Fictional Dream © 2006 (9 novembre 2006)
Harry Potter, Ron Weasley, Hermione Granger, Severus Piton,
Lucius Malfoy e tutti gli altri personaggi appartengono a J.K. Rowling, al suo
editore e ai distributori internazionali che detengono i diritti sull’opera.
Questa storia è stata redatta per mero diletto personale e per quello di chi
vorrà leggerla, ma non ha alcun fine lucrativo, né tenta di stravolgere in alcun
modo il profilo dei caratteri noti. Nessun copyright si ritiene leso.
L’intreccio qui descritto rappresenta invece copyright
dell’autrice (Callie Stephanides - http://fictionaldream.iobloggo.com). Non ne è ammessa
altrove la citazione totale né parziale, a meno che non sia stata autorizzata
dalla stessa tramite permesso scritto.
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Si dice che i morti non abbiano il bisogno d’essere
ascoltati; il loro è un concerto per voce sola, un mormorio disconnesso e
flebile, ch’è facile confondere con il vento. E nei fatti, a ben vedere, la
polvere della storia non è che la cenere di antichi inganni, trascinata da un
inesorabile destino.
Esistono strane geometrie a governare il caso e leggi
immutabili, ma non puoi decidere il braccio della libra cui affidarti,
quand’esso scandirà inesorabile il futuro.
Seduto, quieto e paziente, respiri l’odore dei giorni, senza
sapere che nella primavera della tua vita può entrare un tetro lezzo di morte,
senza che tu possa prevederlo o stornarlo da quella stagione di imperfetta
invincibilità.
Esiste il destino.
A volte è un cammino lungo e tortuoso.
A volte tanto breve che ricordi ogni passo.
E a quelli pensava, Regulus Black, nell’ultima ora della sua
esecuzione, mentre brume novembrine trasformavano le acque limacciose del Tamigi
in una danza di veli. Era un ossimoro e una metafora insieme: moriva quando
l’aveva soccorso il coraggio di stracciare l’ultimo diaframma.
Aletheia: disvelamento.
Un altro modo per chiamare la verità.
Regulus Black, però, l’aveva compreso troppo tardi, e tra
quei veli andava a morire, senza sapere che un giorno – lontano o vicino, non
aveva importanza – oltre quell’oscillare monotono e dolce si sarebbe spezzato
anche il destino della stella più luminosa di tutte.
Sirius.
L’unico sole, a ben vedere, cui avesse mai guardato, prima di
pagarne l’indifferenza con un’eterna eclisse.
Aveva quattordici anni, Regulus Black, il giorno in cui si
era follemente innamorato. Un ragazzino dagli occhi chiari, privi di quella
vivacità ribelle che accendeva di fascino lo sguardo mercuriale di un
inarrivabile fratello, riccioli castani, regolari e morbidi: il perfetto
ritratto di una gentile innocenza.
Attento – di quell’attenzione febbrile che gli apparteneva
come i suoi silenzi di rassegnata attesa – studiava l’albero vetusto degli
effetti e dell’onore, l’arborescenza sempre pura – come recitava il motto
araldico – da cui pure discendeva. A quei tempi Sirius c’era ancora, a
sottrargli luce e onore, poiché nella sua infinita e dissacrante eccentricità,
era un quindicenne bello e dotato come Regulus disperava di poter essere.
Era un secondogenito contemplativo, di quei figli cadetti che
non ricorda mai nessuno, persino quando sono gli ultimi a resistere sui rami di
un vecchio albero. Eppure anche i primi a svanire.
Della complessa genealogia dei Black, davanti alla quale
perdeva ore di gioco o di esercizio, Regulus amava la geometria implacabile ed
un nome che orlava sinuoso il bordo più estremo, là dov’era fiorita la loro
generazione.
Narcissa.
A quattordici anni, Regulus era troppo giovane per trovare in
sé immagini che gli raccontassero di lei, perché non aveva mai visto campi di
grano tanto dorati come i capelli che scivolavano in bioccoli mielosi lungo le
candide spalle, né laghi alpini a cui paragonare l’azzurro dei suoi occhi.
Narcissa era un profumo, una visione, il sussurro del vento
che gli scompigliava i capelli, come facevano sempre quelle lunghe dita da
pianista.
Sirius aveva intuito l’intensità della sua follia e ne aveva
fatta un’arma in più da incoccare nell’arco sempre infallibile del suo cinismo
giocoliere: aveva raccontato a Narcissa di come il piccolo Regulus la seguisse
come un cagnolino fedele, naufragando nella scia buona del suo aroma di rose e
bellezza. In quel caso, però, le stelle l’avevano preferito a chi portava il
nome della loro regina, perché sua cugina non se n’era adontata e, con grazia
giocosa e tenerezza infinita, gli aveva baciato la fronte e promesso che sempre
sarebbe stato il suo cavaliere.
