Fictional Dream © 2006 (14 luglio 2006)
I L’Arc~en~ciel (nella prima formazione major, Tetsuya Ogawa,
Ken Kitamura, Hideto Takarai e Yasunori Sakurazawa, poi Yukihiro Awaji in luogo
di quest’ultimo) sono uno dei più celebri gruppi di musica rock-pop giapponese.
L’autrice non intrattiene con i succitati artisti alcuna
relazione di tipo economico-collaborativo.
Questo testo narra eventi di pura fantasia, destinati al
diletto ed all’intrattenimento di altri fans: non persegue alcun intento
diffamatorio (né pretende di dare informazioni veritiere sulle persone di cui
tratta) o finalità lucrativa.
Nessuna violazione dei diritti legalmente tutelati in merito alla musica ed alla
personalità degli artisti succitati si ritiene intesa.
L’intreccio qui descritto rappresenta invece copyright
dell’autrice (Callie Stephanides - http://fictionaldream.iobloggo.com). Non ne è ammessa
altrove la citazione totale né parziale, a meno che non sia stata autorizzata
dalla stessa tramite permesso scritto.
*****
L’esperienza ti aiuta sempre ad anticipare il peggio, non a
evitarlo, soprattutto, poi, se il punto di rottura è talmente evidente da
somigliare a una ferita insanabile.
La mia esperienza, in buona sostanza, erano due gruppi di
buon livello, che, raggiunta l’acme della propria parabola, erano poi colati a
picco. Nel mondo della musica è qualcosa di tanto frequente che guardi alle
eccezioni con discreto sospetto. Ci si lascia da buoni amici o da coniugi
stanchi delle barricate e dunque sollevati davanti a un pezzo di carta che
annuncia la fine della guerra.
Guerra vera, del resto, non è mai. Solo, da un giorno
all’altro, ti accorgi che l’entusiasmo e l’energia si sono esauriti, che non hai
più niente da dire o da dare, che le tue emozioni hanno preso da parecchio una
china del tutto diversa. Non puoi prendertela con nessuno: capita. Soprattutto
quando invecchi e ti sembra sempre che il tuo sia il punto di vista migliore
sulla realtà.
Sotto questo profilo fare il solista è più comodo, lineare e
indolore; cominci a comporre e ascolti soltanto te stesso, assecondi i tuoi
ritmi e ti assumi la responsabilità di quello che fai. A dire la verità, non so
se all’inizio sia stata questa consapevolezza a muovermi. Mi piaceva mixare e
l’offerta era interessante. I ragazzi – ma avevamo già tutti più di trent’anni,
forse era il caso di trovare un nuovo modo per chiamarci senza bluffare come
sulle foto troppo patinate che ci vendevano al miglior offerente – sembravano
persino più entusiasti di me. Lavoravo solo, era vero, ma non pensavo affatto
fosse qualcosa di definitivo, né che il gruppo rappresentasse un limite.
La mia esperienza, è evidente, allora non servì; non mi
accorsi affatto di cosa stesse accadendo agli altri. Non mi accorsi,
soprattutto, di come né haido né tetsu la pensassero come me.
I L’Arc~en~ciel rappresentano per tutti una clamorosa
eccezione alla precarietà del mondo musicale. È difficile trovare un gruppo
tanto longevo; un gruppo che da quasi quindici anni lavora come un organismo
efficiente. Questo è il mito che la produzione alimenta e che ci fa comodo
assecondare; questo è soprattutto un obiettivo che la band ha mancato, perché
quel miracoloso ingranaggio era già troppo danneggiato quando entrai a farne
parte per sopravvivere ancora a lungo.
Chi ha avuto l’intelligenza di realizzarlo, sa che i
L’Arc~en~ciel sono morti quattro anni fa. Non per mia scelta, né per volontà di
Ken. Kitamura è sempre stato molto diretto ed esplicito nel dire che un giorno,
forse, avrebbe appeso la chitarra al chiodo, ma anche allora non si sarebbe
stancato di comporre la musica che haido avrebbe cantato. Ma Ken e io, in fin
dei conti, non siamo i pilastri dell’arco, sono Takarai e Ogawa le due colonne,
e se la volta è crollata, è evidente, non c’è bisogno di affannarsi a trovarne
le ragioni.
