Storie originali > Drammatico
Ricorda la storia  |      
Autore: Me91    22/11/2010    2 recensioni
[...] «Quando ero piccolo, mia madre mi diceva sempre... “Will, la vita è come una torta al cioccolato con farcitura di marmellata di albicocche. Ti sembra bella e buonissima, finché non arrivi a mangiare la marmellata.”... Lei odiava la marmellata di albicocche» sospirò brevemente, prima di continuare:
«Ecco, io sono arrivato alla marmellata»

Secondo posto al contest "Dormono sulla collina" indetto da NonnaPapera! e vincitrice del premio "Introspezione"
Genere: Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Segno qui il link per il concorso: http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=9321037

Note: I fatti di cui parlo sono veramente accaduti, tranne per quel che riguarda il protagonista William Harris e il suo amico Matthew Barnes, che sono frutto della mia fantasia. Tutti gli altri nomi, le cariche dei soldati, il nome della nave e dell’aereo sono reali, ho preso le informazioni da Wikipedia e altri siti. Così come ci sono alcune citazioni veritiere, che segnerò con un asterisco e specificherò in fondo alla storia insieme ad altre note.
Detto questo, spero che nel complesso la fic vi piaccia e... Buona lettura!

 Marmellata troppo amara

Il motore dell’aereo ronzava fastidiosamente e la ricetrasmittente non smetteva un attimo di gracchiare.
Will aveva lo sguardo puntato fuori; scrutava il cielo nuvoloso con una faccia di pietra.
«Visibilità buona; assenza di nubi sopra il bersaglio» annunciò all’auricolare il colonnello Paul Tibbets, ai comandi dell’aereo.
«Quanto dista il vostro obbiettivo?» la voce uscì crocchiando dalle cuffie, così forte che sentirono anche gli altri soldati.
«Dieci minuti» rispose Tibbets, lanciando uno sguardo verso il copilota, il capitano Robert Lewis, in cerca di conferma.
«Anche meno» precisò Lewis, senza staccare gli occhi dalla città che si stagliava poco avanti.
«Bene» rispose la base e per il momento chiuse la comunicazione.
Tibbets sospirò, scuotendo il capo.
«Intenderà tenermi il muso tutto il resto del giorno, capitano?»
Lewis aggrottò le sopracciglia, evitando di guardarlo, e sbottò:
«Anche per il resto della vita, se ci tiene, colonnello»
«Suvvia. Ho dato proprio un bel nome a questo aereo»
«È il nome di sua madre» Lewis storse le labbra.
Tibbets gli lanciò un’occhiata di sottecchi, commentando:
«È che ancora non manda giù il fatto che l’abbia scavalcata al comando...»
«La buffonata del nome poteva anche evitarsela»
«Come ha detto, è il nome di mia madre. Veda di non offenderla»
«Non sia mai»
Le voci giungevano lievi alle orecchie di William Harris, che ancora osservava le nuvole e il cielo chiaro di quella mattina con mille pensieri in testa.
Meno di dieci minuti all’obbiettivo...
Sarebbe stata una missione decisiva, ne era certo. Anzi, la missione decisiva.
Si fece scuro in volto, freddo e deciso.
Una missione giusta, meritata; una degna fine per chi gli aveva procurato così tanto rancore... così tanto dolore.
Chiuse gli occhi, sofferente, travolto da quegli infelici ricordi di quello sbiadito dicembre del ‘41. 

