Segno qui il link per il concorso: http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=9321037
Note:
I fatti di
cui parlo sono veramente accaduti, tranne per quel che riguarda il
protagonista
William Harris e il suo amico Matthew Barnes, che sono frutto della mia
fantasia. Tutti gli altri nomi, le cariche dei soldati, il nome della
nave e
dell’aereo sono reali, ho preso le informazioni da Wikipedia
e altri siti. Così
come ci sono alcune citazioni veritiere, che segnerò con un
asterisco e
specificherò in fondo alla storia insieme ad altre note.
Detto questo, spero che nel complesso la fic vi piaccia e...
Buona lettura!
Will aveva lo sguardo puntato fuori; scrutava il cielo
nuvoloso con una faccia di pietra.
«Visibilità buona; assenza di nubi sopra il
bersaglio» annunciò
all’auricolare il colonnello Paul Tibbets, ai comandi
dell’aereo.
«Quanto dista il
vostro obbiettivo?» la voce uscì
crocchiando dalle cuffie, così forte che
sentirono anche gli altri soldati.
«Dieci minuti» rispose Tibbets, lanciando uno
sguardo verso
il copilota, il capitano Robert Lewis, in cerca di conferma.
«Anche meno» precisò Lewis, senza
staccare gli occhi dalla
città che si stagliava poco avanti.
«Bene» rispose
la
base e per il momento chiuse la comunicazione.
Tibbets sospirò, scuotendo il capo.
«Intenderà tenermi il muso tutto il resto del
giorno,
capitano?»
Lewis aggrottò le sopracciglia, evitando di guardarlo, e
sbottò:
«Anche per il resto della vita, se ci tiene,
colonnello»
«Suvvia. Ho dato proprio un bel nome a questo aereo»
«È il nome di sua madre» Lewis storse le
labbra.
Tibbets gli lanciò un’occhiata di sottecchi,
commentando:
«È che ancora non manda giù il fatto
che l’abbia scavalcata
al comando...»
«La buffonata del nome poteva anche evitarsela»
«Come ha detto, è il nome di mia madre. Veda di
non
offenderla»
«Non sia mai»
Le voci giungevano lievi alle orecchie di William Harris,
che ancora osservava le nuvole e il cielo chiaro di quella mattina con
mille
pensieri in testa.
Meno di dieci minuti all’obbiettivo...
Sarebbe stata una missione decisiva, ne era certo. Anzi, la
missione decisiva.
Si fece scuro in volto, freddo e deciso.
Una missione giusta, meritata; una degna fine per chi gli
aveva procurato così tanto rancore... così tanto
dolore.
Chiuse gli occhi, sofferente, travolto da quegli infelici
ricordi di quello sbiadito dicembre del ‘41.
«Portaci
altra birra, Quinn! Dobbiamo festeggiare!» fece a
gran voce Matthew Barnes con la sua solita allegria.
«Non vorrai arrivare ubriaco al tuo primo giorno,
spero»
William gli lanciò uno sguardo divertito.
«Ma che, scherzi? Tra un po’ vado a
dormire» Matthew diede
un’occhiata al suo orologio da polso, fischiando con sorpresa
«Accidenti, sono
già le tre e l’alzata è alle sei e
mezzo. Dobbiamo essere a bordo dell’Arizona
per il pomeriggio...»
«Già immagino che arriverai in ritardo»
William si portò una
mano sul viso, scuotendo il capo.
Matthew gli diede un pugno al braccio, esclamando:
«Smettila! Il solito uccello del malaugurio»
Insieme risero, poi Matthew gli lanciò un piccolo sorrisino
di soddisfazione, dicendo:
«Ammetti piuttosto che ti rode la mia promozione...»
«Niente affatto» l’immediata risposta
fece allargare il
sorriso di Matthew.
«Beccato!» rise Matt, afferrando la birra che gli
porgeva la
cameriera e sbattendola sul tavolo.
William storse le labbra.
«Ma piantala!» sbottò, in effetti
invidioso.