Sono già lì, con assoluta e straziante evidenza.
Da un giorno all’altro, nei fatti, non si parlarono più. Mi
procura un disagio strano persino ammetterlo senza troppe perifrasi, perché è
una verità cui è difficile credere. Potrei anche rivendermi le argomentazioni di
apertura e dire allora che sì, in fin dei conti, capita. Ma a conoscerli è
palese che la logica non tiene, perché tetsu e haido sono molto più di due
compagni di squadra o due colleghi. Probabilmente è troppo poco persino dire che
sono stati amici – e già usare il passato è doloroso.
Devo fidarmi delle sensazioni che ebbi da subito, quando
bighellonavamo per i corridoi della Danger Crue, ciascuno dietro al proprio
manager.
Non conoscevo abbastanza Ogawa, perché nel suo salutare tutti
non dava mai davvero confidenza a nessuno, ma haido sì, e haido, con quella sua
assoluta incapacità di proteggere davvero le proprie emozioni – lo stesso dono
che lo rende così speciale e così vulnerabile insieme – aveva sempre in bocca
Tetchan.
Tetchan ha fatto. Tetchan ha detto.
Ti veniva quasi spontaneo malignare e ipotizzare del tenero,
ma sarebbe stato stupido: l’unico tenero, a ben vedere, era Hideto. Hideto
adorava Tetsuya e non gli importava che lo sapesse il mondo intero. È sempre
stato un tipo così; si imbarazza per tutto, tranne forse che per quello
che sente dentro. Per questa stessa ragione, però, non puoi fare a meno di
fartene coinvolgere e volergli bene, perché non è tanto facile trovare chi ti
regala un cuore. In Giappone, poi, meno che mai. haido viveva con Ogawa un
rapporto quasi simbiotico; si fidava ciecamente delle scelte del bassista. Se
tetsu gli avesse detto di impiccarsi per il bene del gruppo, forse l’avrebbe
fatto. Non perché fosse stupido – haido non lo è per niente, ma ragiona per
cortocircuiti tutti suoi. E se vuoi capirlo, devi stargli dietro ed arrenderti
alla sua logica – ma perché si fidava. Per Hideto la fiducia è tutto,
poiché di rado si avvicina agli altri sino al punto da poterla chiamare in
conto; se lo fa è perché le riconosce un valore.
E pretende altrettanto.
L’affetto, in ogni caso, era reciproco: anche tetsu si
prendeva cura di Hideto, neppure fosse stato sua madre. Era un rapporto molto
pulito, malgrado tutto; lo guardavamo con perplessità e invidia, più che con
l’intenzione di lanciare illazioni sporche da fangirl sconclusionate. Era una
bella amicizia, ed era il motore portante di un gruppo che da subito cominciò a
fare paura, perché era troppo perfetto per essere vero. I L’Arc~en~ciel
sembravano un organismo fatto di note: Ogawa era il cervello, Takarai il cuore,
Kitamura e Sakurazawa gli arti. Non c’era alcun vuoto e si sentiva. Quando
cominciai a lavorare per loro come drummer di background, fu quasi sconvolgente
realizzare che non era neppure una posa, perché quei quattro si erano trovati
come fratelli divisi alla nascita e fermamente intenzionati a non lasciarsi più.
Se c’erano scazzi – perché ci sono sempre, se hai un quarto di secolo e guadagni
quanto i tuoi non hanno messo insieme in una vita – durava troppo poco perché
fosse possibile realizzarlo. Per questo posso dire che è senz’altro falsa la
voce che si diffuse dopo l’incidente di Sakura, che tra haido e tetsu le
cose andassero male per colpa del batterista.