«Portaci altra birra, Quinn! Dobbiamo festeggiare!» fece a gran voce Matthew Barnes con la sua solita allegria.
«Non vorrai arrivare ubriaco al tuo primo giorno, spero» William gli lanciò uno sguardo divertito.
«Ma che, scherzi? Tra un po’ vado a dormire» Matthew diede un’occhiata al suo orologio da polso, fischiando con sorpresa «Accidenti, sono già le tre e l’alzata è alle sei e mezzo. Dobbiamo essere a bordo dell’Arizona per il pomeriggio...»
«Già immagino che arriverai in ritardo» William si portò una mano sul viso, scuotendo il capo.
Matthew gli diede un pugno al braccio, esclamando:
«Smettila! Il solito uccello del malaugurio»
Insieme risero, poi Matthew gli lanciò un piccolo sorrisino di soddisfazione, dicendo:
«Ammetti piuttosto che ti rode la mia promozione...»
«Niente affatto» l’immediata risposta fece allargare il sorriso di Matthew.
«Beccato!» rise Matt, afferrando la birra che gli porgeva la cameriera e sbattendola sul tavolo.
William storse le labbra.
«Ma piantala!» sbottò, in effetti invidioso.
Matthew alzò la sua birra, esclamando:
«Onore all’America...»
«... Fino alla morte!» concluse con lui Will, alzando a sua volta il boccale.
Bevvero tutto di un fiato, poi Matthew, pulendosi con una manica la bocca, lo rassicurò:
«Coraggio, Will, non prendertela. Tu sei fatto per l’esercito! Non ho mai conosciuto uno più in gamba di te»
«Eppure la promozione a tenente l’hai avuta tu, non io» fece notare l’altro.
Il moro gli rivolse un sorriso furbo dei suoi; i denti bianchissimi brillarono nel buio, risaltando sulla carnagione di un dolce color cioccolato.
«Ho detto che sei in gamba, non che sei migliore di me»
William sbuffò, trattenendo a stento le risate e spingendolo via con una mano.
Quando uscirono l’aria era particolarmente fresca. Nonostante fosse notte, il porto pullulava ancora di vita; soldati e pescatori per le strade e qualche luce in alcune dimore.
«Pensi allora che si entrerà in guerra...» chiese William, mentre camminava sul molo con l’altro.
«Se stanno armando le corazzate e ci chiamano a bordo, suppongo di sì. Per ora sono solamente esercitazioni, però. L’America potrebbe entrare in guerra domani, così come tra qualche mese, chissà» commentò Matthew tranquillamente, mettendosi le mani in tasca e calciando un sasso, che cadde in acqua con un tonfo.
William alzò pensieroso lo sguardo al cielo, dicendo:
«Pensaci, Matt... la guerra. Riesci ad immaginarla? Sembra così lontana...»
L’altro alzò le spalle senza rispondere.
Will tirò un po’ le labbra.
«Dimmi, ma... non hai per niente paura?»
Matthew rimase a fissare l’acqua scura del mare che si estendeva davanti a loro. Sembrava pensieroso.
Rispose dopo qualche istante a mezza voce:
«Paura? Perché dovrei averne?»
«Perché finora abbiamo scherzato. È il momento di fare i seri»
«Sempre ottimista tu...» sospirò Matthew, alzando gli occhi al cielo buio.
«Matt» William si voltò a guardarlo «Hai ventisei anni e una madre anziana. Come la prenderebbe se...?»
«Dai, Will, piantala» lo interruppe, rivolgendogli lo sguardo con quell’aria tranquilla di sempre, ma William notò un certo turbamento dentro i suoi occhi chiari, di un verde limpido.
«Ti preoccupi per me, Will?» fece Matthew, alzando un sopracciglio.
«Non dovrei?» ribatté l’altro, scuro in volto.
Matthew gli sorrise.
«Allora facciamo così... cercherò di tenermi fuori dai guai, d’accordo?»
«Io parlavo seriamente» la voce di William era cupa.
Matthew cacciò il sorriso e tornò serio. Attese qualche secondo, prima di chiedere:
«Ma se davvero dovesse accadermi qualcosa... tu saresti pronto a vendicarmi? Andresti in guerra e lotteresti con i miei stessi ideali di giustizia, di onore per l’America, e di orgoglio personale? Saresti disposto a fare tutto questo... per me?»
William non staccò gli occhi dai suoi, quando rispose senza esitazione:
«Certo. Lo farei, Matt, lo sai. E combatterei con i tuoi stessi ideali, i miei ideali, e vincerò questa fottuta guerra»
Matthew gli sorrise.
«Cos’è, non mi credi?» Will alzò un sopracciglio, senza staccare lo sguardo da quello dell’altro.
L’amico ridacchiò, divertito.
«Uhm... dovrei crederti?» fece, ironico, poi tornò a sorridere leggermente, dichiarando:
«Per me è lo stesso»
Andarono ad abbracciarsi forte, come due vecchi amici d’infanzia.
«Ci rivediamo tra un mese... appena avrai la licenza» lo salutò William, senza ancora staccarsi dall’abbraccio.
«Forse riuscirò ad ottenere qualcosa prima, se non ci sarà molto da fare. In ogni modo, sarai il primo a ricevere la mia visita» lo rassicurò l’amico, dandogli delle pacche sulla schiena.
«Ti scriverò spesso»
«Anch’io»
Sciolsero l’abbraccio per guardarsi negli occhi.
«A presto, Will»
«A presto» 

