Metteteci
quel che volete, so soltanto che è la storia migliore che
abbia scritto nel fandom HP – be’, più o
meno,
però è un esserino tanto fragile che non posso
non
armarlo.
La
colonna sonora sarebbe “Happy you’re
gone” dei Placebo, ma anche “Ashtray
Heart”.
La
trovate su wolfstar_ita
(or Beesp)
&
Follow
the cops
back home. Quindi la riutilizziamo (perché sono
una
scansafatiche patentata – e autorizzata al riciclo) con il
prompt #14 – Ombra. Perché ho scelto proprio
questo?
[Cont. Sotto]
Buona
lettura.
Many times – befor and again
Camera
da letto, pezzi di fuoco tra pieghe d’abiti
gettati sul pavimento. E scarpe, camicie, pantaloni, una maglietta di
un gruppo musicale smunta, giradischi che riproduce vecchi successi
degli anni ’60.
Poltrire dall’alba
al
tramonto, in una foschia irrazionale senza senso, tra un rimedio
babbano all’infelicità – spinelli sono
chiamati –
e del whiskey incendiario.
Sembra
di ritornare indietro nel tempo, all’epoca in cui il padre di
Teddy era pressoché un bambino, eppure al centro del mondo,
in
una Londra che riversava forza e creatività.
Pigramente,
James disegna sull’avambraccio dell’altro spirali e
circoli, spirali e circoli, guardando al soffitto, e poi ai capelli
di Teddy, al suo profilo rilassato e dagli occhi chiusi, alla piega
delle sopracciglia morbide eppure tristi, anche nel sonno.
Una
ceneriera poggiata sul comodino, cicche di sigarette vecchie di
giorni; come se la magia non esistesse in tutto quello, e forse
soltanto per esorcizzare la completa diversità dei
sentimenti
che si respiravano nell’aria stantia
dell’appartamento,
con le imposte chiuse, il buio perenne, il caldo estivo –
nonostante appena fuori dalla finestra il cielo sfogasse la sua
rabbia con piogge costanti.
Lenzuola
macchiate di vita, lenzuola che si attorcigliano intorno al corpo di
James, e che lasciano scoperto l’inguine di Teddy.
James
trascorre intere ore, quasi la metà di quelle che hanno
sigillato la loro “tomba” in quel luogo, a scrutare
il
corpo e le espressioni di Ted. Come se ogni momento potesse
tramutarsi in qualcos’altro, sparire, decidere di non esser
più
soddisfatto – o felice, se questa è
felicità –
stancarsi, annoiarsi.
Ma
Ted è sempre lì, l’asse della Terra,
con i suoi
dubbi e le paure, il bisogno d’essere rassicurato che non vi
sia nulla di sbagliato. Certe volte a James pare quasi di prenderlo
in giro, tanto chiedono sincerità e si accontentano di
qualsiasi parola gli occhi di Teddy, più profondi perfino
della profondità stessa. E invece non gli sta mentendo, ma
soltanto donando la sua visione della realtà più
decorata di bontà di quanto non sia.
Questo
ed altro per lui.
Harry
Potter, un giorno, si ritrovò suo figlio tra i piedi in casa
per l’ultima volta.
James
stava impacchettando la sua roba, infilando degli abiti in una
valigia – molti dei quali sporchi e raccolti appena dal
pavimento – dei CD, poster, e tutto quello che può
far
sembrare ad un adolescente un qualsiasi luogo una casa.
“Dove
vai?”.
Di
certo non se lo aspettava, quando aveva posato la mano sulla maniglia
della porta della camera del figlio, che avrebbe trovato quello
scenario... desolato, come se fosse già andato via. E invece
riempiva per l’ultima volta lo spazio.
“Vado
a vivere con Teddy”.
Aveva sempre creduto che quella che scorreva tra i due fosse
un’amicizia più unica che rara, un attaccamento
viscerale, forse dovuto al modo in cui erano cresciuti entrambi sotto
la protezione di Harry, felice che suo figlio e il suo figlioccio
fossero tanto inseparabili.
Il
primo dubbio, però, arrivò con la risposta alla
sua
domanda.
“E
Teddy lo sa?”.
“No,
devo essere sempre io a prendere le decisioni, qui”.
Affermò
con tono stizzito il suo primogenito, prima di aggrapparsi alla
maniglia del bagaglio e trascinarsi fino alla porta di casa.
