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Autore: lady vampira    19/11/2010    1 recensioni
E poi… e poi ti rendi conto che è tutta una gran cavolata, che è inutile, che sei stanco e vuoi spegnere il computer, mandare il cervello in ferie, come se non avesse fatto altro tutta la vita. Decidi che è finita, che non ne vale la pena tanto non potrai mai realizzare i tuoi sogni e forse è un bene, perché se li raggiungessi ti accorgeresti che potrebbero non essere un granché, che in fondo dietro la doratura, oltre il trucco non sono poi così diversi da quello che già ti circonda; e allora scegli di occuparti di quello che già c’è e non di ciò che è lontano e non sa, non immagina nemmeno che esisti.
E poi la vita ti frega. Aspetta proprio questi momenti, per dimostrarti che ti sbagli, e poi ti pugnala facendoti scoprire che è troppo tardi per rimediare, che non hai più tempo per rimediare ai tuoi errori; che se non ti fossi arreso, sarebbe andata diversamente.
Combatti.
Non lasciarla vincere.
Mai.
E arriverai a toccare le stelle.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Maggio. Pomeriggio. Sono appena le quattordici e quarantacinque. Sono sola in casa; mio padre ancora lavora sotto il sole cocente, mia madre è a dare lezioni di catechismo ai bambini della parrocchia. Io sono immersa nella luce polverosa e accecante del pomeriggio salentino. Mi annoio a morte, ma questa non è certo una grande novità.
Mi chiamo Serena Tempesta, ho diciannove anni e devo ammettere che sono un paradosso vivente. A cominciare dal nome: di sereno, in me, c’è poco o niente, e così di tempestoso. Più semplicemente, sono continuamente irritata, stanca, tutto mi sembra inutile. Ho lasciato la scuola senza neanche prendere il diploma, perché intenzionata a lavorare e guadagnarmi così qualcosa con i miei soli sforzi, e smettere finalmente di sentirmi in colpa per ogni centesimo che spendo in cose che non siano strettamente necessarie. Ma da queste parti la vita è carogna, ho tentato con quattro o cinque lavori e altrettanti ne ho mollati dopo la prima settimana perché nessuno vuole pagare. Ed io non lavoro certo gratis.
Così, sto cominciando a rassegnarmi. La vita che mi aspetta sarà completamente vuota e insensata. Per non dire monotona, stressante e assolutamente priva di soddisfazioni e realizzazioni personali.
A volte mi domando persino cosa ci faccio su questo pianeta, oltre a consumare aria che potrebbe servire a qualcuno di molto migliore di me. Di qualcuno che non nasconda sotto un tappeto di facile cinismo la polvere della sua pusillanimità, delle disfatte, la sua incapacità di cambiare le cose, come faccio io.
Accendo il televisore. Ma a quest’ora i cartoni animati sono già terminati, e per il resto non danno granché. Cambio un paio di canali, alla fine decido di fermarmi su un programma musicale. Guardare sempre i soliti quattro videoclip girati da gente famosa, ricca e bellissima che va a cercarsi guai perché non capisce quanto è fortunata mi fa venire l’ulcera allo stomaco, ma tanto non c’è altro. I pochi libri che possiedo li ho letti e riletti tante di quelle volte che quando li apro cominciano a piangere e invocare pietà. Quindi… non ho molta scelta.
Giusto per farmi un po’ di compagnia, prendo dalla mensola “Cime Tempestose” di Emily Brontë. E’ il mio preferito, un po’ perché il titolo è una specie di omaggio al mio assurdo cognome, un po’ mi fa sognare il genere d’amore lacera-cuore che non avrò mai, perché non credo che esista nella vita reale, semplicemente. E anche perché immaginando di stare alla “Tempestosa” mi rinfresco un po’ da questa dannata calura che mi sta soffocando. Certo, Heathcliff non è proprio il mio genere di uomo ideale; okay, confesso, neppure io stessa so quale sia il mio ideale, diciamo che sul fronte ragazzi ho le idee un po’ confuse, anche se in genere ho un debole per i più giovani di me, carini, dagli occhi scuri e l’aspetto da efebo. E… ma questa è più una perversione, i miei ultimi due fallimenti sono avvenuti con ragazzi che avevano entrambi un fratello gemello. E d’accordo, devo anche ammettere di aver rivolto all’altro i miei assurdi tentativi di approccio, appena fallito col primo. E così, a fare bene i conti, i miei fallimenti divenato quattro. Bella sfiga.