7 Dicembre 1941 

« Incursione aerea su Pearl Harbor, non si tratta di una esercitazione...» * 

Mancava poco alle otto del mattino.
Gli aerei giapponesi saettarono nel cielo, rapidi e imprevisti, e raggiunsero Pearl Harbor, scaricando una raffica di bombe sulla base.
Allo stesso tempo, schiere di sottomarini lanciarono i loro missili in direzione delle navi da guerra.
La voluta di fumo che si alzò si poteva scorgere anche dalla base militare in cui i due ragazzi si erano salutati appena tre giorni prima.
La corazzata USS Arizona BB-39 venne colpita da due siluri, uno a prua e uno a poppa; affondò in pochi secondi, trascinando con sé la vita di oltre mille uomini dell’equipaggio, tra cui il tenente Matthew Barnes.
«Non la faremo finita con loro, finché il giapponese non sarà parlato solo all’Inferno!» *2
Nemmeno le infervorate parole del furibondo ammiraglio William Halsey riuscirono a far riscuotere Will.
La perdita di Matthew era stata troppo... profonda. Un colpo improvviso al cuore, di quelli che ti fanno credere di morire all’istante per quanto fa male. Un dolore atroce, impossibile da affievolire, da curare. Perché quel dolore gli ricordava lui; gli ricordava quanto era importante, quanto fosse necessario. E il dolore non poteva sparire, perché questo avrebbe significato dimenticarlo. E Will non aveva la minima intenzione di dimenticare Matthew.
Aveva pianto tanto, a lungo; con disperazione, non riuscendo più a mangiare, ad uscire, a dormire. Aveva perso una parte di sé, l’unico vero amico che avesse mai avuto. Solo dolore riempiva il suo cuore, solo il pensiero di Matt occupava la sua mente.
E fu così che, alla fine, Will decise cosa fare.

Tu saresti pronto a vendicarmi? Andresti in guerra e lotteresti con i miei stessi ideali?
«Naturalmente, Matt...» sussurrò nel buio della sua stanza, mentre le ultime lacrime bagnavano le sue guance.
Armato di quella convinzione, di quella fermezza di spirito e di quegli ideali che Matthew teneva nel cuore, aveva preso la sua decisone. L’avrebbe fatto per lui; avrebbe realizzato il sogno di entrambi: glorificare il proprio Paese, sacrificando orde di schifosi giapponesi. 

