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Autore: Naco    24/12/2003    3 recensioni
E poi quell'urlo. Un urlo di disperazione e solitudine, di dolore e nostalgia.... un urlo che usciva dal cuore e che entrava nel cuore.... un urlo che come un pugnale ti distrugge l'anima e ti trovi a chiedere perché, da dove escono queste gocce salate che bagnano il tuo viso. Ma anche un urlo di vita… Un piccolo regalo di Natale per tutti voi che come me amate Saiyuki e in particolare per tutti quelli che ho conosciuto in questi ultimi mesi. Buon Natale!
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Son Goku
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La mia vita, come del resto quella dei miei simili, è sempre stata molto difficile, se non impossibile. Forse voi non ci crederete, forse vi sembrerà una esagerazione da parte mia, o peggio un vaneggiamento.
Beh ragazzi, vi sbagliate di grosso.
La nostra esistenza è breve, molto, troppo breve, paragonata a quelli di altri esseri viventi.
Madre Natura ci ha resi piccoli, deboli di cuore e sensibili ai cambiamenti climatici. Così, quando i primi fiocchi di neve iniziano a imbiancare le città e i bambini lanciano gridolini di gioia per l’arrivo della loro fredda amica, noi ci nascondiamo, cercando un po’ di calore. Ma la maggior parte di noi non riesce a sopravvivere alla scarsità di cibo e lascia questa terra per sempre.
La nostra stagione è la primavera.
E’ allora che veniamo messi al mondo e, non appena riusciamo a cavarcela da soli, veniamo spediti via, alla ricerca del nostro futuro, di un nostro nido, di una nostra famiglia. E così da sempre e per sempre.
Dite che vi facciamo pena?
Oh, non preoccupatevi questo non è nulla, è il nostro triste, quanto inevitabile destino, nulla di più.

Eppure…

Eppure è da un po’ che mi piacerebbe essere un’altra persona. Rinascere con un’altra vita, un altro corpo, un altro destino. E mi trovo ad odiare questo mio piccolo corpo insignificante, a detestare questa vita così breve. E a temere questa fredda amica dei piccini, mano crudele che ci strappa la vita, trascinandoci in un limbo senza fine da cui è impossibile tornare. Un luogo lontano dalle persone più care, da coloro che ci hanno donato un sorriso, che hanno creduto in noi, che ci hanno amato…
Perché, voi credete che non siamo degni di essere amati come voi?
Forse avete ragione, siamo troppo presuntuosi per desiderare una vita come la vostra,
piena di affetti, di amici. Noi siamo semplici esseri senz’anima, senza diritti, ma pieni di doveri.
Il dovere di non devastare i vostri campi;
di non disturbare le vostre notti con i nostri canti gioiosi;
di fornirvi della nostra carne per cibarvi.
Il dovere di non esistere.

Avevo detto non so quante volte a Bim di non fidarsi di lui.

Avevo continuato a ripetergli di non credere alla sua gentilezza, di non farsi incantare dai suoi grandi e caldi sorrisi, da quei grandi occhi dorati, così colmi di tristezza e bontà.
Ma Bim non mi ascoltava.
“Tu non puoi capire. Lui è diverso, lui… lui è mio amico.”
Risi delle sue parole. Come poteva un essere umano, uno strano essere umano, considerando i suoi buffi occhi dorati e la scura grotta in cui si trovava, essere amico di un passerotto come lui, come me?
Ma lui continuava a non ascoltarmi, deliziandosi della compagnia di quel bambinetto, le cui risate infantili riempivano la foresta, rallegrando tutti i suoi abitanti e tingendola dei colori scintillanti e luminosi, proprio come lui. E nonostante non volessi, nonostante continuassi a ricordare a Bim la nostra natura, anche io sapevo di stare mentendo, che ormai quel ragazzino aveva infranto il nostro tabù, che non era solo un essere umano, ma anche un abitante del bosco e dei cieli, come noi.
E così le nostre giornate scorrevano serene, dimentichi delle differenze di razza, uniti da quel legame particolare che voi uomini chiamato affetto, ma che credete sia proprio solo della vostra razza.