Matthew alzò la sua birra, esclamando:
«Onore all’America...»
«... Fino alla morte!» concluse con lui Will,
alzando a sua
volta il boccale.
Bevvero tutto di un fiato, poi Matthew, pulendosi con una
manica la bocca, lo rassicurò:
«Coraggio, Will, non prendertela. Tu sei fatto per
l’esercito! Non ho mai conosciuto uno più in gamba
di te»
«Eppure la promozione a tenente l’hai avuta tu, non
io» fece
notare l’altro.
Il moro gli rivolse un sorriso furbo dei suoi; i denti
bianchissimi brillarono nel buio, risaltando sulla carnagione di un
dolce color
cioccolato.
«Ho detto che sei in gamba, non che sei migliore di
me»
William sbuffò, trattenendo a stento le risate e spingendolo
via con una mano.
Quando uscirono l’aria era particolarmente fresca. Nonostante
fosse notte, il porto pullulava ancora di vita; soldati e pescatori per
le
strade e qualche luce in alcune dimore.
«Pensi allora che si entrerà in
guerra...» chiese William,
mentre camminava sul molo con l’altro.
«Se stanno armando le corazzate e ci chiamano a bordo,
suppongo di sì. Per ora sono solamente esercitazioni,
però. L’America potrebbe
entrare in guerra domani, così come tra qualche mese,
chissà» commentò Matthew
tranquillamente, mettendosi le mani in tasca e calciando un sasso, che
cadde in
acqua con un tonfo.
William alzò pensieroso lo sguardo al cielo, dicendo:
«Pensaci, Matt... la guerra. Riesci ad immaginarla? Sembra
così lontana...»
L’altro alzò le spalle senza rispondere.
Will tirò un po’ le labbra.
«Dimmi, ma... non hai per niente paura?»
Matthew rimase a fissare l’acqua scura del mare che si
estendeva davanti a loro. Sembrava pensieroso.
Rispose dopo qualche istante a mezza voce:
«Paura? Perché dovrei averne?»
«Perché finora abbiamo scherzato. È il
momento di fare i
seri»
«Sempre ottimista tu...» sospirò
Matthew, alzando gli occhi
al cielo buio.
«Matt» William si voltò a guardarlo
«Hai ventisei anni e una
madre anziana. Come la prenderebbe se...?»
«Dai, Will, piantala» lo interruppe, rivolgendogli
lo
sguardo con quell’aria tranquilla di sempre, ma William
notò un certo
turbamento dentro i suoi occhi chiari, di un verde limpido.
«Ti preoccupi per me, Will?» fece Matthew, alzando
un
sopracciglio.
«Non dovrei?» ribatté l’altro,
scuro in volto.
Matthew gli sorrise.
«Allora facciamo così... cercherò di
tenermi fuori dai guai,
d’accordo?»
«Io parlavo seriamente» la voce di William era cupa.
Matthew cacciò il sorriso e tornò serio. Attese
qualche
secondo, prima di chiedere:
«Ma se davvero dovesse accadermi qualcosa... tu saresti
pronto a vendicarmi? Andresti in guerra e lotteresti con i miei stessi
ideali
di giustizia, di onore per l’America, e di orgoglio
personale? Saresti disposto
a fare tutto questo... per me?»
William non staccò gli occhi dai suoi, quando rispose senza
esitazione:
«Certo. Lo farei, Matt, lo sai. E combatterei con i tuoi
stessi ideali, i miei ideali, e vincerò questa fottuta
guerra»
Matthew gli sorrise.
«Cos’è, non mi credi?» Will
alzò un sopracciglio, senza
staccare lo sguardo da quello dell’altro.
L’amico ridacchiò, divertito.
«Uhm... dovrei crederti?» fece, ironico, poi
tornò a
sorridere leggermente, dichiarando:
«Per me è lo stesso»
Andarono ad abbracciarsi forte, come due vecchi amici
d’infanzia.
«Ci rivediamo tra un mese... appena avrai la
licenza» lo
salutò William, senza ancora staccarsi
dall’abbraccio.