«È la sua prima missione su un bombardiere?»
William fu riscosso dalla voce del tenente Jacob Baser che gli si era affiancato.
Si voltò a guardarlo, rispondendo:
«Solo voli di ricognizione, finora»
Baser gli diede delle pacche sul braccio, quasi a rassicurarlo, e gli disse:
«Vedrà, sarà una cosa rapida»
«Sono preparato per questo genere di missione» ribatté William con calma.
«È la sua espressione che la tradisce… sembra preoccupato»
Will si incupì.
«No, tenente...» mormorò «Diciamo che sono impaziente»
Baser lo guardò con un’aria pensierosa.
«Da quanto è in guerra?»
«Dal ’41.» rispose Will, tirando un po’ le labbra «E spero con tutto me stesso che questa sia la mia ultima missione»
Baser annuì più volte con il capo, poi sospirò:
«Eh, purtroppo, Harris, non ne sarei così certo. I giapponesi son duri ad arrendersi»
«Lo so bene» commentò Will, secco.
Il tenente si allontanò per guardare fuori.
«Tutto libero davanti a noi» affermò a quel punto il sergente Striborik, addetto al radar. 
«Obbiettivo a meno di un minuto.» annunciò il capitano Kirk, il navigatore del bombardiere.
«Meno di un minuto all’obbiettivo» riferì Tibbets all’auricolare.
«Sganciate la bomba e andatevene» si assicurò la base.
«Nessun problema... non intendo assistere oltre» borbottò Lewis cupamente, esprimendo il pensiero di tutti.
Ore 8 e 15 del 6 agosto 1945.
Il bombardiere B-29 Enola Gay, sorvolando la città giapponese Hiroshima, sganciò la prima bomba atomica della storia utilizzata in guerra e denominata “Little Boy”.
Tutto l’equipaggio si affacciò ai vetri dell’aereo per osservare.
Dapprima, una luce intensa, abbacinante, coprì la vista di Hiroshima, come un manto luminoso steso da una mano divina.
Inizialmente ci fu silenzio; un silenzio cupo, assordante, che faceva male alle orecchie, e quel momento sembrò durare degli istanti infiniti, come se il tempo fosse congelato. Poi fu il rombo; un tuono a ciel sereno sempre più forte, sempre più forte, che risuonò all’interno del bombardiere, facendolo tremare.
In seguito, dalla città si alzò una colonna di fumo nera, più di 10 km di altezza ad un primo calcolo; il colonnello Tibbets dovette virare immediatamente per evitare che l’onda d’urto o la nube potesse fargli perdere il controllo dell’aereo.
Tra l’equipaggio scese il silenzio, mentre Enola Gay sorvolava per un’ultima volta ciò che era rimasto di Hiroshima; nient’altro che uno scenario di morte.
Nessuno aveva il coraggio di parlare, nemmeno di pensare a niente. Erano rimasti tutti immobili ai propri posti, con lo sguardo puntato in basso.
Questo cupo silenzio fu spezzato da Tibbets che, ad un tratto, quando il fumo iniziava a diradarsi un poco, non riuscì a trattenersi nel mormorare:
«Mio Dio... che cosa abbiamo fatto?» *3
Che cosa abbiamo fatto?
Queste parole riecheggiarono nella mente di William, come un’eco sempre più assordante.
Appena la bomba era esplosa, Will si era raggelato; non era riuscito a distogliere lo sguardo nemmeno per un istante. Ora, teso nella sua posa, aveva la mente del tutto svuotata e percepiva il cuore stretto in una morsa ferrea che gli impediva di battere meno velocemente; lo sentiva, il suo battito, scandiva i secondi, sempre più rapido, sempre più forte.
Pietrificato così, in questo modo, pallido e lievemente tremante, sembrava pietra.
Che cosa abbiamo fatto?
«Mio Dio...» sussurrò Will, gli occhi sgranati, il corpo rigido.
L’aereo aveva intanto virato e si stava allontanando da Hiroshima.
William si lasciò cadere indietro contro lo schienale del suo posto, senza staccare lo sguardo dal finestrino.
Che cosa abbiamo fatto?
Chiuse gli occhi con forza, serrando le mani sui braccioli del sedile.
C’era ancora silenzio, finché la radio non gracchiò:
«Colonnello Tibbets, faccia rapporto!»
Tibbets tirò le labbra, scuro in volto, e rispose:
«Little Boy sganciato. Missione compiuta.»
Un attimo di pausa, poi ancora:
«Conseguenze della bomba?»
Tibbets trattenne a stento un sospiro.
«Hiroshima rasa al suolo.»
William sussultò al pensiero.
Tutti quei morti... una sola bomba... una sola bomba. Ma com’era possibile?