Non è così.
Ogawa era più freddo di Takarai, ma non fino al punto da
sentirsi rivale di un compagno. Era stato lui a volere Yasunori. Gli dava del
gorilla incivile e poi ne ridevano insieme. Se haido e Sakura erano
inseparabili, è però anche vero ci siano un mucchio di foto – ufficiali o meno –
in cui Tetsuya li stringe a sé tutti e due, come due figli un po’ scapestrati
che danno troppe preoccupazioni, ma come due figli. Sicuramente tetsu li avrà
supplicati un milione di volte di evitare quel fanservice perenne che li
danneggiava entrambi – non meno di quanto danneggiasse il gruppo. Ogawa si era
sempre battuto perché fosse conosciuta la sola musica della band, e invece i
concerti erano pieni di cosplayers sakuhai che rifacevano le scene
leziose del palco – senza mai essere ascoltato, ma lasciava pure correre, perché
in fin dei conti era uno che giudicava pochissimo. Non meno di quanto detestasse
esser giudicato. Eppure, come ho già detto, la crepa fatale fu quella legata
all’uscita di Yasunori.
Lo so perché l’ho vissuta, e fu una delle esperienze più
tristi che la mia carriera ha registrato.
Se si fosse trattato di un gruppo come gli altri, forse
l’incidente non sarebbe stato talmente devastante, ma i Laruku erano ora un
corpo amputato. E si vedeva. Ho parlato di una crepa, ma non so quanto riesca a
rendere l’idea. Forse sarebbe meglio pensare a una di quelle fenditure che
l’acqua scava sino a trarne persino il letto di un fiume.
Goccia dopo goccia.
A trentasette anni posso dire quel che l’esperienza insegna
da sola: esistono dolori che uniscono e altri che dividono inesorabilmente. Il
rapporto di tetsu ed haido era tanto speciale, però, che quell’imprevisto
procurò entrambe le reazioni. Credo si siano consolati e feriti al tempo stesso;
tetsu voleva rimettere in piedi i propri sogni, mentre haido non aveva più il
coraggio di parlarne. tetsu gli tendeva la mano e haido la afferrava, però, al
tempo stesso, il loro equilibrio si era come sbilanciato senza rimedio. Tetsuya
aveva perso quel poco di fiducia che aveva negli altri, come haido aveva perso
tutto l’entusiasmo. Non era meno gentile, Hideto, ma si era come ritirato in un
suo guscio irraggiungibile. È una persona molto spontanea e molto morbida,
a ben vedere; lo era anche allora. Lo era nei miei confronti, persino se avevo
preso il posto di Yacchan. Ma c’era anche qualcosa di assente e stanco, che
andava molto oltre il suo aspetto disastroso: era come un bambino che, scoperti
gli ingranaggi del suo giocattolo preferito, se ne senta frodato e tradito. Una
cosa così; ha sempre richiamato immagini infantili, oneste e pure. Non
credo provasse rancore per Tetsuya, ma non era neppure più pieno di fiducia:
esistevano circostanze in cui nessuno poteva salvarlo, né proteggere i suoi
sentimenti. Malgrado tutto quello che aveva sempre creduto, insomma, era solo.
Ci sono persone che vengono a patti da subito con il
problema, realizzi che comunque vivi, respiri e non hai bisogno di un polmone
d’acciaio fatto da un seguito partecipe. Altre che sanno di non farcela
comunque, a loro modo oneste. haido era così: aveva davvero molta paura della
propria solitudine, talmente tanta che, alla fine, ne aveva tenuto fuori persino
tetsu.
