguirti in bagno – ed era quello che
haido faceva.
Fu così che fu anche il primo a sapere di Yasunori.
tetsu aveva sempre avuto un debole per haido, fin da quando
si chiamava Hideto e tentava di cantare come Morrie. Probabilmente si era detto
fosse ammirazione per quel talento e quella voce. Ogawa erano uno rigido, dai
sentimenti puliti, sempre sotto controllo. Così avrebbe voluto, almeno. Forse
avrebbe voluto allentare le briglie, di quando in quando, ma era l’unico
coraggio gli mancasse davvero. Era riuscito a trattenersi finché Hideto si era
ricordato di essere un uomo, ma il nuovo Takarai disorientava tutti.
Anche me.
haido era molto forte e molto fragile insieme. Aveva un
bisogno incondizionato di Ogawa, e glielo diceva. tetsu non parla quasi mai del
passato, ma di sicuro è stata proprio la dolcezza di Takarai quel che lo ha reso
più felice; il sentirsi finalmente unico e necessario. Si è innamorato di lui,
perché non c’era nessuna creatura al mondo lo idolatrasse come desiderava? Può
anche darsi, ma sono solo riflessioni mie.
haido non era omosessuale, ma non potevo neppure giurare
fosse eterosessuale. Tradiva in tutto e per tutto il suo aspetto. Se avessi
scoperto fosse un ermafrodito, da un giorno all’altro, non mi sarei stupito.
haido amava l’amore, la bellezza, la dolcezza, il calore e il
contatto; avrebbe amato chiunque fosse stato in grado di offrirglielo, temo.
Senza schermi e senza distanze pericolose. Così anche Sakura.
Ma fino a che punto si erano spinti?
Ne parlava chiunque e non lo sapeva davvero nessuno.
tetsu ci soffriva e io ci stavo male: per lui, per il gruppo
e perché non sapevo come comportarmi. Nel buio, in uno dei tanti alberghi in cui
vivevi per intere settimane all’anno, a tratti si avvertiva nel silenzio della
notte una porta che si apriva.
“Yacchan? Sono io. Mi apri?”
Una, due, tre volte. Un’abitudine, alla fine. Tetchan
prenotava loro una doppia, senza neppure guardarli in faccia. Non riusciva
neppure al sottoscritto, in ogni caso. L’ho detto: non avevo nulla contro i gay,
ma preferivo che la mia restasse solo una posizione di principio, non di fatto.
Poi, quando la fine di quell’incredibile volo dal cielo
all’Inferno si fece fin troppo prossima, fu haido stesso a dirmelo.
Aveva preso il coraggio a due mani e si era dichiarato, ma
Sakura, con gentile fermezza, non aveva risposto al suo bacio. Non l’aveva
voluto. “Siamo amici, haido. Solo questo.”
Raccontava con gli occhi bassi. I suoi capelli erano di un
rosso acceso e orribile, che lo faceva somigliare a una foglia autunnale, già
caduta in terra e calpestata milioni di volte. Forse non era amore, il suo, ma
gli somigliava molto, e si univa a tante ragioni diverse d’essere comprensibile
e irreale al contempo.
Paura di crollare, solitudine, terrore di quel che stava
accadendo a Yasunori: forse si illudeva che stringendolo entro le maglie di una
relazione sarebbe mutato qualcosa; qualunque cosa, purché le lancette di un
tempo impazzito tornassero indietro.
haido era un tipo così, gli era più facile scappare che non
affrontare la vita. In un qualunque modo.
Ma non è così facile.
È strano pensare che alla fine avesse scelto di parlare
proprio con me – forse perché ero il meno coinvolto e allora non avevo neppure
bisogno di leggere tra le righe, s’era tutto lì, nero su bianco.
Seduti sul divano di casa mia – Elizabeth doveva essere
uscita a farsi una passeggiatina da qualche parte, oppure l’avevo chiusa in
camera da letto, non so. haido aveva già abbastanza problemi a respirare perché
gli abbreviassi l’agonia – provavamo qualche accordo di Flower. L’aveva
scritta tutta da solo, testo e musica.
A leggerla ti accorgervi subito del perché.