... Saresti pronto a vendicarmi? Andresti in guerra e lotteresti con i miei stessi ideali di giustizia, di onore per l’America, e di orgoglio personale?   
Ma quali ideali e ideali, Matt? Mai come in quel momento quelle parole gli sembrarono più vuote e false.  Mai come in quel momento era riuscito a rendersi conto di quanto fosse stato cieco, stupido e stolto.
Onore per l’America? Che grande onore, una città rasa al suolo!  
Orgoglio personale? Adesso gli veniva solo da vomitare.
Giustizia? Ma che giustizia era, quella? Che cosa c’entravano donne, bambini, vecchi, contadini, manovali...? Che senso aveva tutto quello?
Che cosa abbiamo fatto?
Will non riusciva a capacitarsi di essere stato complice di una simile strage. Una follia pura, un gesto orribile di cui non riusciva a trovarne la ragione.
Nella mente passarono veloci, vorticose, immagini di guerra, di sangue, immagini di morte, dei voli di perlustrazione che solo in seguito aveva capito a cosa servissero: per scegliere un obbiettivo.
Hiroshima era stata incerta fino all’ultimo, ma era l’unica città con una buona visibilità e si era optato per questa meta. Con una forte nausea si rese conto che quella strage era stata quindi dettata dal caso. Per una sfortunata coincidenza, era stata rasa al suolo quella città, invece che un’altra. Ma chi erano loro per fare la differenza tra la vita e la morte in questo modo? Non erano nessuno. Nessuno.
Non avevano colpito una base militare; non erano stati dei soldati a morire, a meno che non ce ne fosse stato qualcuno in licenza. No, erano stati dei civili, che non avevano nulla a che vedere con l’attacco a Pearl Harbor. E solo di quello importava a Will. Anzi, in quel momento, nemmeno di Pearl Harbor gli importava più niente.
Si prese la testa tra le mani, affondando le dita tra i capelli con disperazione.
Che cosa aveva fatto? Come aveva potuto fare una cosa simile? Come avrebbe potuto continuare a vivere con quella strage sulla coscienza?
In quel momento realizzò che non poteva.
Le immagini ancora vorticavano nella sua testa: corpi di soldati che crollavano sotto i suoi colpi di fucile, altri che saltavano in aria a causa di mine magari piazzate proprio da lui stesso. Poi ricordò anche di quel soldato, giapponese, sdraiato a terra di fronte a lui che lo guardava con un’aria spaventata; era disarmato. Will troneggiava su di lui e gli puntava il fucile alla testa. Era solo un ragazzo, ma lui aveva l’ordine di non fare superstiti, per quel motivo quel giorno sparò.
Morte, morte, morte... Quante volte aveva ucciso? Era possibile fare un conto? No, non lo era. Comunque troppi, troppi, troppi uomini morti a causa sua. E ora anche donne, bambini, vecchi.
Non poteva convivere con quel pensiero. Come avrebbe potuto, un uomo con un’anima, farlo? No, era impossibile. Come poteva immaginarsi quanti bambini aveva reso orfani, a quante mogli, o mariti, aveva strappato il compagno di una vita, senza sentirsi morire dentro a sua volta? Ecco, già si sentiva morire dentro un po’. Un po’ per volta, tutti i giorni, finché non sarebbe invecchiato. Avrebbe potuto vivere così? E come avrebbe potuto farlo? Come, ora che non aveva più una famiglia, che non aveva più Matt al suo fianco... ora che non aveva più un Dio? Perché un Dio non avrebbe mai permesso quello. Non avrebbe mai permesso tutta quella morte.
Trasse un sospiro sofferto e abbassò le braccia, aprendo gli occhi.
I suoi compagni di equipaggio in gran parte erano silenziosi, a parte il colonnello Tibbets che stava discutendo con Lewis e Kirk, chiedendosi se avrebbero incontrato o meno aerei giapponesi sulla via del ritorno alla base. Forse, o forse no. Magari i giapponesi erano ancora troppo scossi, o confusi... forse non sapevano nemmeno bene come spiegare un fatto del genere; una bomba che rade al suolo un’intera città sembrava davvero una cosa assurda, a meno che non la si era vista con i propri occhi.
