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Autore: Callie_Stephanides    26/11/2010    1 recensioni
In amore e in guerra tutto è permesso, recita un celebre adagio... E per diventare famosi?
Uno spregiudicato Tetsuya Ogawa sfida senza paura tutte le regole - quelle della natura e quelle del buonsenso, soprattutto - per far capitolare il batterista dei propri sogni. E, come al solito, vince.
Genere: Commedia, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Fictional Dream © 2006 (8-10 gennaio 2006)
I L’Arc~en~ciel (nella prima formazione major, Tetsuya Ogawa, Ken Kitamura, Hideto Takarai e Yasunori Sakurazawa, poi Yukihiro Awaji in luogo di quest’ultimo) sono uno dei più celebri gruppi di musica rock-pop giapponese.
L’autrice non intrattiene con i succitati artisti alcuna relazione di tipo economico-collaborativo.
Questo testo narra eventi di pura fantasia, destinati al diletto ed all’intrattenimento di altri fans: non persegue alcun intento diffamatorio (né pretende di dare informazioni veritiere sulle persone di cui tratta) o finalità lucrativa.
Nessuna violazione dei diritti legalmente tutelati in merito alla musica ed alla personalità degli artisti succitati si ritiene intesa.
L’intreccio qui descritto rappresenta invece copyright dell’autrice (Callie Stephanides - http://fictionaldream.iobloggo.com). Non ne è ammessa altrove la citazione totale né parziale, a meno che non sia stata autorizzata dalla stessa tramite permesso scritto.