«Forse riuscirò ad ottenere qualcosa prima, se non
ci sarà
molto da fare. In ogni modo, sarai il primo a ricevere la mia
visita» lo
rassicurò l’amico, dandogli delle pacche sulla
schiena.
«Ti scriverò spesso»
«Anch’io»
Sciolsero l’abbraccio per guardarsi negli occhi.
«A presto, Will»
«A presto»
7
Dicembre 1941
« Incursione
aerea su Pearl Harbor, non
si tratta di una esercitazione...» *
Mancava poco alle
otto del mattino.
Gli aerei giapponesi
saettarono nel cielo, rapidi e imprevisti, e raggiunsero Pearl Harbor,
scaricando una raffica di bombe sulla base.
Allo stesso tempo, schiere
di sottomarini lanciarono i loro missili in direzione delle navi da
guerra.
La voluta di fumo
che si alzò si poteva scorgere anche dalla base militare in
cui i due ragazzi
si erano salutati appena tre giorni prima.
La corazzata USS Arizona BB-39
venne colpita da due
siluri, uno a prua e uno a poppa; affondò in pochi secondi,
trascinando con sé
la vita di oltre mille uomini dell’equipaggio, tra cui il
tenente Matthew
Barnes.
«Non la faremo
finita con loro, finché il giapponese non sarà
parlato solo all’Inferno!» *2
Nemmeno le
infervorate parole del furibondo ammiraglio William Halsey riuscirono a
far
riscuotere Will.
La perdita di
Matthew era stata troppo... profonda. Un colpo improvviso al cuore, di
quelli
che ti fanno credere di morire all’istante per quanto fa
male. Un dolore
atroce, impossibile da affievolire, da curare. Perché quel
dolore gli ricordava
lui; gli ricordava quanto era importante, quanto fosse necessario.
E il dolore non poteva sparire, perché questo avrebbe
significato dimenticarlo. E Will non aveva la minima intenzione di
dimenticare
Matthew.
Aveva pianto tanto,
a lungo; con disperazione, non riuscendo più a mangiare, ad
uscire, a dormire. Aveva
perso una parte di sé, l’unico vero amico che
avesse mai avuto. Solo dolore
riempiva il suo cuore, solo il pensiero di Matt occupava la sua mente.
E fu così che, alla
fine, Will decise cosa fare.
Tu saresti pronto a
vendicarmi? Andresti in guerra e
lotteresti con i miei stessi ideali?
«Naturalmente, Matt...» sussurrò nel
buio della sua stanza,
mentre le ultime lacrime bagnavano le sue guance.
Armato di quella convinzione, di quella fermezza di spirito
e di quegli ideali che Matthew teneva nel cuore, aveva preso la sua
decisone.
L’avrebbe fatto per lui; avrebbe realizzato il sogno di
entrambi: glorificare
il proprio Paese, sacrificando orde di schifosi giapponesi.
«È
la sua prima missione su un bombardiere?»
William fu riscosso dalla voce del tenente Jacob Baser che
gli si era affiancato.
Si voltò a guardarlo, rispondendo:
«Solo voli di ricognizione, finora»
Baser gli diede delle pacche sul braccio, quasi a rassicurarlo,
e gli disse:
«Vedrà, sarà una cosa rapida»
«Sono preparato per questo genere di missione»
ribatté
William con calma.
«È la sua espressione che la tradisce…
sembra preoccupato»
Will si incupì.
«No, tenente...» mormorò
«Diciamo che sono impaziente»
Baser lo guardò con un’aria pensierosa.
«Da quanto è in guerra?»
«Dal ’41.» rispose Will, tirando un
po’ le labbra «E spero
con tutto me stesso che questa sia la mia ultima missione»
Baser annuì più volte con il capo, poi
sospirò:
«Eh, purtroppo, Harris, non ne sarei così certo. I
giapponesi son duri ad arrendersi»
«Lo so bene» commentò Will, secco.