William si alzò lentamente dal suo sedile, non notato dagli altri, chi intento a tenere d’occhio il radar, chi a guardare fuori dal finestrino o tenere gli occhi chiusi per ripensare a quel che avevano appena fatto.
Poco stabile sulle gambe, a causa di qualche turbolenza che faceva scuotere l’aereo, William raggiunse infine il portellone dell’Enola Gay, posando entrambe le mani tremanti sulla maniglia dell’apertura. Chiudendo un attimo gli occhi e sospirando ancora, tirò a sé con forza la maniglia, poi spalancò la portiera con un calcio.
Il vento entrò con irruenza all’interno; Will si dovette aggrappare con forza ai lati dell’apertura per non sbilanciarsi all’indietro.
Gli altri si voltarono immediatamente verso il fondo dell’aereo, dove si trovava William.
«Sottotenente Harris, che sta facendo?!» inveì il capitano Lewis, sbiancando.
«Harris, è impazzito? Si allontani immediatamente!» ordinò Jacob Baser, balzando in piedi.
«Forza, Harris, chiuderemo noi il portellone» cercò di convincerlo il capitano Parsons, muovendosi verso di lui.
William estrasse allora la pistola e la puntò contro il capitano, che era ad un paio di metri da lui, dicendogli con un’aria spenta e una voce incolore:
«Capitano, la prego, non si avvicini»
«Harris... William» Tibbets prese in mano la situazione, lasciando i comandi a Lewis e alzandosi in piedi per guardarlo negli occhi con calma; era responsabile dell’equipaggio, doveva risolvere lui.
«William» ripeté il colonnello, togliendosi le cuffie e affiancandosi a Parsons lentamente «Perché non abbassa l’arma, si allontana da lì e ne parliamo tranquillamente?»
Will scosse il capo e sospirò.
«Colonnello, gli altri le saranno testimoni...» iniziò a dire con calma «L’ho minacciata di non avvicinarsi e lei non ha potuto fare niente per fermarmi»
«William, che cosa ha intenzione di fare?» Tibbets non voleva arrendersi «È una follia! Non riesce a capirlo?»
«Follia? Credo non si renda bene conto della situazione, colonnello. Sganciare quella bomba per radere al suolo Hiroshima: quella è stata una follia» mormorò l’altro, cupo in volto.
«Su questo convengo con te...» Tibbets storse le labbra «Non vado certo fiero di quel che abbiamo appena fatto»
«Allora converrà con me che non c’è altro rimedio che questo» indicò con il capo fuori dall’aereo «Mi capirà se le dico che non riesco, e non riuscirò mai, a convivere con i sensi di colpa»
«Lei è un bravo ragazzo, William. E giovane. Si rifaccia una vita, non ha senso compiere un simile gesto»
«Non potrei mai rifarmi una vita... penserei continuamente a tutti quei civili che abbiamo appena ucciso. Innocenti, bambini...» contrasse il volto in una smorfia di profonda afflizione «Questa non è guerra, colonnello. È puro omicidio. Mio Dio, che cosa abbiamo fatto...»
«William...» provò ancora il colonnello, ma il giovane lo interruppe, spostando lo sguardo nel vuoto e mormorando lentamente, quasi parlasse a se stesso:
«Quando ero piccolo, mia madre mi diceva sempre... “Will, la vita è come una torta al cioccolato con farcitura di marmellata di albicocche. Ti sembra bella e buonissima, finché non arrivi a mangiare la marmellata.”... Lei odiava la marmellata di albicocche» sospirò brevemente, prima di continuare:
«Ecco, io sono arrivato alla marmellata. E ormai vivere mi sembra solamente orribile e disgustoso. Mi sento un assassino, mi sento un mostro. Improvvisamente, con un lampo e un boato di una bomba atomica, sono state dissolte tutte le mie certezze. Mi capite, colonnello? Vivere senza certezze non ha senso. Mi sento vuoto, mi sento spento, finito. E quando una persona è spenta, quando si sente vuota, allora vuol dire che è arrivata all’ultimo atto. Perciò, razionalmente, non trovo vi sia altra soluzione che porre fine alla mia vita, sperando di raggiungere un posto dove la torta sarà priva di farcitura...» chiuse gli occhi, storcendo le labbra, sofferente «Ma credo che il Paradiso, per gente come noi, non sia contemplato» trasse un breve sospiro «Poco male, i dolci non mi sono mai piaciuti particolarmente»
Lanciò un ultimo sguardo ai suoi compagni, come fosse un addio, e si lasciò cadere nel vuoto. 