Ma probabilmente è stato il mio look poco rassicurante, a farli scappare a gambe levate. Da quando, un paio d’anni fa, ho scoperto i “The Rasmus” e in seguito gli “H.I.M.”, e gli “Evanescence” e compagnia bella, mi sono innamorata del gothick - e delle chitarre, sia chiaro, mica dei testi strappalacrime!- ed ho cominciato, come dice la mia cara mamma, a perdere colpi. Unghie nere, anfibi, jeans stracciati, occhi bistrati. Prima ero sempre stata piuttosto ordinaria, nel vestire, nel trucco; dopo una sfilata di carri di carnevale a cui ho preso parte con una mia amica, a cui -Dio mio, quando ci ripenso mi chiedo ancora se non fossi sbronza - mi sono presentata con un miniabito nero di raso lucido che sembrava pelle, stivaloni, capelli immobilizzati dal gel e quattro mani d’ombretto nero glitterato sulle palpebre, oltre che una passata di color melanzana sulle labbra, be’… gli sguardi che mi venivano rivolti mi hanno convinta che, in fondo, non sembravo proprio tanto mascherata. Anzi… e tutto ciò nonostante riuscissi a malapena a camminare sui tacchi dodici.
Ovviamente non esco tutti i giorni conciata come se stessi andando ad una riunione di satanisti -come dice il mio “papino caro“-, o perlomeno ad un party di Halloween; però, sulle unghie nere e la matita sotto gli occhi non si discute. Il nero addosso è più una questione di necessità: non sono esattamente tutta questa ninfa, e almeno “portare il lutto” -questa è di mio fratello, che qualche giorno lo strozzo- mi sfina un po’.
Continuando a leggere, tendo distrattamente l’orecchio alle parole del presentatore che sta intervistando -più che altro, sfottendo allegramente- due ragazzine, che avranno almeno cinque anni meno di me e quindi non tratteranno nulla che possa interessarmi. Torno ad immergermi nella lettura, sbuffando perché non danno mai niente di buono, ma solo scemenze: avanti, un gruppo che si chiama “Tokio Hotel“, è chiaro che i componenti devono essere affetti da qualche serio disturbo mentale! E’ come se mi alzassi un giorno e dicessi: << Voglio fondare una band >>, e la chiamassi “Forlimpopoli Pensione”! 
Forse, col nome che mi ritrovo, dovrei essere l’ultima persona a lanciar sassi; tuttavia il pensiero mi fa sghignazzare, e sono proprio curiosa di vederli, ‘sti scoppiati. Alzo lo sguardo e…
Mi pento immediatamente. Una fitta nello stomaco mi fa sentire come se ci avessero ficcato dentro un punteruolo e ce lo stessero rigirando in stile “L’enigmista”, o un altro film horror splatter su quel genere. Ma ciò che sto vedendo in questo istante, di terrificante non ha proprio nulla, eccetto la reazione che mi scatena nell’arco di qualche secondo, meno dei sette canonici che si dice occorrano perché lo sguardo di una persona possa far presa su un’altra.
A me ne bastano appena la metà, perché venga travolta da un uragano, o meglio, da un monsone. No, non è un tentativo di rinnovare la già folta schiera di modi di dire dei giovani d’oggi: è proprio il titolo della canzone di cui ora sto guardando il videoclip in esclusiva. “Monsun… qualcosa”. E’ tedesco, presumibilmente, o una roba simile; io a scuola ho studiato solo inglese e un po’ di francese, di tedesco so appena sette parole in croce che ho imparato in terza elementare grazie ad un minivocabolario-sorpresa trovato in un pacco di merendine; perciò è scontato che non ci capisco una mazza di ciò che dicono quelle labbra bellissime, non perfettamente simmetriche perché l’inferiore è più carnoso del superiore; sembrano così morbide, come la pelle liscia e perlacea che le circonda… come tutto quel viso da bambino, un’ovale d’avorio in cui sono incastonati due occhi… Inconsciamente, mi mordo un labbro, e distolgo lo sguardo per impedire che quelle iridi scure mi aprano dentro ferite che poi non riuscirò a sanare.
Ma sono così belli, quegli occhi innocenti… lievemente allungati, sottolineati da un tratto di matita nera, cerchiati da un velo impalpabile di ombretto color carbone, ombreggiati da ciglia che farebbero gola a qualunque ragazza compresa la sottoscritta. Le iridi castane, dolci come sanno esserlo soltanto quelle dei cerbiatti, sembrano splendere di luce propria; e la pupilla racchiusa all’interno cattura e rifrange la luce artificiale come una pietra d’onice, o meglio, come il minuscolo anellino di metallo che fa capolino da un sopracciglio.
Lo guardo di nuovo… ed è come cadere. Nel vuoto. A testa in giù e senza rete di protezione.
So che lo schianto sarà terribile. Mi sfracellerà il cuore.