Era una menzogna e Regulus lo sapeva, come pure sapeva che le
sarebbe stato per sempre fedele. Esistevano sigilli che nessuna magia poteva
spezzare e il cuore era esattamente uno di quelli.
Regulus viveva a Hogwarts all’interno della casa che Sirius
aveva ripudiato. Non v’era uno solo dei gloriosi rampolli Black non avesse
indossato la livrea del Serpente, eppure quella tradizione era stata spezzata il
giorno stesso in cui suo fratello aveva preferito rinnegare il proprio sangue
per cercare altrove un autentico vincolo di fratellanza.
Regulus ricordava bene anche il gesto stizzoso con cui
Walpurga sua madre aveva puntato la sottile bacchetta e combusto il primo dei
troppi nomi che sarebbero scomparsi da un antico arazzo. Infiorescenze bruciate
da chi voleva dimenticare e dunque cancellava ogni traccia.
Regulus non apparteneva a quella genia fortunata che sapeva
chiudere gli occhi e il petto al ricordo; ammirava troppo Sirius per dirsi fosse
pura follia l’indipendenza che cercava. Del resto era sempre stato un
osservatore silenzioso, ma attento, e la luce che emanava da un adolescente
invincibile e appagato era quella della stella di cui portava il nome.
Dal tavolo dei Serpeverde, Regulus seguiva i lazzi e gli
scherzi dei Malandrini, sottilmente invidiando quella complicità che non aveva
mai sperimentato, perché se per la famiglia non era che un cadetto incapace di
eguagliare uno straordinario figlio maggiore, anche quest’ultimo non gli aveva
mai concesso uno sguardo che non fosse di schermo o di biasimo.
Regulus cercava in se stesso il segno di un’indegnità che non
riusciva a trovare, come il mezzo di un riscatto possibile. Nelle rare occasioni
in cui gli capitava d’incontrare Sirius – mai solo, per altro –in fin dei conti,
non v’era la minima traccia nelle parole di lui di un riconoscimento di sangue.
Era evidente, nei fatti, come nel momento del supremo rifiuto, tutto quel che
sapeva di Black fosse stato cancellato. Persino l’affetto sincero e devoto di un
fratello minore.
Lo chiamava Serpeverde, come avrebbe fatto con un
qualunque estraneo vestisse i colori rivali. A tratti, con un leggero tremito
interiore che tradiva senz’altro paure mai superate, si diceva pure che laddove
James Potter avesse usato quella sua maligna bacchetta per nuocergli, non meno
di quanto soleva fare nei riguardi di Severus, Sirius non sarebbe intervenuto, e
avrebbe riso come se l’umiliazione del suo stesso sangue non lo riguardasse
affatto.
Regulus accennava timidi sorrisi e cenni elusivi a chiunque
gli avesse domandato di sé, il che, a ben vedere, capitava di rado, poiché vi
sono anche spiriti fragili destinati a restare comparse per tutta la vita,
divorate dall’ambizione di una storia che non sempre premia i più meritevoli.
Solo sprofondato in una vecchia e polverosa poltrona di velluto, nel cadente
maniero dei Black, a fissare la nuca candida e perfetta di una Narcissa seduta
al piano – non virtuosa, forse, ma così bella da incarnare persino l’armonia che
a tratti non sapeva riprodurre – ritrovava un po’ di pace. Cissy muoveva con
lentezza le sue lunghe dita, accarezzando tasti che Regulus invidiava con una
puerilità disperata e quasi infantile, pregna di desiderio.
Era un notturno di sentimenti inespressi, scandito da sonate
lugubri e barocche, su cui i pianissimo scivolavano lenti, somigliando alle
spire del Lete.
Narcissa sapeva ascoltarlo senza che parlasse e senza
parlare: un’inclinazione particolare del capo, uno sguardo a tratti velato, poi
consapevole – di quelle consapevolezze un po’ ellittiche, silenziose,
incredibilmente femminili – infine l’offerta di un concerto a due mani, di un
dolce, di un the profumato di rose – profumato come lei.
Era un amore impossibile, ma lo desiderava disperatamente
fosse solo per quello, per il bisogno di un’illusione che non sarebbe mai
sfumata. Credeva.