Il tenente si allontanò per guardare fuori.
«Tutto libero davanti a noi» affermò a
quel punto il
sergente Striborik, addetto al radar.
«Obbiettivo a meno di un minuto.»
annunciò il capitano Kirk,
il navigatore del bombardiere.
«Meno di un minuto all’obbiettivo»
riferì Tibbets
all’auricolare.
«Sganciate la bomba e
andatevene» si assicurò la base.
«Nessun problema... non intendo assistere oltre»
borbottò
Lewis cupamente, esprimendo il pensiero di tutti.
Ore 8 e 15 del 6 agosto 1945.
Il bombardiere B-29 Enola
Gay, sorvolando la città giapponese Hiroshima,
sganciò la prima bomba
atomica della storia utilizzata in guerra e denominata
“Little Boy”.
Tutto l’equipaggio si affacciò ai vetri
dell’aereo per osservare.
Dapprima, una luce intensa, abbacinante, coprì la vista di
Hiroshima, come un manto luminoso steso da una mano divina.
Inizialmente ci fu silenzio; un silenzio cupo, assordante,
che faceva male alle orecchie, e quel momento sembrò durare
degli istanti
infiniti, come se il tempo fosse congelato. Poi fu il rombo; un tuono a
ciel
sereno sempre più forte, sempre più forte, che
risuonò all’interno del
bombardiere, facendolo tremare.
In seguito, dalla città si alzò una colonna di
fumo nera,
più di 10 km di altezza ad un primo calcolo; il colonnello
Tibbets dovette
virare immediatamente per evitare che l’onda d’urto
o la nube potesse fargli
perdere il controllo dell’aereo.
Tra l’equipaggio scese il silenzio, mentre Enola Gay
sorvolava per un’ultima volta ciò che era rimasto
di Hiroshima; nient’altro che
uno scenario di morte.
Nessuno aveva il coraggio di parlare, nemmeno di pensare a
niente. Erano rimasti tutti immobili ai propri posti, con lo sguardo
puntato in
basso.
Questo cupo silenzio fu spezzato da Tibbets che, ad un
tratto, quando il fumo iniziava a diradarsi un poco, non
riuscì a trattenersi
nel mormorare:
«Mio Dio... che cosa abbiamo fatto?» *3
Che cosa abbiamo
fatto?
Queste parole riecheggiarono nella mente di William, come
un’eco sempre più assordante.
Appena la bomba era esplosa, Will si era raggelato; non era
riuscito a distogliere lo sguardo nemmeno per un istante. Ora, teso
nella sua
posa, aveva la mente del tutto svuotata e percepiva il cuore stretto in
una
morsa ferrea che gli impediva di battere meno velocemente; lo sentiva,
il suo
battito, scandiva i secondi, sempre più rapido, sempre
più forte.
Pietrificato così, in questo modo, pallido e lievemente
tremante, sembrava pietra.
Che cosa abbiamo
fatto?
«Mio Dio...» sussurrò Will, gli occhi
sgranati, il corpo
rigido.
L’aereo aveva intanto virato e si stava allontanando da
Hiroshima.
William si lasciò cadere indietro contro lo schienale del
suo posto, senza staccare lo sguardo dal finestrino.
Che cosa abbiamo
fatto?
Chiuse gli occhi con forza, serrando le mani sui braccioli
del sedile.
C’era ancora silenzio, finché la radio non
gracchiò:
«Colonnello Tibbets,
faccia rapporto!»
Tibbets tirò le labbra, scuro in volto, e rispose:
«Little Boy sganciato. Missione compiuta.»
Un attimo di pausa, poi ancora:
«Conseguenze della
bomba?»
Tibbets trattenne a stento un sospiro.
«Hiroshima rasa al suolo.»
William sussultò al pensiero.
Tutti quei morti... una sola bomba... una sola bomba. Ma
com’era possibile?
... Saresti pronto a
vendicarmi? Andresti in guerra e lotteresti con i miei stessi ideali di
giustizia, di onore per l’America, e di orgoglio personale?