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La prima cosa cui avresti pensato guardandolo era che il carisma non fosse un ideogramma o una parola troppo complessa per l’uso corrente o un vezzo anglofono o un’atmosfera.
Un insopportabile modo di essere prima donna e maschio insieme, questo era il suo dono. E non so se ne fosse tanto consapevole da sbattertelo in faccia senza alcun riguardo, ma l’effetto era quello.
Una cherokee sempre accesa. Dita tra i capelli. Lo sguardo troppo attento di chi vede la vita fuori fuoco. Un po’ artista. Un po’ poeta. Un po’ troia. E anche daltonico. Forse soprattutto quello.
Nel suo essere asessuato era la creatura più sessuale avessi mai visto. Avrebbe sedotto anche un sasso. Suppongo che l’ipotesi l’avrebbe perfino divertito. Era quel genere di persona che a un certo punto piega la testa di lato, ti guarda un po’ e ti commenta con un ‘Ah, sì?’ che non sapresti mai dire se sia assertivo o una clamorosa presa per il culo.
Di sicuro non poteva fare il chitarrista: dei Kidies Bomb ricordavano solo lui, e non credo dipendesse da come suonava. Era bravo, senz’altro, ma distraeva.
Il chitarrista deve essere un abile gregario. Le sue corde non flirtavano con il frontman e con il pubblico come il suo broncio. Non era colpa sua: era troppo kawaii per non risultare anche così sottilmente e meravigliosamente perverso da farti perdere la testa.
Non era importante che tu fossi uomo o donna, se ti piacessero gli uomini o le donne: ti rendevi conto che era andato oltre. Non era un fascino costruito, però, quanto un incredibile controllo di sé. Uno strumentalizzarsi sempre con molto cervello.
O forse sono io a dovermi cercare giustificazioni per il fatto che seguissi i Jerusarem’s Rod come una fangirl. Quando impugnava quel microfono – sempre troppo alto per lui – non c’era più nessuno osasse fiatare, anche nella live house più incasinata. La sua voce era il suo arpeggio migliore. Poteva farle fare qualunque evoluzione, non calava mai di tono. Se parlava, ti accorgevi che forse era perfino un po’ timido a tratti e che aveva un accento tremendo. Ma era furbo, e flirtava davvero come un troia. Pensandoci bene fu da lì che mi venne l’idea: non avevo neppure bisogno della musica, se l’avessi venduto a quelli di Shinjuku ni-chome avrei fatto subito un mucchio di soldi.
A quel punto, di solito, mi mandava a cagare, perché è evidente che non c’era niente di più importante di quella voce. Più bello di quella voce. Neppure lui.
Una voce che ti veniva davvero spontaneo chiederti dove cazzo stesse, se non arrivava ai centosessanta centimetri.
Un cosino piccolo piccolo, tremendamente kawaii e con il broncio perenne dei bambini viziati, dei figli unici e degli stronzi. Non si chiedeva nessuno se potesse mai diventare qualcuno: era già evidente che avesse tutto quello che gli serviva. Tranne il gruppo giusto.
Per un po’ ho fatto l’orefice. Mi ricordo ancora cosa mi diceva sempre un senpai quando arrivavano le pietre.
‘Vedi il diamante, Tetsuya? Quando è così grosso, devi montarlo per forza da solo, perché non c’è niente che avrebbe senso accanto a una pietra simile. Ma se lo tagli bene e lo metti nel posto giusto…’
Con la musica era la stessa cosa, solo bisognava avere il cervello per rendersene conto. Autocritica e buonsenso. Mettere su un gruppo non era per niente diverso da montare un gundam o impilare CD: non era fatto per stare con gente meno ambiziosa di lui o ambiziosa quanto lui, un piccolo cocco di mamma cui non c’era volta non palpassero il culo sul rapido Nankai per Osaka. Chi non aveva la forza e la carica giusta non gli sarebbe mai stato dietro come doveva. Chi voleva corrergli davanti sarebbe stato schiacciato senza rimedio e l’avrebbe danneggiato, perché era pieno di vezzi tremendi come quel suo accento da mafioso del Kansai. Andava educato e andava affiancato e addomesticato in modo intelligente: aveva una gran voce, la faccia giusta e quella strana, sensuale indolenza da bestiolina mai del tutto doma. Io sono uno che ottiene sempre quello che vuole; volevo la sua voce e la sua faccia e il suo talento, gli regalavo il mio cervello, la mia logica, il mio entusiasmo, la mia musica e il mio talento. Non poteva essere tanto stupido da rifiutare.
Accettò.
Ma era un diamante. E dunque andava sgrezzato, tagliato e piazzato al posto giusto.
“Voice” era lui: aveva ventitre anni, sembrava una lolita di tredici, cantava come Baki e dettava legge.
Hiro non ce la fece.
Ken disse: ‘Carina la tua ragazza. Adesso ho capito perché non me l’hai mai presentata.’
Aprì la bocca e devastò le sue illusioni.
Aprì la bocca e tolse al Giappone un laureato, un architetto e gli diede un chitarrista.
Un ottimo chitarrista.
Adesso, però, siamo al palo un’altra volta.
Questa storia comincia proprio da qui.
 
L’autunno di Osaka poteva deprimerti feroce con le sue piogge incessanti, uggiose e opprimenti, come l’umidità che ti si incollava addosso e ti entrava dentro, negandoti il diritto a un’idea decente, ma l’inverno poteva essere quasi peggio. Soprattutto quando si levava quel vento freddo e fastidiosissimo di tramontana, la strada gelava ed il telefono squillava solo per quella ridicola pantomima.
Tetchan, posso venire da te?
In realtà bastava guardare la strada per vederlo, se la siepe era stata tagliata abbastanza da non coprirlo del tutto. Un paio di volte si era tolto la soddisfazione di dirgli ‘No, adesso non puoi. Sono con la mia ragazza’, salvo allontanare poco dopo una tenda e guardarlo: il viso sottile, il broncio sensuale, gli occhi vellutati da cerbiatto e quei capelli tanto lunghi da alimentare l’equivoco con una facilità spaventosa.
Tetchan. C’è di nuovo quella tua ammiratrice. Quella carina.’
Quello è il mio cantante, aveva pensato un paio di volte con discreto sgomento.
 
Se una sorella adolescente cerca pensosa in un specchio complessi da inventarsi dopo aver visto un tuo coetaneo, può anche capitare di porre fondamentali domande esistenziali. Soprattutto se tua sorella è abituata ai tuoi capelli lunghi, colorati e agli abiti troppo vistosi con cui ti sei inventato il ruolo che volevi per il tuo futuro, e che ora non sai neppure se sia più tanto vicino.
 
