Autore: Nana° (nanaosaki93 su
efp)
Titolo: So here I am.
Fandom: Bleach
Personaggi: Coyote Stark, Lilinette
Gingerback
Pairing: Nessuno.
Genere: Introspettivo.
Raiting: Verde.
Avvertimenti: AU.
Tipologia: One shot.
Movie scelto: Il cavaliere oscuro.
Obblighi correlati: Rating verde; una donna morta.
Introduzione:
« E tu chi sei? »
Sapevo che se quella bambina
fosse stata una persona che mi era stata vicina in quella vita che non
ricordavo quella domanda l’avrebbe ferita eppure non seppi
trattenermi. Lei che
per tutto quel tempo mi aveva guardato negli occhi –
bellissimi occhi di un
colore così intenso da riscaldare il cuore –
abbassò lo sguardo verso il
pavimento stringendo forte i pugni.
Note dell’autore:
Ci ho messo secoli e mi
dispiace ma alla fine mi
soddisfa. Amo il personaggio di Stark e credo sia stata una boiata
scrivere su
di lui la prima volta per un contest, credo di averlo storpiato un
po’ ma
infondo non è che Kubo poi la caratterizzi più di
tanto >.<
La canzone che da il titolo e le frasi di lato in corsivo
sono presi dalla canzone dei Bullet for my Valentine Say
Goodnight. Buona lettura e incrociamo le dita, come sempre.
So
here I am.
Heaven's
waiting for
you
Just close your eyes and say goodbye
Ovunque
una persona si trovi,
non sarà mai sola.
Si è sempre, volenti o
nolenti, circondati da qualcuno. Che siano le persone che portiamo
dentro il
cuore quando intorno a noi non c’è fisicamente
nessuno, o le presenze corporee
che ci circondano giornalmente, non si è mai soli.
Se si ha memoria, si ha
compagnia. Il bisogno di autoconservazione che abbiamo incluso nel
prezzo dalla
nascita come esseri umani ci porta a cercare conforto scavando nei
ricordi. E
nelle nostre crogiolanti reminescenze non siamo mai soli.
Perché rimanere senza nessuno
al mondo è una delle paure più terrificanti e
comuni nel mondo di oggi, nel
quale ognuno di noi non è autosufficiente. Si vive
appoggiandosi agli affetti,
alle persone potenzialmente più forti di noi e continuando
la catena facendo
appoggiare altri a noi. È un circolo vizioso che solo poche
persone riescono a
spezzare, solitamente non in definitiva, grazie ad
un’armatura di diffidenza.
Eppure
ero solo. Non avevo
ricordi di tutta quella che era stata la mia vita fino a quel momento e
appena
avevo aperto gli occhi ero sprofondato nella più cupa
solitudine sperando di
poterli richiudere e questa volta definitivamente.
La mia mente continuava a
chiamarmi, a pormi infinite domande a cui nessuno dei due poteva dar
risposta
mantenendomi sveglio e incominciando a ristabilire un contatto con il
resto del
corpo.
Riuscii a malapena ad alzare
una mano per osservarla silenziosamente. Era fasciata con bende candide
e
all’altezza del gomito un ago spesso era stato inserito in
una delle vene, tirando
leggermente nel movimento un rivolo di sangue sporcò la
parte della mia pelle
scoperta.
Era rosso e denso, il sangue,
aveva iniziato a scivolare lento per poi appoggiarsi sulle coperte
immacolate
rovinando quella purezza.
Ero
certo di trovarmi in uno
di quei posti che vengono chiamati ospedali e se ero lì
probabilmente il mio
corpo o la mia mente aveva qualcosa che non funzionava.
La stanza attorno a me era
completamente bianca e dava un piacevole senso di
tranquillità che placava di
poco l’angoscia della solitudine. Fuori dalla finestra
però il cielo era
grigio, pieno di nuvole gravide di chissà quale temporale,
eppure
quell’atmosfera mi ispirava un vago senso di
libertà. Come se il vento che
soffiava e scombussolava gli alberi mi stesse chiamando, come se almeno
lui mi
conoscesse.
Mi
ero domandato più volte dal
momento in cui avevo preso conoscenza quale fosse il mio nome.
Non ero spaventato dalla mia
ignoranza, da quella nebbia fitta che mi confondeva la testa, ma una
pungente
curiosità mi pizzicava spesso il cervello. Speravo di avere
un bel nome, magari
non troppo lungo e difficile da pronunciare. Ne avevo tanti in testa,
come se
avessi conosciuto molte persone nella mia vita, ma a nessuno riuscivo
ad
accumunare un viso.
Sentivo di avere tanti anni
perché addosso percepivo la stanchezza che solo una persona
dalla vita lunga e
travagliata poteva avere. Avrei voluto alzarmi in piedi per cercare un
specchio
e ricordare il mio viso ma diversi fili mi tenevano legato al letto.
Dalla posizione in cui mi
trovavo riuscivo a scorgere alcune ciocche dei miei capelli, erano
scuri e
lunghi, e la mia pelle abbronzata.
Quando
bussarono alla porta
ero ancora concentrato sulla mia mano e sul braccio sporco di sangue
ormai coagulato
e alzai la testa nel momento esatto in cui la testa di una bambina dai
capelli
strani fece capolino nella stanza.
Era piccola e tremendamente
magra ma una volta entrata non si voltò verso di me, era
come se ispezionasse
l’ambiente in cui si trovava, come se stesse cercando
qualcosa.
«
Ciao. » riuscii a dire e i
suoi occhi si impiantarono magnetici nei miei.