Ma è troppo tardi. Mi sono già lanciata. I miei nervi uditivi bevono la sua voce da angelo maledetto come se vagassero da mesi in un deserto sterile, dove il giorno arde e la notte gela e stessero morendo di sete. Quella non c’entra nulla con tutto il resto, è graffiante, sembra volermi scorticare di dosso la vecchia pelle coriacea con una striglia di metallo e portare alla luce gli strati più teneri, fragili e vulnerabili della mia anima, del mio essere. E’ come se il vento furioso del monsone mi sferzasse, mi togliesse la corazza di finto distacco in cui sono imprigionata da tempo immemorabile e mi lasciasse nuda sotto la pioggia fredda, a lavare via il mio passato e farmi sentire ancora viva, in balia di emozioni mai provate prima.
La grinta, l’energia che emana da quel corpo fragilissimo -mamma mia, è un fuscello, non peserà più di quaranta chili- è impensabile, e… potente. Prima che possa chiedermi dove la tenga nascosta, tutta quella carica esplosiva, la sua onda d’urto mi sbatte contro come un’onda sulla scogliera, onda che sgretola la roccia e la consuma.
Questi ragazzi faranno strada. Non saranno la scia luminosa di una meteora che subito si spegne. Lo so. Lo sento.
Il videoclip termina, ed è come se uscissi da uno stato di trance, di estasi mistica. Solo adesso mi rendo conto di essere seduta sul pavimento. A bocca spalancata. E appena tento di rialzarmi un capogiro mi abbatte costringendomi a riappiccicare le chiappe al grés, complici anche le gambe molli e tremanti come gelatine: un dato positivo, se volessi dimagrire adesso non mi servirebbe nemmeno una pedana vibrante, tremano così tanto che le cellule adipose si sono rifugiate sotto tendini e legamenti per non finire capottate nel terremoto. Ora che me ne accorgo, tremo tutta come un giunco; ho le braccia serrate attorno al busto, in un estremo tentativo d’impedire al cuore di sfondarmi la gabbia toracica e saltare nello schermo della tivù; e lo stomaco che sembra intenzionato a seguirlo a ruota.
Preferisco non spiegare dettagliatamente le condizioni in cui versa il resto del mio metro e sessanta scarso, ma se avete mai visto un documentario sui peggiori disastri ambientali degli ultimi mille anni, potete farvene un’idea da soli. Immaginateveli tutti assieme, e siete quasi vicini a capire come sto. E’ come se un terremoto radesse al suolo un’area grande quanto la Siberia e aprisse una faglia nella roccia, una voragine prontamente colmata per metà da lava incandescente proveniente da un vulcano in piena eruzione e per metà dall’acqua nera che lo tsunami ha portato con sé dall’oceano; shakerate il tutto con un bel tornado e aggiungete una pioggia di asteroidi in stile “Armagheddon”. Guarnite con una tempesta ormonale dovuta al fatto che sono in astinenza da… puff, neanche me lo ricordo, probabilmente un paio d’anni per carenza di occasioni e interesse, e…
A questo punto credo di dover fumare una sigaretta. O prendere il Valium.
O magari tutt’e due.
Dal fiondarmi giù per le scale di casa mia e andare a bussare alla porta di Nicky, il salto è breve. Nicky, o meglio Nicholas, è il mio migliore amico da quando, bambini, giocavamo per strada a pallavolo e a “campana“, è quasi un fratello maggiore, per me; e l’ex-fidanzato della mia migliore amica Noemi, nonché mago dei computer e cittadino tedesco. I suoi sono separati, il padre abita qui e la madre è rimasta a Berlino, e lui va e viene a differenza di Elisa, sua sorella, che aveva scelto di vivere col padre; però, da un paio d’anni si è trasferita a Berlino e non l’ho più rivista. A quanto ho capito, frequenta l’università. Lei è la maggiore, Nicky invece è cinque mesi più giovane di me -ha festeggiato il compleanno da poco e c’ero anch’io, è stata una festa micidiale, siamo finiti tutti brilli a ballare e cantare “Because the night” di Patti Smith sul tavolo della cucina- e un figo colossale, il che non guasta. Ma è proprietà privata di Noemi, che ancora non si è rassegnata e ci prova in continuazione, e poi lo conosco da troppo per azzardare un approccio. E infine, dettaglio fondamentale, non ha un fratello gemello.
Appena apre la porta inarca un sopracciglio, e scoppia a ridere. Io sto ansimando come un cane da caccia e sudo come un maiale col cappotto di lana, quindi non riesco a mandarlo immediatamente a quel paese. Inoltre, mi serve un favore.
<< Di che genere? >>, mi chiede, mentre mi fa entrare in casa. Sprofondo nel divano bianco di pelle con un rumore sospetto -per un attimo ho l’impressione che mi inghiotta- e sbuffo, esausta. Una corsetta alle quattro del pomeriggio non è esattamente la cura adatta per lo shock fisico e psichico che ho appena subito.