Sospetto che avesse problemi di droga anche Takarai – se non
di eroina, comunque qualche dipendenza non molto sana, perché era evidente non
stesse bene. Di sicuro tetsu lo sapeva. Non so neppure come si mosse per
arginarlo – se poi c’è mai riuscito del tutto – però immagino che Tetsuya non
gli abbia mai perdonato di averlo deluso così. Era un’incomprensione tragica ed
era pure la prima crepa; forse si accorsero che ormai erano adulti e che la
recita della bella famiglia non si sostanziava su niente. Rimasero sempre molto
vicini, ma più per una specie di abitudine gentile, credo, che perché ci
credessero ancora. E poi, di fondo, c’era che il gioco funzionava solo se era
haido a cercarlo. haido, quello che aveva bisogno. Tetsuya non chiedeva mai
nulla, si occupava di tutto e non lasciava sospesi, come un bravo, bravissimo
leader. Cosa doveva fare, del resto?
Però Takarai aveva bisogno di un vecchio amico; non so se
tetsu se ne fosse del tutto reso conto. Fu allora, forse, che pensò di fare il
solista, perché c’era una quantità di emozioni che nessuno ascoltava più.
Esistono creature speciali, che con la loro voce sanno
raccontarti la vita più di qualunque libro: haido è una di queste. Per farlo,
però, devi concedergli carta bianca e lo spazio che desidera, altrimenti è solo
silenzio. All’inizio il mutamento sembrava solo musicale e c’era chi se la
prendeva con me, un intruso capitato all’improvviso nel posto sbagliato. I miei
compagni di squadra, nondimeno, erano anche i primi a difendermi. Può sembrare
improbabile, viste le circostanze, ma anche attorno a me si ricreò quel senso
familiare e piacevole di fratellanza non solo artistica. Persino se non era più
come ai tempi di Sakura, dunque, una certa atmosfera restava, e suonava
consolante.
Però cambiavamo.
Meglio: cambiava.
Mutava haido.
Quella spina che gli era entrata dentro un tremendo febbraio
del novantasette non era più uscita; per cinque anni continuò a dibattersi nel
vano tentativo di liberarsene. Poi, senza quasi preavviso, cominciò a parlare di
una carriera solista che suonava piuttosto di distacco. Non era la prima volta,
ripeto, che capitava qualcosa del genere: il suo caso, poi, visto quant’era
bravo e conosciuto, suonava più plausibile di tanti altri. Però… C’era qualcosa
di triste e irrisolto dietro un evento tanto lineare e coerente in apparenza;
forse proprio l’espressione con cui tetsu ed haido si cercavano, oltre cumuli di
tabs che sapevano già quasi solo di ricordo. Non si parlavano molto, ma non ne
avevano neppure mai avuto granché bisogno.
Almeno credevano loro.
La verità è che forse avrebbero dovuto provare ad alzare più
la voce e tentare di ritrovarsi per come si erano conosciuti. Forse anche
rinfacciarsi quello che non sopportavano più dell’altro: sono convinto che si
sarebbero persino abbracciati. haido l’avrebbe fatto, almeno.
E dunque i L’Arc~en~ciel morirono così, appena dopo il lancio
negli Stati Uniti. Nessuno se ne accorse, perché a nessuno avrebbe fatto comodo
saperlo. Eravamo tutti stanchi ed esauriti da un triennio massacrante. Stavo
bene con loro e non pensavo di separarmene. Nello sguardo di Ken, però, c’era
qualcosa di molto eloquente fin d’allora. Kitamura li conosceva bene. Li
conosceva molto più di me. Soprattutto conosceva Tetsuya e sapeva quanto fosse
intransigente.
Quando haido cominciò a parlare delle sue canzoni e dei suoi
progetti – a ben vedere c’era qualcosa di esitante in lui. Come se per primo
volesse sondare il terreno prima di aprire le ali e tentare il salto – Ken,
ridendo, gli disse subito la verità: che tetsu non l’avrebbe presa bene. Non
l’avrebbe presa neppure male, precisò, ma non bene. Non c’era un perché
definito, o forse le ragioni erano irrazionali e si perdevano in tortuosità
emotive che nessuno aveva la voglia di esplorare.