Di tutta la famiglia di William era rimasta in vita solamente una cugina di dieci anni più grande, che se lo ricordava appena quando ancora era un bambino in fasce. Decise comunque di andarlo a trovare, un giorno, al cimitero della piccola cittadella dove il ragazzo era nato.
Con sua sorpresa, accanto la tomba trovò un uomo in divisa.
Questi, accortosi della sua presenza, si voltò verso di lei e gli tese gentilmente una mano, presentandosi:
«Colonnello Paul Tibbets, molto piacere»
«Salve, Cynthia Taylor. Conosceva mio cugino, colonnello?»
«Sì... ero con lui quando... quando si è gettato dall’aereo» Tibbets lanciò uno sguardo alla lapide, pensieroso, e si passò una mano tra i lucidi capelli corvini, portando l’altra in tasca.
Anche Cynthia guardò la lapide, scostandosi un ricciolo biondo da davanti gli occhi e intrecciando poi le mani paffute. Abbastanza sobria, di un bel marmo, con in alto, a destra, la foto di un giovane avvenente; nonostante fosse in bianco e nero, si intuiva che i capelli erano chiari e gli occhi azzurri, o comunque di un verde molto chiaro.

 William Eddy Harris
8
Luglio
1915 - 6 Agosto 1945

«Sa, in questi casi credo che bisognerebbe dire qualcosa come... “Che gran bel tipo, William!” o “Non ho mai conosciuto uno come lui!”» commentò a quel punto Tibbets, poi sospirò «Invece a me non viene nulla in mente in questo momento. Tranne una cosa...»
Cynthia gli rivolse l’attenzione.
Tibbets rimase silenzioso qualche istante, poi mormorò, con lo sguardo fisso sulla foto della tomba:
«William aveva ragione su tutto. E lo ammiro, perché è stato l’unico di noi a compiere quel che non avremmo mai il coraggio di fare... ammettere il nostro errore e pagarne le conseguenze»
Cynthia annuì appena con il capo, meditabonda.
Tibbets, infine, sospirò amaramente.
«Odio anch’io la marmellata di albicocche, William... ma imparerò ad inghiottire, anche se con un grande sforzo, come si aspettano da uno come me» 

... dove (sono) i figli della guerra
partiti per un ideale
per una truffa, per un amore finito male

hanno rimandato a casa
le loro spoglie nelle barriere
legate strette perché sembrassero intere.

Dormono, dormono sulla collina
dormono, dormono sulla collina.

 
Fine

 

* È la vera frase trasmessa dalla radio della base di Pearl Harbor quella mattina del ’41

*2 Affermazione reale dell’ammiraglio William Halsey

*3 Vere parole che pronuncia il colonnello Paul Tibbets appena sganciato “Little Boy”

Me91: Ho scelto di narrare questo particolare fatto storico - anche se non molto “originale” - perché effettivamente sapevo che un soldato, sganciata “Little Boy”, era impazzito per i sensi di colpa e si era quindi ucciso. Ho cercato di analizzare il personaggio, immedesimandomi in lui, e alla fine sono giunta alla conclusione che non si può vivere con sensi di colpa così grandi. Per questo l’ho trovato un “buon” motivo per uccidersi. Spero di essere stata chiara ed esauriente nel racconto!

Alla prossima! ;)

 

  
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: Me91