A perderlo – e il Regulus chiamato a spiare in una luna di
sangue la propria agonia l’avrebbe ricordato fin troppo bene – erano stati
proprio i sentimenti; la fiducia cieca in un fratello indegno – perché non tutti
gli eroi sono puri ed immacolati. Ve ne sono di invincibili anche perché vendono
tutto. Perché all’asta dei sentimenti immolano persino gli affetti più cari – e
la disperazione sottile per l’ultima perdita.
Narcissa era divenuta una sposa nel giorno più freddo del
mese della Yule. Immacolata e intoccabile nella nuvola candida del suo abito,
sembrava l’incarnazione di una driade d’inverno; uno spirito baltico, di quelli
che insegnano anche agli scettici il valore impagabile della bellezza. Al suo
fianco c’era il rigore del settentrione nel suo volto più freddo e fiero: un
uomo che il ghiaccio portava negli occhi e le neve su chiome sottili e filate di
un platino prezioso.
Regulus aveva cercato nell’espressione radiosa di Narcissa il
segno di una fragilità, di un’infelicità latente e di un’insicurezza che non era
riuscito a trovare, come non era mai riuscito a metabolizzare il fatto d’esser
stato per quello sguardo oltremarino solo un fratellino da proteggere e
consolare, mai l’uomo che avrebbe desiderato vedesse.
Quell’uomo era Lucius Malfoy.
Inebetito dal dolore, l’aveva vista sorridere e danzare,
asciugarsi le ciglia o sciogliere le chiome in una quadriglia quasi infantile;
velo dopo velo spogliarsi della casta impenetrabilità dei suoi sogni per
acquistare una carne che non avrebbe più sfiorato.
Era splendida, Narcissa, quando aveva sottratto alla propria
acconciatura la più bella delle rose e gli aveva chiesto d’essere il suo
cavaliere: sarebbe stata l’ultima volta, ma non avrebbe comunque mai dimenticato
un’antica promessa.
Regulus Black aveva sedici anni, quando Rabastan Lestrange
cominciò ad accarezzare l’idea di farne un personale trastullo, mostrandogli
parimenti come non fosse il solo a saper tacere e guardare. Era un ragazzo alto
ed appariscente, dalla bellezza sfacciata e maligna. V’era qualcosa di
artefatto, studiato e decadente in ogni sua posa, nell’espressione annoiata con
cui a volte replicava a un interlocutore insistente, o stabiliva rapporti tra
cui davvero scivolava con la grazia di un serpente. Era la quintessenza di un
Serpeverde, nella sua accezione migliore e peggiore insieme: pregno del fascino
mortifero di una vipera o di un fiore velenoso.
Anche Rabastan aveva un fratello maggiore e famoso, che da
qualche anno aveva lasciato Hogwarts, come pure aveva fatto Sirius al termine
del settennato; a dispetto di Regulus, però, l’ammirazione del cadetto non si
era mai tradotta in una mite acquiescenza o in un codardo servilismo.
Rabastan era un giullare, era trascinante, popolare,
evidente: stargli accanto voleva dire catturare un po’ di quella luce che la
storia non aveva voluto concedergli, inchiodandolo a una mediocrità che dal nome
si era poi riversata sull’intera parabola di un’esistenza anonima e piccina.
Rabastan conosceva il valore della retorica e sapeva usarla
per persuadere persino un sasso; fu così che Regulus lo seguì in una notte
spaventosa di freddo e nebbia lungo i clivi di una collina vestita solo dal
debole lucore di una luna d’argento.
Della prima tregenda dei Mangiamorte, il più giovane dei
Black non avrebbe mai dimenticato soprattutto un dettaglio: lo scintillio
prezioso delle chiome di platino di Lucius Malfoy, quando un soffio improvviso
di quel vento sinistro e tempestoso gli fece cadere lungo le spalle il tetro
cappuccio della divisa. Regulus trattenne il fiato, mentre quei neri ministri si
muovevano entro le coreografiche geometrie di un invisibile pentacolo.
“È bello, vero? Un giorno anch’io sarò come loro… E se
t’interessa…”
Rabastan aveva la bellezza di una sirena, la determinazione
di un soldato, la scaltra malignità di un demonio: mostrandogli la bellezza
corrotta di quel sabba di morte – mostrandogli il miraggio d’eccellenza di
uomini tra cui spiccava, per bellezza e lignaggio, quel cavaliere d’inverno che
si era preso anche l’unico ideale della sua breve vita – sapeva già che ne
avrebbe segnate per sempre le scelte, poiché non esisteva ambizione più
pericolosa di un incondizionato anelito d’affetto e riconoscimento.