<< Devi trovarmi un brano. Roba tedesca >>.
<< Ahhhhhhh! Ed io che credevo… >>, e sghignazza, mentre lo fulmino con un’occhiata assassina che non teme minimamente. << Dai, scherzo! So che sei una brava ragazza, non faresti mai certe cose senza una solida base sentimentale… >>. E’ una frecciata a tradimento: tutti i miei amici sanno della storia tra me e Simone, di quanto lui mi abbia pregata e supplicata ed esaurita… e di come ci siamo mollati dopo aver ottenuto ciò che voleva.
La cosa più squallida, secondo me, non è questa, ma il fatto che io non ci sia rimasta male. Anzi, è stato quasi un sollievo, perché mi ero resa conto che in fondo, per lui non provavo altro che una semplice attrazione -e nemmeno tutto questo granché, perché dopo la prima volta mi sono accorta ch‘era già sfumata da un pezzo- e un po’ d’affetto, quel tanto che bastava a non augurargli un accidente dopo avermi fatto fare la figura della cretina nella nostra comitiva raccontando a tutti del nostro “incontro ravvicinato“.
Figlio di buona donna.
Sbuffo di nuovo. << Più che altro, non pugnalerei mai in un tale modo Noemi. Sai che è ancora pazza di te >>.
Lui si produce in un lieve schiarmento di voce. << Allora, cos’è che devo trovare? >>.
Scoppio a ridere, e gli frego una sigaretta dal pacchetto appoggiato sul tavolino basso davanti al divano, mentre lui si accomoda in posizione d’attacco, dietro la scrivania.
<< Una canzone >>.
<< E come s’intitola >>.
<< Non so di preciso. “Monsun… qualcosa“ >>.
<< E’ un bel titolo >>, ridacchia, e gli lancio il pacchetto che acchiappa al volo con una mossa da maestro. Ne prende una anche lui. << Almeno il nome dell’album lo sai? >>.
<< No, sorry >>.
<< Ahhh, andiamo bene >>.
<< Però conosco il nome della band. I “Tokio Hotel” >>.
Lo sguardo che mi lancia da sopra lo schermo argentato del laptop è un misto tra supplica e scoramento. Lui è al corrente di tutte le mie “depravazioni musicali”, e in precedenza ha già fatto qualche lavoretto simile per me.
<< Non mi suona nuovo, e ho il terrore di chiedertelo ma devo farlo: ti prego, non dirmi che è uno dei soliti  rockettari scoppiati che si truccano e belano canzoni strappalacrime… >>.
<< Ma no! >>, esclamo fin troppo convinta, e scuoto la sigaretta nel posacenere azzurro, pulitissimo; quasi mi spiace sporcarlo.
Stavolta mi scruta con sospetto, gli occhi azzurro cielo d’estate ridotti a due fessure. << E allora? >>.
<< E allora cosa? >>.
<< Allora com’è? >>.
<< Ma chi?! >>.
<< Non fare la finta tonta con me, signorina. Hai capito benissimo. Sto parlando del cantante. Com’è? >>.
Ci ripenso un istante, e… Ahhhhhhhh…. parte il sospirone da commedia romantica.
<< Oddio… è fritta. Okay, ora faccio un giro e vediamo che trovo… oh, cavolo! >>. Trilla il cellulare. Lo guarda male e poi rispondo. << Ciao, Carlo. Sì. No, ti ho già detto che non ne so niente! E’ quel deficiente di Daniele che ha voluto rimanere… eppure lo sa… >>.
Uhm, tira una brutta aria. E’ meglio smammare. Faccio un cenno con la mano ad Nicky, che annuisce con la testa bionda dai capelli quasi rasati senza smettere di lanciare maledizioni a tutto spiano al poveraccio dall’altra parte dell’apparecchio.
Esco, e mi richiudo la porta alle spalle. Guardo la strada polverosa e deserta, dall’asfalto che sembra liquefarsi sotto la lama affilata del sole rovente. Un po’ come me, insomma.
Sono tentata di fare un salto da Noemi che abita proprio qua vicino, ma non mi pare il caso di dar fastidio a quest’ora e poi…
Ho bisogno di stare da sola. Finché non riascolterò quella voce, non rivedrò quegli occhi, non sarò in grado d’intavolare una conversazione sensata senza spiattellare tutto, con un’aria da pazza isterica che mi farà ridere ogni tre secondi anche se mi stanno parlando di un funerale, o di una disgrazia -Dio ce ne scampi- o di qualche altro argomento deprimente.
Sì, ho proprio bisogno di stare da sola.
  
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