La vita in
guerra non è come l'ho sempre immaginata.
Certo, non
posso pretendere di avere una visione completamente diversa dalla realtà, ma
nessuno ci ha mai detto che saremmo divenuti degli assassini a sangue freddo.
Siamo stanchi,
affaticati, ricoperti di terra, sporchi, ammassati nelle trincee, in attesa di
un comando. Del terribile comando di assalto.
Il vero
soldato, obbediente e valoroso, non aspetta altro che quel terribile momento,
fonte allo stesso tempo di gloria o libertà: se cadi, muori, sei finalmente
libero da questo orrore, puoi scappare, puoi smettere finalmente di combattere;
se vinci, se uccidi, ma, soprattutto, se sopravvivi, guadagni quel minimo di
gloria che può renderti orgoglioso e fiero per un poco di tempo.
A pensarci,
preferisco la prima possibilità.
Tengo stretto
il fucile tra le mie mani tremanti, seduto con la schiena appoggiata contro il
muro della trincea, nervoso, agitato, spaventato.
Cerco di
rendere la mia mente immune ad ogni sentimento, cosicché io possa uccidere
senza rimorsi.
I compagni al
mio fianco condividono il mio stesso umore.
L'uomo seduto
alla mia destra respira affannosamente, stanco e spaventato da tutto quel
massacro; appoggia la testa al muro di terra dietro di noi, l'elmetto colorato
di terra e sangue. Chiude gli occhi, forse pregando un qualche Dio di salvarlo.
O di ucciderlo.
Sembra più o
meno la stessa cosa, ormai.
Poco più in là
scorgo un ragazzino di a malapena 18 anni. La stretta sul fucile è insicura ed
inesperta e gli occhi terrorizzati.
Cosa ci aspetterà
oltre quella trincea? La morte. La libertà.
Si inizia. Il
comandante lancia il segnale d'attacco. È il momento dell'assalto.
Prendo un forte
respiro e mi alzo in piedi velocemente, imitato dai miei commilitoni.
Scavalchiamo il
muro di terra e ci lanciamo verso il nulla.
I nemici sono
invisibili, non si vedono. Sono nascosti dalla nebbia, dalla polvere; per
questo puntiamo un punto a caso, sperando che siano lì. E non ci sbagliamo.
Pochi secondi
ed il primo di noi già cade a terra, colpito dagli spari. Ma non c'è tempo per
fermarsi e soccorrerlo, rischieremmo solo di farci colpire anche noi.
Continuiamo,
ignorando il nostro compagno appena caduto; provo invidia nei suoi confronti:
lui è stato il primo ad aver trovato la libertà, la salvezza.
Una granata mi
esplode davanti agli occhi, lanciando in aria terra e detriti. Mi riparo il
volto con le braccia, per evitare che la polvere mi arrivi negli occhi o nella
bocca, poiché ciò provocherebbe solo la mia immediata fine.
Alla mia
destra, il soldato che era seduto accanto a me nella trincea, viene
scaraventato a terra dall'esplosione. Distolgo immediatamente lo sguardo quando
lo vedo portarsi la mano destra alla spalla sinistra, rimasta senza braccio. Il
sangue gli esce a fiotti e lui si contorce, il fucile abbandonato a terra.
È questa la
fine che ci aspetta? Morire per salvarci?
Continuo la mia
avanzata.
Dietro ad una
nuvola di polvere scorgo dei soldati che non sembrano appartenere al mio
esercito. Senza pensarci punto il fucile verso di loro. Pochi secondi di attesa
e faccio partire un colpo.
Potrebbero
essere dei miei compagni, potrei sbagliarmi, ma non posso avere il lusso di
fermarmi e verificare i miei dubbi.
Uno viene
colpito dal mio colpo e con un gemito cade all'indietro e rimane inerme a
terra.
Continuo a
sparare verso gli altri, cercando di non pensare che anche loro sono come me:
uomini terrorizzati e angosciati.
Quando il
fucile si scarica lo getto a terra e mi lancio verso il nemico. Estraggo una
mazza con le punte all'estremità: una di quelle armi antiche e medievali
ripescate per l'occasione di questa sporca ed insulsa guerra.
Dei colpi di
fucile partono verso di me, ma prima che mi colpiscono faccio in tempo a
raggiungere un mio nemico.
Questo è il
tipo di assalto peggiore: quello in cui devi guardare la tua vittima da vicino,
lo devi puntare negli occhi per ucciderlo, devi avvicinarti a lui.
Alzo la mazza
in aria ed urlando l'abbasso su di lui.
Si difende con
le braccia, terrorizzato e spaesato, gli occhi che mi fissano per pietà.
Ma la pietà non
è ammessa in guerra. O loro, o io.
La mazza lo
colpisce sull'elmetto e le punte di metallo lo perforano.
Cade a terra
senza vita come se fosse una bambola di pezza.
Provo a
scaraventarmi verso un altro ma non faccio in tempo. Il mio corpo viene
perforato da un mucchio di pallottole; una di queste mi colpisce il braccio
destro e mi fa perdere la mia arma.
Ora sono
completamente indifeso.
Uno dei miei
assalitori viene colpito da dei fucili del mio esercito. Ma è troppo tardi.
Cado a terra
stremato e i miei occhi fissano con odio il mio salvatore: riconosco i suoi
tremanti e fragili movimenti nel giovane di 18 anni che ho visto nella trincea.
Non lo
ringrazio, non ne ha il diritto: lui ha tentato di rinnegare la mia unica uscita
di salvezza, ha tentato di riportarmi in quella orribile trincea.
Per fortuna non
ha fatto in tempo.
La vista mi si
appanna, mentre miliardi di fitte di dolore partono da tutto il mio corpo.
Neanche ho la forza di urlare, di gemere. Ho solo voglia di stare sdraiato qui,
su questa terra fredda e macchiata di sangue, mentre gli altri mi pestano con i
loro piedi, mi passano sopra senza vedermi.
Il giovane cade
a terra sotto gli spari nemici. Anche lui è stato salvato, anche la sua giovane
vita.
Alcuni di noi,
finalmente, sono liberi.
E come mio
ultimo desiderio prego perché anche gli altri lo siano.
Scorgo, in modo
confuso, soldati nemici che corrono verso di noi urlando e sparando verso quelli che ancora sono in piedi.
Gli sorrido di
scherno: loro vinceranno anche la guerra, ma qui i veri vincitori siamo noi,
caduti, morti; gli unici che sono riusciti a salvarsi.
O loro, o io.
E alla fine ho
vinto io.