Forse, sotto la protezione di quel tetro cappuccio, avrebbe
dimenticato se stesso e un albero sempre più spoglio dei suoi fiori più belli.
Regulus non era feroce e non era crudele: fragile, quello sì.
Esistono nondimeno debolezze che sono più mortifere e pericolose della violenza
stessa. Perché violenza chiamano. Legittimano. Perpetrano.
Erano trascorsi tre anni ancora da quel giorno. Non sapeva se
chiamarsi uomo, perché c’era ancora troppo nel suo sguardo del bambino che era
stato, silenzioso e sognatore. In quei tre anni aveva indossato una maschera
d’argento, aveva chiuso gli occhi davanti all’eccidio, aveva ricusato la
tenerezza per trasformarla in una nuova vigliaccheria: era l’unico Mangiamorte
non avesse mai ammazzato, ma era il tesoriere di mille morti.
Aveva visto la bellezza diventare orrore, quando nella
sfolgorante venustà di medusa di Bellatrix Lestrange – non più Black, lei. Non
più da eoni e forse davvero mai, magnifica cagna da caccia, troppo nobile per
piccole prede – aveva colto il germe della follia e la sua esplosione più
bestiale e deleteria.
Aveva visto la nobiltà tradotta in una scacchiera di
opportunismi; i pezzi migliori mossi da un giocatore di rango come poteva
esserlo il solo Malfoy.
Aveva respirato l’ansia della vendetta, nell’impenetrabilità
tetra di un vecchio ragazzo dal sangue impuro, dagli occhi neri, ma ardenti come
braci.
Aveva soprattutto ricevuto un ordine, che sapeva al contempo
di iniziazione e condanna: uccidi Sirius Black.
E Regulus, d’improvviso, si era visto come quel giorno
lontano, appena adolescente innanzi all’albero che scandiva la sua stessa
storia, mentre un ragazzo meraviglioso e crudele lo motteggiava. Mentre una
donna dalla bellezza abbagliante – che forse già donna non era, ma incarnava
senz’altro il miracolo del femminino – gli chiedeva d’esser quello che era: un
sognatore insaziabile, malato di desiderio.
Chiudendo gli occhi e cercando in sé troppe risposte neglette
a domande che non si era mai posto, Regulus seppe che non era mutato nulla; che
l’amore non l’aveva sfiorato e il rispetto non gli sarebbe mai appartenuto,
perché per primo leggeva nella propria irrisolta pusillanimità il segno
tangibile di una crescita che non c’era stata; e ora era troppo tardi per tutto,
se non per un ultimo atto che gli consentisse davvero, come i suoi avi, di
leggersi sui rami contorti ed antichi di un albero per sempre immacolato.
Come un fiore sarebbe sbocciato e morto in quell’istante.
Regulus Black s’era sorpreso con infantile meraviglia di non
provare più nulla; ora che la sua storia stava finendo, non vi era che il
malinconico succedersi di un caleidoscopio di memorie, ora dolci, ora amare,
comunque più vive di colui che le avrebbe strette per un’ultima volta assieme al
calamo di un estremo addio.
Per il messaggio che avrebbe lasciato a Voldemort, un altro,
ben più importante, la sua grafia minuta aveva tracciato e nascosto in un tesoro
che forse nessuno avrebbe mai recuperato, ma quando infine fosse stato rinvenuto
e violato, avrebbe raccontato di un malinconico viaggiatore dei sogni che la
storia aveva ridotto in polvere.
Ho amato una sola volta e non me ne pento. Ho sbagliato
una sola volta e di questo muoio. A te che riposi accanto al più pericoloso e
freddo dei serpenti, Narcissa mia, non posso che promettere la mia protezione:
fosse pure quella dell’Inferno, ti prego di non rifiutarla.
Cordoli di nebbia s’incuneavano per Nocturn Alley, vapori
miasmatici che dal Tamigi raggiungevano il centro, ne contaminavano l’aria,
vestivano d’irrealtà confini un tempo solidi e ombre sfuggenti.
Regulus Black aveva sorriso a quella luna d’improvviso
rosseggiante come una polla di plasma – un cuore pulsante sospeso nel cielo –
mentre il ringhio sordo di Fenrir Greyback era il respiro eterno di un odio
senza nome e senza requie.
Sarebbe morto senza avere paura, perché l’avvento di
quell’ultima falce l’avrebbe infine reso polvere luminosa e sottile, pronta ad
ascendere al cielo e lì brillare.
Come la più luminosa delle stelle.
Nota: questa one-shot può essere letta come un
missing-moment de Il dolore perfetto.