“Pa’”
Si ricordò dopo un po’, dato che l’uomo
l’aveva
seguito fino all’uscio. “Sta’ tranquillo,
abitiamo
a un chilometro di distanza”.
Harry
aveva sorriso e aveva lasciato il figlio con una stretta di mano. Il
furbastro aveva preparato una lettera – aveva detto prima di
avviarsi su per il vialetto – di commiato dalla sua famiglia.
Ecco spiegata la sua assenza e la voglia irrefrenabile e ben visibile
di raggiungere il suo migliore amico.
Da quel momento, vederli separati era stato impossibile – o difficile. Quando si mettevano in contatto con i due erano sempre nella medesima posizione, sul divano, impegnati in attività diverse. Si scambiavano gli indumenti, uscivano poco dalle mura domestiche oltre che per il lavoro, ed erano circondati da un’aura impenetrabile. Nulla di negativo, ma sconcertante per l’intensità.
Harry
era stato colto dalla comprensione all’improvviso.
In
seguito l’attribuì al potere dell’alcol
che rende
liberi dalle inibizioni, permette al cervello di lavorare senza freni
in ogni direzione – a volte raggiungendo vicoli ciechi
–
e collega i corridoi delle supposizioni.
O
forse dai palesi sorrisi complici e maliziosi che suo figlio
scambiava con Teddy a quell’ora tarda, un paio di gomitate
assestategli dal figlioccio, e ancora una coordinazione dei movimenti
tra i due invidiabile.
Ciò
che più l’angosciava era, però,
accorgersi dei
loro umori. Perché sì, erano felici, eppure
coperti di
una patina di insofferenza, probabilmente dovuta alla lontananza, se
pur sempre minima, dei corpi.
L’amore
ferisce.
Teddy
respira contro il suo collo, girato verso di lui, lo stringe come un
pupazzo. James non oppone resistenza, beato.
Metter
testa fuori dal loro rifugio immacolato e incontaminato è
sempre scioccante. Suo padre si è accorto del nuovo vezzo,
non
ne è contento, e gli domanda spesso se è andato
in quel
negozio che gli ha consigliato, o se ha visitato tale mostra
artistica babbana.
Persino
intrecciare e basta le dita con quelle di Teddy non è
abbastanza.
Non
è neanche lontanamente
abbastanza.
Deve
sentire – quel sentire particolare che è quasi una
riverenza nei confronti del piacere e dell’amore, quando si
ha
quello che hanno loro – Teddy.
Andromeda
osservava suo nipote e James. Di continuo, ogni volta che ne aveva la
possibilità.
Li
guardava con tutta l’apprensione di cui era capace, sperando
che un po’ di buonsenso si trasferisse anche nelle loro teste
sconsiderate; bruciavano così velocemente quelle fiamme[1].
Soffocate da chissà quale mancanza d’ossigeno.
Chiunque
credeva che stessero soffrendo. Chiunque in famiglia.
Non
era così che sarebbe dovuto essere. Non
di nuovo.
Andromeda,
ancor più di altri, odiava paragonarli... ad altri.
Eppure erano così similmente distrutti, impersonando i ruoli
che erano stati di Remus e Sirius. James e il suo fascino, la
sconsideratezza, la lealtà, Teddy e le insicurezze ereditate
interamente da suo padre, l’amore in grado di abbattere
qualsiasi barriera rubato a Tonks.
Sirius
si era confidato con lei all’epoca. Aveva parlato come
soltanto
lui riusciva: non era a disagio, nonostante era ben evidente che
fosse la prima volta che aveva a che fare – e forse
l’ultima
– con l’amore.
“Sono
innamorato di Remus Lupin, uno dei miei migliori amici”.
Controllava
che le unghie delle mani fossero a posto, non nascondendo del tutto
una certa dose di senso di colpa dietro l’indifferenza falsa.
Come
le accadeva quasi sempre, non aveva saputo cosa rispondere. Se
c’era
qualcosa che non sopportava era non capire
le persone, e in particolare quelle che amava. Sirius, puntualmente,
si dimostrava soltanto in grado di farla apparire una ragazzina
inesperta di fronte a un cugino più giovane eppure
più
maturo.
“Sembri
infelice”.
Aveva
riversato su di lei un fiume in piena di parole: non voleva che la
loro amicizia fosse rovinata, poi, non voleva che lui si richiudesse
ancor di più nel suo dolore, pieno di debolezze e sofferenze.