Pensai che quella mia uscita
l’avesse spaventata eppure nei suoi occhi vidi soltanto una
grande sorpresa.
«
Finalmente ti sei svegliato,
Stark dei miei stivali! »
« Mi chiamo Stark? »
« Certo, deficiente… »
« E tu chi sei? »
Sapevo
che se quella bambina
fosse stata una persona che mi era stata vicina in quella vita che non
ricordavo quella domanda l’avrebbe ferita eppure non seppi
trattenermi. Lei che
per tutto quel tempo mi aveva guardato negli occhi –
bellissimi occhi di un
colore così intenso da riscaldare il cuore –
abbassò lo sguardo verso il
pavimento stringendo forte i pugni.
«
Me lo avevano detto, quei
cretini dei medici intendo, che sarebbe potuto succedere. Io non volevo
crederci, non m’importa mai niente di quello che dicono gli
altri, però ora lo
vedo con i miei occhi vorrei davvero prenderti a calci fino a quando
non ti
ritorna la memoria. »
E
anche se parlava volendo
fare la forte il suo viso era strasfigurato dall’impegno nel
non abbandonarsi alla
tristezza. Gli occhi di quello strano colore caldo si erano sciolti e
minacciavano di far straripare le lacrime.
Non si ricordavo il suo nome,
non ricordavo di aver mai incontrato il suo viso e non sapevo quale
legame
avessi con lei eppure da quando era entrata quella pesante sensazione
di
abbandono si era alleggerita e per questo le ero fortemente grato.
« Mi dispiace di
averti fatto rattristare. »
« Non sono triste! Sei tu ad essere
menomato. »
Le
sue parole avevano un
significato che veniva contrastato dall’espressione
tormentata che ormai non
riusciva a più a nascondere. Sembrava che più i
secondi passassero più la sua
presa di coscienza dell’accaduto la facesse affondare nella
disperazione.
Quando le prime lacrime
iniziarono a rigare il suo volto si nascose su se stessa continuando a
ripetere
piccoli insulti verso di me.
« Mi dici come ti
chiami? »
« Li-Lilinette. »
« È un bel nome. »
Si
era seduta con la schiena
appoggiata al muro che affiancava la porta e aveva appoggiato la fronte
alle
ginocchia magre e non sembrava intenzionata a parlare ancora. Sembrava
sola e
indifesa, esattamente come mi ero sentito io quando avevo aperto gli
occhi.
Sembrava spenta, incompleta.
Avrei voluto che il suo viso
non fosse nascosto dai capelli e che i suoi occhi ritornassero nei
miei. Ormai
mi ero convinto di avere un forte legame con quella ragazzina e avrei
voluto
capirne di più ma avevo paura che le mie domande avrebbero
creato nuovi dolori.
Mi stetti zitto e guardare il
soffitto rischiando di riaddormentarmi per parecchi minuti fino a
quando lei,
ancora nella sua stretta fetale, ricominciò a parlare a
bassa voce.
«
La mamma è morta
nell’incidente, ma tu non lo puoi sapere, giusto? Sicuramente
non ti ricordi di
averle voluto bene e questo è molto più doloroso
del fatto che non ti ricordi
di me. Anche se non era la mia vera mamma io le volevo bene. E visto
che non
sei il mio vero papà potrei davvero picchiarti tanto forte
ma purtroppo voglio
bene anche a te. »
La
sua voce era stata ferma
per tutto il discorso ma aveva variato il volume a seconda delle parole
che
pronunciava, come se si vergognasse. Mi aveva sbattuto in faccia con la
sua
piccola arroganza innocente tutto quello che agognavo di sapere e anche
se era
tutto fastidiosamente doloroso apprezzai la sua sincerità.
« Quindi sei mia
figlia. »
« Già… Ti sono rimasta solo io, adesso.
»
« Almeno adesso nessuno dei
due sarà mai più solo. »
Si
alzò di scatto in piedi e
venne velocemente vicino al letto dal quale non riuscivo ad alzarmi e
mi fissò
come arrabbiata per qualche secondo. Notai che il suo viso era segnato
da
occhiaie troppo profonde per una bambina e che la scia lasciata dalle
lacrime
si era seccata sulle guance raggrinzendole.
« Devi promettermelo,
Stark. Devi prometterlo. »
« Te lo giuro. »
Quando
le sue braccia così
mingherline e fredde circondarono il mio collo quasi non riuscii a
comprendere
cosa fosse quel calore che riusciva a trasmettermi. Forse mi ero
dimenticato
anche cosa volesse dire un abbraccio o il voler bene a qualcuno. Le
nostre paure
e le nostre solitudini si annullarono nel momento esatto in cui lei si
abbandonò sul letto rannicchiandosi contro di me.
Rimase stretta al mio petto,
piangendo lacrime che comunque non voleva farmi vedere, fino a quando
un
dottore non le chiese di allontanarsi per fare dei controlli a
entrambi. Lei
gli fece una linguaccia e si allontanò senza guardarmi in
viso e uscì dalla
stanza lentamente.
Non
mi ricordavo nulla ma
sapevo che col tempo avrei recuperato tutto, lei mi avrebbe aiutato
forse anche
a schiaffi come minacciava. Non sapevo niente se non il suo nome e un
pezzo
della nostra storia ma quello mi bastava perché insieme
avevamo già il nostro
primo ricordo.
Stavamo iniziando ad
appoggiarci l’uno all’altra divenendo
più umani e lasciandoci alle spalle la
solitudine che sono persone che hanno perso tutto possono conoscere.
Ovunque una persona si trovi, non sarà mai più sola.
I'm there til the end
Memories are calling
So farewell my friend
Fine.