Ma quali ideali e ideali, Matt? Mai come in quel momento
quelle parole gli sembrarono più vuote e false. Mai come in quel momento era
riuscito a
rendersi conto di quanto fosse stato cieco, stupido e stolto.
Onore per l’America? Che grande onore, una città
rasa al
suolo!
Orgoglio personale? Adesso gli veniva solo da vomitare.
Giustizia? Ma che giustizia era, quella? Che cosa
c’entravano donne, bambini, vecchi, contadini, manovali...?
Che senso aveva
tutto quello?
Che cosa abbiamo
fatto?
Will non riusciva a capacitarsi di essere stato complice di
una simile strage. Una follia pura, un gesto orribile di cui non
riusciva a
trovarne la ragione.
Nella mente passarono veloci, vorticose, immagini di guerra,
di sangue, immagini di morte, dei voli di perlustrazione che solo in
seguito
aveva capito a cosa servissero: per scegliere un obbiettivo.
Hiroshima era stata incerta fino all’ultimo, ma era
l’unica
città con una buona visibilità e si era optato
per questa meta. Con una forte
nausea si rese conto che quella strage era stata quindi dettata dal
caso. Per
una sfortunata coincidenza, era stata rasa al suolo quella
città, invece che
un’altra. Ma chi erano loro per fare la differenza tra la
vita e la morte in
questo modo? Non erano nessuno. Nessuno.
Non avevano colpito una base militare; non erano stati dei
soldati a morire, a meno che non ce ne fosse stato qualcuno in licenza.
No,
erano stati dei civili, che non avevano nulla a che vedere con
l’attacco a
Pearl Harbor. E solo di quello importava a Will. Anzi, in quel momento,
nemmeno
di Pearl Harbor gli importava più niente.
Si prese la testa tra le mani, affondando le dita tra i
capelli con disperazione.
Che cosa aveva fatto? Come aveva potuto fare una cosa
simile? Come avrebbe potuto continuare a vivere con quella strage sulla
coscienza?
In quel momento realizzò che non poteva.
Le immagini ancora vorticavano nella sua testa: corpi di
soldati che crollavano sotto i suoi colpi di fucile, altri che
saltavano in
aria a causa di mine magari piazzate proprio da lui stesso. Poi
ricordò anche
di quel soldato, giapponese, sdraiato a terra di fronte a lui che lo
guardava
con un’aria spaventata; era disarmato. Will troneggiava su di
lui e gli puntava
il fucile alla testa. Era solo un ragazzo, ma lui aveva
l’ordine di non fare
superstiti, per quel motivo quel giorno sparò.
Morte, morte, morte... Quante volte aveva ucciso? Era
possibile fare un conto? No, non lo era. Comunque troppi, troppi,
troppi uomini
morti a causa sua. E ora anche donne, bambini, vecchi.
Non poteva convivere con quel pensiero. Come avrebbe potuto,
un uomo con un’anima, farlo? No, era impossibile. Come poteva
immaginarsi
quanti bambini aveva reso orfani, a quante mogli, o mariti, aveva
strappato il
compagno di una vita, senza sentirsi morire dentro a sua volta? Ecco,
già si
sentiva morire dentro un po’. Un po’ per volta,
tutti i giorni, finché non
sarebbe invecchiato. Avrebbe potuto vivere così? E come
avrebbe potuto farlo?
Come, ora che non aveva più una famiglia, che non aveva
più Matt al suo fianco...
ora che non aveva più un Dio? Perché un Dio non
avrebbe mai permesso quello.
Non avrebbe mai permesso tutta quella morte.
Trasse un sospiro sofferto e abbassò le braccia, aprendo gli
occhi.
I suoi compagni di equipaggio in gran parte erano
silenziosi, a parte il colonnello Tibbets che stava discutendo con
Lewis e Kirk,
chiedendosi se avrebbero incontrato o meno aerei giapponesi sulla via
del
ritorno alla base. Forse, o forse no. Magari i giapponesi erano ancora
troppo
scossi, o confusi... forse non sapevano nemmeno bene come spiegare un
fatto del
genere; una bomba che rade al suolo un’intera
città sembrava davvero una cosa
assurda, a meno che non la si era vista con i propri occhi.