Tetsuya Ogawa aveva ventuno anni il giorno in cui la sua vita era pericolosamente cambiata. O meglio, tendeva a guardare al millenovecentonovantuno come all’anno della svolta. Era curioso, perché in fin dei conti la cerimonia per la maggiore età c’era già stata da un bel pezzo e se uno voleva sentirsi adulto e consapevole delle proprie scelte tanto valeva accelerare i tempi. Però Tetsuya Ogawa era uno meticoloso pure nel cercare i propri riferimenti. E il millenovecentonovantuno era stato nei fatti quello che aveva definito il cambiamento epocale, fosse pure perché aveva capito d’aver avuto ragione: la musica sarebbe stata il suo futuro.
Tetsuya Ogawa sapeva molto bene d’essere qualcuno che la società giapponese tollerava a fatica, perché aveva il pessimo vizio di credere nei sogni e nella possibilità di realizzarli. Ci credeva anche Kitamura, una volta, poi aveva fatto il bravo figlio e lo studente responsabile. Non che fosse nulla di male – soprattutto perché poi aveva ritrattato, a ben vedere – ma era scontato, come il portare i capelli corti, la divisa ben allacciata, aspettare che la noia scemasse tra una lezione e l’altra. Tetsuya non immaginava per sé una vita del genere; era difficile dire se fosse eccesso di manga, eccesso di sogni o eccesso di fantasia. L’unica cosa certa era che vi fosse anche di mezzo un eccesso di talento e una razionalità diversa da quella che si memorizzava su un banco di formica.
Tetsuya sentiva che il vento stava cambiando e che quel vento gli piaceva. Poteva fare mille lavoretti da niente nel mezzo; prima o poi avrebbe trovato la corrente giusta e volato davvero. Non gli somigliava, neppure in quello. Non avrebbe mai grugnito per un ordine di un cliente. Tetchan aveva un sorriso e un inchino cortese per chiunque, perché sapeva che sarebbero finiti. Un giorno tutto il Giappone l’avrebbe ricambiato e non aveva alcuna fretta di rubare per sé quel sorriso, se poteva riceverlo senza sforzo e con assoluta gratuità.
Nel millenovecentonovantuno, dunque, Tetsuya seppe di aver ragione, e lo realizzò in una delle tante live-house di Osaka, davanti alla ragazza più attraente gli fosse capitata davanti negli ultimi anni. Aveva qualcosa di ambiguo e malizioso e due occhi da rubarti l’anima, soprattutto, però, fumava cherokee ed era uno straordinario tenore.
Chiunque canti il rock dovrebbe possedere certe altezze. A Tetsuya cantare piaceva, ma la sua voce era troppo sottile; su quel palco, tra ragazzi distratti e nel silenzioso fruscio della pioggia del tardo inverno, per contro, gli acuti di un ragazzino effeminato e ambiguo esplodevano con una forza inaudita. Probabilmente fu in quel momento che decise di dare un volto alla propria musica, e quel volto non era il suo.
A Tetsuya bastava metterci il cuore e il cervello, ma vendersi era un’altra cosa. Per vendersi aveva bisogno di quella voce e di quel viso. Poi trovare la corrente ascensionale per il rakuen sarebbe stato facile.
Tetsuya era un tipo paziente e un buon osservatore. Non aveva fretta di avvicinarlo, perché preferiva studiare prima l’effetto che faceva sul suo pubblico. Era grezzo, ma aveva istinto. Tra le indie del visual era credibile, sembrava davvero una donna. No, meglio, sembrava una ragazza carina, innocente e perversa insieme.
E aveva quella voce che ti stupiva all’improvviso.
Si era accorto che lo stesse seguendo come un’ombra? Forse.
Non sarai uno di quelli?
Quelli chi?
Ho fame. Offrimi qualcosa.
 