Può anche darsi che Ken avesse letto qualche bozza di
Roentgen e tratto da lì le conclusioni, aveva fiutato, cioè, che il nucleo
originario di quell’album datava proprio millenovecentonovantasette.
haido era disposto ad abbandonare tetsu nel momento più
tragico del gruppo? Non credo.
Voleva solo piangere in santa pace e a modo suo. Nei
L’Arc~en~ciel, però, Ogawa non gliel’avrebbe permesso, dunque non aveva altra
scelta.
Ci perdemmo di vista per un po’. Pensavo che cercare nuovi
stimoli avrebbe fatto bene un po’ a tutti. Ho sempre pensato che la vecchiaia
sia uno stato mentale più che fisico; non mi sentivo allora – né oggi – superato
dai tempi. C’era una quantità di combinazioni sonore che non avevo mai esplorato
e ora potevo cercare liberamente, sciolto dai vincoli di un gruppo e da una
produzione più intransigente. Egoisticamente potrei dire sia stato un buon
momento, non sentivo, cioè, la nostalgia delle nottate in sala di registrazione
o delle migliaia di set e di interviste che ci toccavano. Solo a tratti, a
rivederci in qualche passaggio televisivo, montava un po’ di malinconia ipocrita
e forse pure autocentrata. Il video di Niji, in ogni caso, mi faceva
sorgere la voglia di sollevare il telefono, perché era stato da quella canzone
ch’era ricominciato tutto, nel bene come nel male.
Era da quella canzone, in fondo, che esistevo anch’io.
Invece fu haido a ristabilire il contatto, mandandomi da
Londra della cioccolata per San Valentino. Riuscì a regalarmi pure l’unico tipo
che non mi piace, ma se non avesse sbagliato, a ben vedere, non sarebbe stato da
lui – e poi era il pensiero a contare più di tutto il resto; persino in certe
gentilezza maldestre era impossibile non riconoscerlo.
Ci rivedemmo quando tornò in Giappone.
Evitai di lasciargli capire quanto la sua metamorfosi mi
avesse impressionato, ma suppongo che lo intuì da solo; non lo guardavo in viso,
non in modo diretto, almeno.
Sembrava invecchiato di colpo di vent’anni. L’avevo lasciato
che pareva un ragazzino e all’improvviso, con quei capelli tanto biondi da
sembrare bianchi, dimostrava quasi più dei suoi trentatre anni. Ma a segnarlo
davvero era soprattutto un’espressione opaca; era quella che lo faceva
somigliare a un vecchio rassegnato. Era molto più magro di come lo ricordavo,
non macilento come ai tempi di Niji, ma senz’altro non avrei detto
vantasse una splendida forma. Non sembrava una persona felice. Aveva ottenuto
riconoscimenti e plauso, ma non aveva neppure tentato un vero e proprio tour per
promuovere Roentgen. Era come se, all’improvviso, avesse perso interesse
per tutto: a partire dalla musica che amava tanto.
Dopo qualche imbarazzo, la conversazione si fece più vivace;
il bello di haido è che, ritrovato il filo dell’affetto, non se lo lascia
sfuggire facilmente. Era interessato ai miei progetti, sembrava ancora molto
innamorato di sua moglie – anche se la trascurava. Se ne rendeva conto, ma non
riusciva a venire a capo neppure di quello – gli avevano persino proposto un
ruolo in un film.
‘Un attore. Io? Ti pare?’
C’era una sfumatura amara nella sua voce; quel poco che
sapevo di lui mi diceva pensasse forse a Tetsuya. E Tetsuya, sarcastico, gli
avrebbe ricordato che, in fin dei conti, haido recitava sempre.
Non era così: Takarai aveva sempre recitato troppo poco,
invece, con la conseguenza di aver pagato in prima persona quello che le nostre
ipocrisie più astute ci evitavano. Bisognava essere onesti fino in fondo,
insomma, e riconoscergli quella strana grazia che non salvava davvero nessuno.