William si alzò lentamente dal suo sedile, non notato dagli
altri, chi intento a tenere d’occhio il radar, chi a guardare
fuori dal
finestrino o tenere gli occhi chiusi per ripensare a quel che avevano
appena
fatto.
Poco stabile sulle gambe, a causa di qualche turbolenza che
faceva scuotere l’aereo, William raggiunse infine il
portellone dell’Enola Gay,
posando entrambe le mani tremanti sulla maniglia
dell’apertura. Chiudendo un
attimo gli occhi e sospirando ancora, tirò a sé
con forza la maniglia, poi
spalancò la portiera con un calcio.
Il vento entrò con irruenza all’interno; Will si
dovette
aggrappare con forza ai lati dell’apertura per non
sbilanciarsi all’indietro.
Gli altri si voltarono immediatamente verso il fondo
dell’aereo, dove si trovava William.
«Sottotenente Harris, che sta facendo?!»
inveì il capitano
Lewis, sbiancando.
«Harris, è impazzito? Si allontani
immediatamente!» ordinò
Jacob Baser, balzando in piedi.
«Forza, Harris, chiuderemo noi il portellone»
cercò di convincerlo
il capitano Parsons, muovendosi verso di lui.
William estrasse allora la pistola e la puntò contro il
capitano, che era ad un paio di metri da lui, dicendogli con
un’aria spenta e
una voce incolore:
«Capitano, la prego, non si avvicini»
«Harris... William» Tibbets prese in mano la
situazione,
lasciando i comandi a Lewis e alzandosi in piedi per guardarlo negli
occhi con
calma; era responsabile dell’equipaggio, doveva risolvere lui.
«William» ripeté il colonnello,
togliendosi le cuffie e
affiancandosi a Parsons lentamente «Perché non
abbassa l’arma, si allontana da
lì e ne parliamo tranquillamente?»
Will scosse il capo e sospirò.
«Colonnello, gli altri le saranno testimoni...»
iniziò a
dire con calma «L’ho minacciata di non avvicinarsi
e lei non ha potuto fare
niente per fermarmi»
«William, che cosa ha intenzione di fare?» Tibbets
non
voleva arrendersi «È una follia! Non riesce a
capirlo?»
«Follia? Credo non si renda bene conto della situazione,
colonnello. Sganciare quella bomba per radere al suolo Hiroshima:
quella è
stata una follia» mormorò l’altro, cupo
in volto.
«Su questo convengo con te...» Tibbets storse le
labbra «Non
vado certo fiero di quel che abbiamo appena fatto»
«Allora converrà con me che non
c’è altro rimedio che questo»
indicò con il capo fuori dall’aereo «Mi
capirà se le dico che non riesco, e non
riuscirò mai, a convivere con i sensi di colpa»
«Lei è un bravo ragazzo, William. E giovane. Si
rifaccia una
vita, non ha senso compiere un simile gesto»
«Non potrei mai rifarmi una vita... penserei continuamente a
tutti quei civili che abbiamo appena ucciso. Innocenti,
bambini...» contrasse
il volto in una smorfia di profonda afflizione «Questa non
è guerra,
colonnello. È puro omicidio. Mio Dio, che cosa abbiamo
fatto...»
«William...» provò ancora il colonnello,
ma il giovane lo
interruppe, spostando lo sguardo nel vuoto e mormorando lentamente,
quasi
parlasse a se stesso:
«Quando ero piccolo, mia madre mi diceva sempre...
“Will, la
vita è come una torta al cioccolato con farcitura di
marmellata di albicocche.
Ti sembra bella e buonissima, finché non arrivi a mangiare
la marmellata.”...