Gli aveva chiesto il nome, per una presentazione giapponese e formale. Aveva ricevuto in cambio una sbuffata di fumo e una smorfia carina.
 
No. Non te lo dico. È un segreto.’
 
Quella era la sua parte e l’aveva imparata bene. Era un figlio unico viziato, egoista ed egocentrico, ma era anche quello che lo rendeva così speciale e così unico sul palco: uno sconosciuto che alla fine riconoscevi per forza. Per fortuna nel giro del Kansai non era così difficile raccogliere voci e concedersi il lusso di qualche sorpresa; lo scricciolo di Wakayama era persino più vecchio di lui e aveva un nome banalissimo. Era per quello che tentava di darsi un tono con l’anonimato, oppure per quella sua infatuazione per Baki tanto puerile quanto significativa?
Se hai i vizi di una star prima ancora di diventarlo, vuol dire che hai la stoffa.
Tetsuya ne era convinto e si era tolto la soddisfazione di strappare ai Jerusarem Hideto Takarai, classe millenovecentosessantanove e, probabilmente, la più bella voce del Giappone. In ogni senso.
Quella conquista, però, somigliava tanto a un inizio che a una fine. Hideto non era uno che costruiva equilibri, se non a propria immagine e somiglianza, ed era troppo inconsistente per divenirne un perno. Era bravo a romperli, in compenso. Prima Hiro e poi Pero.
Un trenta dicembre davvero indimenticabile: il drummer che si inchina e se ne va e la tua prima donna che sembra non aver proprio capito che un singolo autoprodotto non significa nulla sulla via della gloria se non puoi dargli un seguito.
Tetsuya, però, doveva essere all’altezza della situazione per l’ennesima volta, ma se un tuo carissimo amico ha già mollato tutto per il tuo sogno e tu non puoi offrirgli che l’ennesima battuta d’arresto, il problema non è l’ottimismo: il problema è un po’ di quel sano realismo che ti rinfaccia sempre tuo nonno quando guarda i tuoi capelli.
Il buonsenso per Tetsuya era anche ammettere che forse la vita non era un manga, e certe correnti potevano solcarle soltanto le aquile. Non i gabbiani di Osaka.

“Bella immagine. Magari usala per qualche canzone, prima che ti suggerisca qualcosa io. O lo suggerisca a una tua parente a caso.”

La voce di Ken l’aveva riportato alla realtà, non meno del risolino nervoso con cui le sue due sorelle si sentivano in dovere di sottolinearne la presenza. In circostanze simili rifletteva sempre sulla natura delle proprie frequentazioni.
Un vocalist ambiguo e un chitarrista puttaniere: di materia prima per costruire un gruppo epocale ne aveva in abbondanza e di prima qualità, perché andava tutto male?