Bevve più di quanto ricordassi fosse solito fare. Mi chiesi se il suo aspetto
così poco sano non dipendesse anche da quello. Mi anticipò quasi mi avesse letto
nel pensiero. ‘Non sono stato molto bene. La gola continua a darmi problemi.’
Non era una novità, né una sorpresa. La voce di haido si era
abbassata molto dalla fine degli anni Novanta. Si ammalava con estrema facilità
e, a furia di imbottirsi di penicillina per stroncare le infezioni, aveva
sviluppato una curiosa immunità quasi solo per gli antibiotici. tetsu fingeva di
arrabbiarsi, ma era il primo a preoccuparsene. Di solito stilava il calendario
delle registrazioni calcolando anche gli eventuali raffreddori di Hideto. Mi
chiesi se senza Ogawa avesse qualcuno altrettanto accorto, o se, piuttosto,
continuasse a lavorare, come l’operaio che sapeva essere; senza rendermene
conto, nei fatti, stabilivo di nuovo tra loro una relazione, quasi fosse
scontato esistesse un invisibile filo rosso che legava l’uno all’altro.
Fino alle estreme conseguenze.
Mi chiesi soprattutto se a Tetsuya mancasse un po’ Takarai;
se avesse capito, finalmente, le ragioni per cui aveva sentito il bisogno di
allontanarsi un po’ da lui.
Hideto era uno che a più di trent’anni doveva ancora capire
cosa davvero potesse renderlo felice e fiero di sé; finché tetsu gli avesse
suggerito le risposte, in fin dei conti, non l’avrebbe saputo. Avrebbe
continuato a sentirsi la stupida marionetta di quasi dieci anni prima, mossa
dalla volontà di un altro.
È un uomo complicato, haido. Forte e fragile al tempo stesso.
Pieno di ferite che non riesce a guarire solo con la propria volontà.
Se poi avessi nutrito sospetti in merito al fatto che Hideto
non avesse dimenticato Tetsuya, il tono solo falsamente noncurante con cui mi
disse ‘Che combina Tetchan?’ avrebbe esaurito ogni mio dubbio. Risposi
dicendo la verità: non era una buona, né una cattiva notizia, per quanto forse
potesse rincuorarlo.
Ogawa non aveva più chiamato nessuno.
Sospirò un poco, abbandonando poi il viso tra le braccia
intrecciate, come a dire: ‘È proprio da Tetchan’. Ammetterlo, però, non
guariva davvero nessuna ferita. Era evidente.
Ci lasciammo con il proposito di vederci ancora, almeno
finché fosse rimasto in Giappone. Un paio di volte si unì anche Ken, che diceva
di godersi l’anno sabbatico, al contrario di noi stacanovisti malati di
protagonismo, ma si vedeva che era annoiato. Non osavamo dirlo, ma avevamo
voglia di ritrovarci come gruppo e come amici, perché i L’Arc~en~ciel non erano
solo un guinzaglio, quanto pure una riserva inesauribile di suggestioni e
d’ispirazione.
Tuttavia eravamo solo in tre e questo bastava a riproporre lo
spettro di un corpo mutilato: anche il cuore batteva a stento e faticava a
ritrovare se stesso.
Hideto si lasciò sfuggire che forse sarebbe stato bello
suonare insieme, anche senza il gruppo ufficiale. L’idea mi sembrava buona a
prescindere da quello che intuivo fosse lo scopo principale: costringere Tetsuya
a guardarlo di nuovo, a recuperare un rapporto o, se quell’ipotesi lo disgustava
poi così profondamente, dargli almeno la possibilità di mostrargli quell’haido
che non voleva vedere.
Un haido adulto, che cercava rispetto.
Nell’attesa, come seppi in seguito, era rimasto per ore al
gelo ad aspettare il proprietario di un’automobile che somigliava a quella di
Ogawa, salvo realizzare che il suo richiamo non servisse a raggiungere chi forse
aveva il privilegio di saper dimenticare.
Hideto no, non dimenticava proprio nulla.
Al più appassiva in silenzio, come un fiore.