Mi aveva chiesto una mano per un paio di battute che
ritmicamente non lo convincevano granché. Non so da dove gli venisse l’idea che
fossi una specie di genio della composizione, ma mi aveva sempre trattato come
se fossi la risposta perfetta a tutte le sue lacune. Era l’unico, a tratti, a
disconoscere un talento unico. A volte, invece, insopportabile e su di giri, era
una prima donna sfrenata e arrogante.
Non accadeva quasi più negli ultimi tempi, comunque.
Leggevo il testo di quella canzone e mi sentivo soffocare.
Tutte le ultime liriche di haido ti davano quell’impressione claustrofobica e
violenta di un’infinita disperazione. Eravamo diventati persino ricchi; era
incredibile immaginare qualcuno si sentisse tanto ferito dentro.
Hideto, però, era avido di tutto, non solo dei soldi.
Non so come diavolo abbia potuto uscirmene così, senza il
minimo schermo o perifrasi diplomatica. Gli dissi solo: “Ma è per Sakura?”. E
haido annuì a testa bassa, affondando le dita nella stoffa di un paio di brutti
pantaloni di velluto – all’epoca gli andavano bene. Di lì a qualche mese,
faticavano a stargli su persino con una cintura stretta quanto un laccio
emostatico.
Vuotò il sacco? Posso chiamare così quel che accadde?
Mi raccontò dei problemi di droga di Sakura; del giorno in
cui l’aveva seguito fino all’inferno di Shinjuku ni-chome pur di non lasciarlo
solo, a rischio di essere rapinato, violentato o ammazzato. haido era bravo
anche in questo, bravo a fregarsene del buonsenso o dell’orgoglio, quando in
conto entravano le emozioni.
Le sue, soprattutto.
Credo sia stata quella situazione così complessa, disperata e
difficile a condurlo sino a una totale entropia del cuore e dei propri
sentimenti. Sino a quel momento aveva sempre gestito il rapporto con Sakura come
un’amicizia a tratti troppo invadente, ma un’amicizia. Ora che tutto si
complicava nel modo peggiore, però, anche la percezione di quel che provava si
era distorta senza rimedio. Su quelle basi credo fosse maturata la sua
dichiarazione, e il rifiuto di Yasunori perdeva aderenza al contesto per essere
qualcosa di diverso. Forse un rifiuto di Hideto-ragazzo-amico-confidente-stupido.
Perciò quel grido disperato in Flower; un grido che nessuno avrebbe
ascoltato e capito, forse, come non l’aveva né ascoltato, né capito lo stesso
Yasunori.
haido si commuoveva facilmente, anche per delle sciocchezze.
Capitava un po’ a tutti e quattro ed era forse un segno della nostra intimità.
Quella volta, però, le lacrime non vennero e mi sembrò spaventoso, perché haido
era tristissimo e si vedeva. Era a pezzi e si percepiva a pelle; lo era al punto
da non riuscire neppure a piangere.
“Scusa. Adesso è meglio che torni a casa.” Non riuscii a
trattenerlo; in un certo senso ero spaventato da quello strano Hideto. Volevo
parlarne a tetsu, ma non potevo farlo, ero inchiodato da un segreto che sapeva
di confessionale, ma somigliava piuttosto a un briciolo di lealtà verso Ogawa.
Poi avrei dovuto anche riferirgli che Takarai aveva perso la
testa del tutto, al punto da chiedere a Yacchan di portare la loro amicizia
dentro un letto. Potevo inventarmi ogni pretesto per non dirmelo, ma era
evidente quello fosse un capolinea per tutti, non solo per i diretti
interessati. In quel periodo, per quanto haido fosse a pezzi, ridusse all’osso i
suoi rapporti con tetsu.
Non so perché lo fece, credo per paura di disgustarlo. Non
avrebbe tollerato che Ogawa gli voltasse le spalle, come sembrava avesse scelto
di fare Sakura, preferendogli un quartino. Sicché, in un modo o nell’altro, ci
avvicinammo noi due, in un modo diverso dal rapporto che esisteva prima
dell’inizio di quell’agonia. In un modo diverso persino dall’amicizia che haido
aveva diviso con gli altri membri del gruppo.
Io non ero incline al contatto come Yacchan o tetsu. Non ero
né condiscendente, né delicato. Spostavo il baricentro sul comico e sul
grottesco della situazione per non spaventarmi con la tragedia. Eppure a haido
andava bene anche così. Gli andava bene anche se gli davo della ragazzina, dello
stupidotto, della troia, dell’ingenuo. Inghiottiva tutto e vomitava capolavori
della disperazione.