“Chissà per quale contorta ragione immagino alla perfezione quale possa essere la natura della tua ispirazione,” aveva replicato sarcastico, prima di allontanare con un’occhiataccia le non addette ai lavori. Tetsuya era un bravo fratello maggiore, ma in circostanze come quelle rimpiangeva non poco la fortuna di Hideto: la beata solitudine dei momenti peggiori e il gusto di rimuginare in assenza di pubblico.
Era evidente che potesse scrivere tanto e bene: aveva la possibilità di ascoltare qualcosa di diverso dal parlottio sempre innamorato che Kitamura si trascinava dietro.
Ken aveva estratto una delle sue tremende Marlboro Light Menthol – la centesima almeno della giornata – prima che il suo sguardo gelido lo raggiungesse, indicandogli la veranda. A quel punto aveva grugnito qualcosa e nascosto il pacchetto: evidentemente la cura Hideto aveva funzionato. Il piccolo demonio aveva provato a rivendicare il proprio diritto a rovinarsi la voce, ma aveva dovuto scontrarsi con la sua irremovibile convinzione che il fumo fosse appena peggio di un lavoro da pupazzo animato. Dopo tre sinusiti seguite a quel pessimo vizio, adeguatamente compensato, il vocalist aveva barattato le cherokee per un commestibile qualunque.
Poteva inghiottire biscotti anche per tre ore senza soluzione di continuità, e ridurti il kotatsu a un cimitero di briciole, ma se non altro evitava di appestarti – e qualche volta ti ascoltava pure.
“Dovresti fumare anche tu, Tetchan. Saresti un pochino più rilassato,” l’aveva sentito sbadigliare, prima di stiracchiarsi e allungargli un calcio con le sue gambe troppo lunghe da giapponese sovradimensionato. Hideto quasi non arrivava al microfono e il chitarrista aveva problemi in treno: forse non erano così ben assortiti come credeva all’inizio, o forse era quella giornata così tetra e triste per essere la fine di un anno promettente.
“È il telefono. Non rispondi?”
Si era alzato, sollevando la cornetta e volgendola contro il proprio interlocutore. Arrochito dal freddo e dall’apparecchio, il solito ‘Tetchan, posso venire da te?’ era risuonato nitidissimo. Aveva abbassato il ricevitore con un gesto quasi violento, prima di scuotere la testa.
“Be’? È Hideto. Non gli dici niente?”
“È qua sotto.”
“Uh?”
“Mi chiama dal telefono pubblico sotto casa. Lo fa sempre.”
“E perché?”
“Credo che lo trovi divertente.”
“Ah.”
“Trova divertente sentirsi un supereroe che impiega due secondi ad arrivare al campanello.”
“Ah.”
“Ha ventiquattro anni. Mi sta facendo diventare matto.”
Ken aveva riso, neppure a ricordargli che quello era forse il suo unico talento: scovare svitati. Con una bella voce, una bella faccia, ma senz’altro svitati. Hideto, però, non era tanto matto, quanto infantile in modo spaventoso a volte. Gli piaceva farsi notare, calamitare su di sé ogni sguardo. Era piccolo, ma non trasparente. Il peso che voleva assumere in ogni circostanza era inversamente proporzionale alla sua taglia. Aveva aperto la finestra, fissando lo sguardo miope nella notte già avanzata.
Era una macchia sfocata e pallida alla luce spettrale di un lampione.
“La finiamo con questo gioco cretino?”
“Sto gelando, Tetchan. Vuoi farmi prendere il raffreddore?”
Non era pensabile uno scambio adulto e paritario, si era trovato a pensare con quieta condiscendenza. A ben vedere, però, quel ruolo non gli pesava. C’era l’orgoglio e la responsabilità del leader. C’era, all’improvviso, la voglia quasi paterna di dare concretezza e riscatto a sogni che non erano solo i suoi, ma appartenevano a una nuova famiglia che stava già nascendo. Erano loro tre: un’ambizione che aveva cominciato a profumare del rakuen delle aquile.
Forse non era il caso di disperare, quanto di far lavorare il cervello.
“Tetchan, per favore! Fa freddo!”
 