E poi…

Poi quei colori così scintillanti e brillanti iniziarono a incupirsi e le foglie degli alberi ad assumere tonalità dorate. Spente e vuote, così diverse dall’oro che splendeva nei suoi occhi.

E infine venne anche lei.

Tornò come ogni inverno, a ricordarci che il tempo dei canti è finito, che il silenzio reclamava il suo regno e, come a volerlo dimostrare a noi tutti, il suo manto ricoprì ogni cosa, nascondendo le chiome degli alberi sotto una coltre bianca e fredda come la morte.
“Ormai non possiamo più muoverci, Bim. Dovremo attendere che la Signora parta per poter tornare a cantare”, gli ricordai quel giorno.
Bim mi guardò e annuì tristemente, mentre una lacrima solitaria bagnava la sua pelliccia dorata. Dorata come gli occhi del ragazzino che tanto amava.
Non credete che anche noi possiamo piangere?
Oh, vi sbagliate, vi sbagliate di grosso, presuntuosi esseri umani.
“Voglio almeno salutarlo.”
“Fa’ presto.”

Sapevo che non sarebbe più tornato.

L’avevo capito mentre lo guardavo allontanarsi nel cielo ormai plumbeo verso la grotta del suo amico. Sapevo che quello sarebbe stato il suo ultimo volo. Sapevo che quegli ultimi cinguettii erano stati un addio.
Sapevo tutto questo, lo sapevo bene.
Eppure, quando non lo vidi tornare, non riuscì a trattenermi dall’andarlo a cercare, nonostante fossi conscio che anche io rischiavo di fare la sua stessa fine, di non rivedere più il mio nido caldo e accogliente.
Nonostante sia trascorso del tempo, è ancora forte il ricordo di quello che vidi, talmente vivo da sembrare che accada ora, in questo istante.
Davanti ai miei occhi assisto ancora a quella scena così triste, vedo ancora quei suoi grandi occhi dorati sempre gioiosi, colmi di lacrime, mentre la sua manina abbronzata cerca di raggiungere attraverso quelle maledette sbarre il corpo privo di vita del suo piccolo, unico amico.
In quel momento, davanti a quella scena straziante, carica di dolore e disperazione, desiderai ardentemente di non essere lì, di non aver scelto di seguirlo.

E poi, infine, quell’urlo.

Un urlo che riecheggia ancora nelle mie orecchie.
Un urlo che attraversò tutta la foresta, tagliandola da parte a parte.
Un urlo di disperazione e solitudine, di dolore e nostalgia.
Un urlo che usciva dal cuore e che entrava nel cuore.
Un urlo che come un pugnale ti distrugge l’anima e ti trovi a chiedere perché, da dove escono queste gocce salate che bagnano il tuo viso.
Un urlo di morte.

Ma anche un urlo di vita…

Un urlo di speranza.
Un urlo verso una flebile luce lontana;
una preghiera affinché di avvicini, affinché sciolga il gelo dell’inverno e riporti la primavera;
un richiamo verso un luogo sconosciuto, verso un cuore solo come il suo, che capisse il dolore e lenisse le sue ferite.
Le mie ali si dispiegarono da sole, come a voler accogliere dentro di sé il suo grido disperato e spiccarono il volo, alla ricerca dell’anima che potesse capirlo, della creatura che potesse aiutarlo, dell’uomo che potesse salvarlo.
Volai con disperazione e dolore, sfidando la neve, mortale nemica; planai lontano, oltre il gelo, verso l’asfissiante calore del deserto, alla ricerca di quella vita che potesse salvare un’altra vita…

E poi finalmente….
Lo trovai…

***

“Ti prego…
aiutami…
liberami…
salvami…
riportami alla vita…
fammi esistere…”

Un ragazzo biondo, un bonzo a giudicare dai suoi abiti, al limitar della foresta, alzò lo sguardo verso l’alto, mentre un piccolo uccellino attraversava per un attimo il cielo sereno di quella fresca mattinata di aprile.

“Mi è sembrato… mi è sembrato di sentire una voce…”


OWARI
   
 
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