Lei odiava la marmellata di albicocche» sospirò
brevemente, prima di
continuare:
«Ecco, io sono arrivato alla marmellata. E ormai vivere mi
sembra solamente orribile e disgustoso. Mi sento un assassino, mi sento
un
mostro. Improvvisamente, con un lampo e un boato di una bomba atomica,
sono
state dissolte tutte le mie certezze. Mi capite, colonnello? Vivere
senza
certezze non ha senso. Mi sento vuoto, mi sento spento, finito. E
quando una
persona è spenta, quando si sente vuota, allora vuol dire
che è arrivata
all’ultimo atto. Perciò, razionalmente, non trovo
vi sia altra soluzione che
porre fine alla mia vita, sperando di raggiungere un posto dove la
torta sarà
priva di farcitura...» chiuse gli occhi, storcendo le labbra,
sofferente «Ma
credo che il Paradiso, per gente come noi, non sia
contemplato» trasse un breve
sospiro «Poco male, i dolci non mi sono mai piaciuti
particolarmente»
Lanciò un ultimo sguardo ai suoi compagni, come fosse un
addio, e si lasciò cadere nel vuoto.
Di
tutta la famiglia di William era rimasta in vita
solamente una cugina di dieci anni più grande, che se lo
ricordava appena
quando ancora era un bambino in fasce. Decise comunque di andarlo a
trovare, un
giorno, al cimitero della piccola cittadella dove il ragazzo era nato.
Con sua sorpresa, accanto la tomba trovò un uomo in divisa.
Questi, accortosi della sua presenza, si voltò verso di lei
e gli tese gentilmente una mano, presentandosi:
«Colonnello Paul Tibbets, molto piacere»
«Salve, Cynthia Taylor. Conosceva mio cugino,
colonnello?»
«Sì... ero con lui quando... quando si
è gettato dall’aereo»
Tibbets lanciò uno sguardo alla lapide, pensieroso, e si
passò una mano tra i
lucidi capelli corvini, portando l’altra in tasca.
Anche Cynthia guardò la lapide, scostandosi un ricciolo
biondo da davanti gli occhi e intrecciando poi le mani paffute.
Abbastanza
sobria, di un bel marmo, con in alto, a destra, la foto di un giovane
avvenente;
nonostante fosse in bianco e nero, si intuiva che i capelli erano
chiari e gli
occhi azzurri, o comunque di un verde molto chiaro.
8 Luglio 1915 - 6 Agosto
1945
Cynthia gli rivolse l’attenzione.
Tibbets rimase silenzioso qualche istante, poi mormorò, con
lo sguardo fisso sulla foto della tomba:
«William aveva ragione su tutto. E lo ammiro,
perché è stato
l’unico di noi a compiere quel che non avremmo mai il
coraggio di fare...
ammettere il nostro errore e pagarne le conseguenze»
Cynthia annuì appena con il capo, meditabonda.
Tibbets, infine, sospirò amaramente.
«Odio anch’io la marmellata di albicocche,
William... ma
imparerò ad inghiottire, anche se con un grande sforzo, come
si aspettano da
uno come me»
... dove
(sono) i figli della guerra
partiti per un ideale
per una truffa, per un amore finito male
hanno
rimandato a casa
le loro spoglie nelle barriere
legate strette perché sembrassero intere.
Dormono, dormono sulla collina
dormono, dormono sulla collina.
Fine
*2 Affermazione reale dell’ammiraglio William Halsey
*3 Vere parole che pronuncia il colonnello Paul Tibbets appena sganciato “Little Boy”
Me91: Ho scelto di narrare questo particolare fatto storico - anche se non molto “originale” - perché effettivamente sapevo che un soldato, sganciata “Little Boy”, era impazzito per i sensi di colpa e si era quindi ucciso. Ho cercato di analizzare il personaggio, immedesimandomi in lui, e alla fine sono giunta alla conclusione che non si può vivere con sensi di colpa così grandi. Per questo l’ho trovato un “buon” motivo per uccidersi. Spero di essere stata chiara ed esauriente nel racconto!
Alla prossima! ;)