Tra gli indie di Tokyo era una specie di outsider. Aveva lavorato con i Dead End e con gli Harem Q. Non era Yoshiki, ma aveva talento e carisma. Non era un complemento sonoro e un arredo scenico: se alla batteria c’era Yasunori Sakurazawa, era quasi certo la live house si riempisse per qualche valida ragione. Era attraente, magnetico, maschio. Pestava forte e sapeva interpretare quel ruolo così sexy che la storia sembrava avergli assegnato. Viveva nella Capitale, dove la concorrenza era spietata e la musica nasceva in ogni svincolo di Shibuya, dove il sogno quotidiano era diventare major e abbandonare locali troppo stretti o troppo polverosi o troppo provinciali, part-time noiosi o avvilenti, ambizioni morse solo a metà. Non era uno arrivato nel senso pieno del termine, ma fare musica a Tokyo, anche da indie band, era il sogno di qualunque ragazzo fosse nato in provincia e denunciasse la propria origine nelle inflessioni pesanti di un dialetto troppo aperto, buono per i comici e per i guappi.
Tetsuya Ogawa, però, non era il tipo da lasciarsi scoraggiare dalle situazioni o dalle apparenze, non se aveva ben chiaro l’obiettivo da raggiungere. Quella che stingeva tra le dita era una mano vincente, che per essere davvero tale doveva esser introdotta dal bluff adeguato.
Yasunori – o Sakura, come l’aveva sentito chiamare – era un altro con le qualità per il grande salto, ma un background mediocre. Come Hideto, insomma, un diamante con il castone sbagliato. Toccava a lui correggere un’oreficeria dozzinale con il tocco dell’artista, e sapeva di poterlo fare.
Hideto detestava gli imperativi categorici e il sentirsi escluso dalle situazioni, ma era bastato ricordargli come una scarsa collaborazione potesse importargli un glorioso ritorno ai suoi adorati vecchietti divoratori di ciambelle, perché contenesse le bizze da prima donna e si piegasse alle sue istruzioni. Per fortuna la base era già stata incisa assieme a Pero, ma in quelle note il vocalist doveva impegnare tutto se stesso: potevano essere una porta aperta sulla Capitale e sul futuro.
Il nuovo batterista, in fin dei conti, era solo il naturale e inevitabile viatico verso la celebrità.
Tetsuya aveva sollevato la cornetta con riluttanza e contenuto il più possibile l’inflessione pesante di Osaka, tentando di ricordare quanto quella del vocalist fosse minimizzata dal canto. Se Sakurazawa li avesse presi per strimpellatori dialettali era del tutto improbabile che si prestasse a un incontro diretto, tanto più che dubitava i L’Arc~en~ciel avessero raggiunto Tokyo con una fama che non nascesse, al più, da un nome quasi impronunciabile in giapponese.
Sakura non gli aveva nascosto che fossero degli sconosciuti e nemmeno abbastanza illustri da potersi etichettare come tali, ma era un musicista con un buon fiuto, ed era curioso. Osaka restava pur sempre la terza città del Giappone e i numeri dell’ultimo live non erano quelli di un gruppo da nulla.
Mandami qualche demo’ gli aveva detto. ‘Poi vediamo’, ma non sembrava abbastanza convinto. D’accordo: la voce di Hideto era una forza della natura, ma era dal vivo che offriva il meglio di sé. Dal vivo che poteva fare la differenza. Dal vivo che mostrava il confine tra una visual qualunque e un arco che spezzava quel maledetto cielo sempre troppo lontano.
 
“Possiamo organizzare qualcosa. Noleggiare uno studio, provare in una live-house. Se la conosci, capirai che vale il viaggio.”
“Conoscere chi?”
“La cantante del nostro gruppo. Quanto fa la differenza, fidati.”
“LA cantante? Ma hai registrato sulla carta igienica o sono io a essere diventato sordo? Quella è una voce da tenore. Con qualche incertezza, ma di sicuro…”
“Te l’ho detto. Noi non siamo un gruppo qualunque e vogliamo dimostrarlo sul serio. Ci serve un batterista bravo e ho pensato a te, Ma sono quasi sicuro che quella demo potrebbe portarmi drummer come cavallette. Pensaci. Potrebbe essere l’occasione anche per te.”
 
Quando Sakura aveva annunciato che sarebbe stato a Osaka per il lunedì e Tetsuya poté interrompere la comunicazione con qualche certezza, si concesse finalmente di respirare.
Tetchan. Tu sei un maledettissimo genio, aveva pensato con il trasporto che si lega ai grandi eventi e alle occasioni irripetibili.
Solo dopo aveva realizzato che Ken avrebbe avuto una crisi isterica per l’eccesso di ilarità, e che Hideto, se non di ucciderlo, avrebbe tentato per certo qualche atto inconsulto.
Tagliarsi i capelli, ad esempio.
O farsi crescere i baffi.
Forse avrebbe dovuto permettergli di fumare le sue cherokee al caldo; a quel punto, però, ce ne fosse stato il bisogno, Takarai avrebbe dovuto piegarsi persino ai boccoli, oppure, con la democraticità dell’autentico leader, l’avrebbe ucciso.
Forse.

   
 
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