A volte affondavo il colpo sperando in una reazione che
somigliasse a una guarigione. Lo feci anche prima di una diretta in cui insieme,
lui e io, avremmo dovuto parlare proprio di True, di quell’album
meraviglioso e inascoltabile insieme, perché era una successione ininterrotta di
colpi al cuore.
La telecamera era un filtro per ogni emozione, ma percepivo
la tensione dietro gli atteggiamenti di circostanza, il falso entusiasmo, la
disponibilità a un raccontarsi che era sempre un soliloquio. haido era migliore
di me in quei frangenti, perché sapeva recitare da attore consumato, come faceva
in una quotidianità che gli sfuggiva per sentirsi meno ferito e miserevole. Io
ero teso e si vedeva. Ero scontento dell’immagine che regalavo, perché
danneggiava quel poco che potevo salvare di un’Iride spenta. Così, mentre invano
cercavo in me l’impulso divertito e istrionico per una recita fallita in
partenza, haido si accoccolò sulle mie ginocchia, scivolando con la facilità con
cui Elizabeth mi cercava fin da quando era cucciola.
Ero sorpreso.
Ero confuso.
Mi specchiavo negli occhi perplessi di un intervistatore a
disagio, senza poter rispondere a quel muto interrogativo che serpeggiava a
tratti: haido era davvero una troia? Oppure possedeva un’intelligenza strategica
sottile e studiata, persino quando meno te lo saresti aspettato?
Forse davvero intuiva non gli restasse che quello, confondere
le acque per rendere tutto innocuo e falso. Mille fanservice per celare un unico
sentimento mortale?
Probabilmente sì.
Nel backstage, ridendo, glielo dissi. “Sei proprio una troia,
haido! Non hai pensato a Yacchan?” Glielo dissi con il sorriso sulle labbra, ma
non ce n’era neppure l’ombra nei suoi occhi. “Probabilmente sì. Sono una troia.
E ho pensato proprio a Yacchan.”
C’era qualcosa di distante e gelido, eppure anche sofferente
nelle sue parole. Mi raccontava una verità diversa da quella che era fin troppo
facile leggere in superficie; una maschera scelta per ragioni diverse dalle mie.
Forse il sacrificio di una reputazione per qualcuno che voleva difendere. Come
non ero un pagliaccio io, cioè, neppure haido era una ragazzina.
Ci vuole del fegato, credo, per accettare un ruolo come
quello che si era cucito addosso, persino per convincersi di un amore al solo
scopo di non lasciar sfiorire il bocciolo di un’amicizia preziosa.
Non gli chiesi scusa, perché a quel punto avrei dovuto
spiegare troppe ragioni e tutte dolorose. Non mi chiese niente lui, come non
chiedeva più nulla a nessuno.
Credo già sapesse fosse finita. I suoi occhi opachi erano
sostituiti da un cuore senziente e profeta. Lo stesso di tetsu, forse, che
restava a guardare e non poteva fare niente.
Neppure inventarsi un ruolo per salvare quello che era già
morto.
L’altra notte non riuscivo a dormire. Il cielo di Londra era
un tappeto di colori pastosi e dissonanti, inquinato da luci e brutti pensieri.
Mi sono accorto che anche haido era sveglio. Fumava in balcone, contro la
ringhiera, proteso nel vuoto.
tetsu è pieno di nevrosi e paure, ormai, la prima delle quali
è che haido si ammazzi. La seconda è che ci lasci. La cosa tremenda è che
entrambe le ipotesi sono più concrete del fatto che sia possibile andare avanti,
eppure ci stiamo provando.
Non so neppure perché.
Forse sono davvero i soldi.
Forse sono le maschere che abbiamo accettato di portare, e
dunque haido continuerà a vendersi come la puttana che non è mai stato, perché
la generosità dei suoi sentimenti è sempre stata, soprattutto, la gratitudine
profonda dell’affetto.
tetsu resterà il simulacro di un teatro No da cui sono
banditi tutti i sentimenti.
E io, il pagliaccio, riderò per le lacrime che non ci ha mai
concesso veramente nessuno.