“Digli
la verità, di solito funziona così”.
In
realtà, Sirius trovò il coraggio di parlargli
soltanto
l’anno prima di finire ad Azkaban, e quel poco che avevano
condiviso era bastato per dimostrare che tutto, per quanto perfetto,
sarebbe andato male.
L’un
l’altro sarebbero dovuti essere il ‘pezzo
mancante’, ma proprio per quello non riuscivano a prendersi
abbastanza... qualsiasi tocco era poco.
Poco,
poco. Una vita non era in grado di contenere tutto quella passione? O
amore? O “sentimento esclusivamente di Remus e Sirius,
nessuno
può rubarlo o definirlo”?
Merlino,
qualche volta in seguito aveva incontrato Remus... era stato
terribile. Terribile quasi quanto sapere che il proprio cugino aveva
ucciso il proprio
fratello
– se pur acquisito.
Remus
le sorrideva, ed era chiaro che non la odiava per essere imparentata
con quel mostro. Ancor più nel profondo, però,
Remus
smentiva quella parola, quel “mostro”.
Gli
anni trascorsero.
Sirius
riscattò il suo nome morendo; Andromeda non seppe mai cosa
successe da quando Sirius scappò di galera, ma era certa che
fosse più semplice della prima volta, nonostante sarebbe
dovuto essere il contrario.
Tonks
si era innamorata di Remus. Si era sentita mancare quando le era
stato chiaro. Immaginava le sofferenze di sua figlia, che aveva
appena perso suo zio – della quale morte credeva di essere
responsabile – e avrebbe scoperto di non poter essere
ricambiata. Remus non avrebbe potuto mai trovare il posto per
sistemare tutta Tonks, la sua mole era possente quasi quanto quella
di Sirius.
Invece
lo fece. Mise da parte le sue emozioni, e le si dedicò con
devozione. Amandola non come Sirius: stupendo tutti quel sentimento
era una piccola gemma pura, un cristallo di sincerità in cui
si catalizzavano gli affanni e i dolori, con Tonks che gli prendeva
la testa, lo ammutoliva, e lo calmava.
“Andrà
tutto bene”.
Sapeva
di essere la seconda. Eppure sempre la prima. Remus non era
fisicamente capace di ferire così
qualcuno –
anche se con se stesso era il più rude dei boia.
Teddy
era troppo fragile. Soltanto essere come Remus, e crescere senza
genitori, l’avrebbe esposto al mondo fin troppo. Ma poi
ricevere l’amore di Nymphadora in dote era stato il colmo.
James
era in grado di erigere intorno a loro due uno scudo, certo, ma si
guardavano come si erano guardati prima di loro Sirius e Remus.
Eppure rimanendo sempre fedeli a loro stessi, e mai soltanto pedine
del destino, più che altro semplicemente sfortunate
reincarnazioni di vecchi valori morti.
Andromeda
aveva paura.
E
dividerli, comunque, sarebbe stato un omicidio più eclatante
che lasciarli uccidersi con le loro stesse mani.
James
fissa negli occhi Teddy, finalmente sveglio, torace contro torace,
pelle che aderisce, modellata in simmetria per non lasciare punti
scoperti (punti deboli) tra i due. Sorride, sorride perché
è
felice e Teddy, intontito, non capisce cosa ci sia di divertente.
Forse
la chioma intricata, oppure le palpebre non ancora dischiuse del
tutto, la voce arrochita...
Affonda
la testa tra il collo e la spalla. “Sei bollente”.
James
annuisce flebilmente, d’altronde non è una
domanda.
Teddy gli accarezza il collo delicatamente, perché ha paura
di
ferirlo, di farlo appassire; sono così felici James Sirius e
Teddy Junior, anche se dicono loro che assomigliano a Sirius e Remus,
anche se hanno delle fobie ridicole da quando hanno avuto
l’età
per comprendere l’affetto tra di loro.
Perché
hanno quello che desiderano. Per una volta è tutto quel che
conta.
[
… ] Perché Teddy e James Sirius vivono nell’ombra
di Remus e Sirius, per quanto siano diversi e loro stessi. Ed
è
forse proprio quell’ombra
a provocare questo amore complicato.
[1] Frase
tratta da alcuni pensieri di Kurt Cobain.