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Autore: Callie_Stephanides    26/11/2010    0 recensioni
In amore e in guerra tutto è permesso, recita un celebre adagio... E per diventare famosi?
Uno spregiudicato Tetsuya Ogawa sfida senza paura tutte le regole - quelle della natura e quelle del buonsenso, soprattutto - per far capitolare il batterista dei propri sogni. E, come al solito, vince.
Genere: Commedia, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Tetsuya non aveva potuto fare a meno di pensare che Hideto poteva anche scollarsi di dosso la faccia da martire della causa, se il batterista era stato tanto di suo gusto da calarsi così a fondo nella parte. Anzi, poteva evitare di usare Ken come intermediario per dettare leggi, equilibri e ritmi che tanto non avrebbe assecondato.

“Tetsuya, non fare il coglione! Lo vedi anche tu che non ha fiato,” mormora a denti stretti Ken, mentre regola di nuovo la chitarra per abbassare Yasouka di un paio di ottave, mentre haido beve e abbaia quasi in contemporanea, spruzzando acqua dal retro come un bambino deficiente.
“Ce l’aveva, prima dell’apnea. Vedi di non dargli corda anche tu,” replica distratto, allentando la fibbia del basso.
Ken lo guarda malissimo e scuote la testa. “Tetchan, vogliamo finirla con i giochini da bambini dell’asilo? Dicevi tanto di lui, ma pure tu non è che brilli, eh? Cos’è ‘sta faccia? Prima gli dici di lavorarsi Sakura e poi sembra quasi che…”
“Vaffanculo, Ken. Davvero. Vaffanculo,” ringhia a denti stretti, prima di muoversi di nuovo verso la scena aperta, schiavo delle luci, di un sogno e di un’illusione che in momenti come quelli sembra morta e sepolta senza speranza.
Kitamura pare voler recriminare qualcosa, ma il “Niente. È tutto ok” di haido sembra riequilibrare ruoli e schemi già decisi. Forse lo detesta ancora di più in momenti come quelli: lo detesta, lo invidia e vorrebbe chiedergli come fa a essere così grande, se è così piccolo. Così forte, se sembra sempre sul punto di dissolversi. Come fa a farlo sentire tanto mediocre, se in fin dei conti sono sulla stessa barca.
haido tossisce ancora lontano dal microfono, poi miagola qualche scusa pietosa, su cui gli spettatori si sciolgono come da copione. A quel punto evita di dargliela vinta per l’ennesima volta e comincia a cantare. Senza perdere una nota, senza calare di tono, senza recuperare fiato in pause troppo lunghe, senza spezzare l’incanto che si crea sempre quando il suo mondo fluttuante si apre ad abbracciare tutto il resto.
Tetsuya arpeggia sforzandosi di non pensare a nulla, se non a quanto possa essere anche meraviglioso suonare così e pensare che esiste l’armonia persino dove fino ad un momento prima non c’erano che brutte parole e frasi dissonanti e sentimenti disordinati. Pensa che sarebbe davvero meraviglioso diventare grandi insieme, perché quella è la musica che farebbe davvero felice chiunque. Persino un sordo, magari, perché è una grazia talmente dolce che tocca il cuore comunque.
Le luci si abbassano poco a poco, ma Tetsuya si accorge che forse ora vede davvero bene e il peggio è passato, che non c’è più traccia di rancore o sentimenti negativi, ma solo la voglia di chiedergli scusa e dirgli che è stato grandioso. Che se lo merita un posto nella storia, perché neppure un professionista sarebbe stato tanto responsabile e dedito e stoico fino all’ultimo gorgheggio. Ma haido non ha voglia di parlare con lui e forse ne ha tutto il diritto, perché in quell’oscillare dei toni le responsabilità sono ora gravemente sbilanciate da una parte che non è la sua, e Hideto può anche essere molto spietato.
Sakura lo aspetta ai piedi del palco, si sfila la sciarpa e gliel’avvolge protettivo sul capo. A guardarli così sono una coppia bella in un modo talmente eccezionale che non stonerebbe neppure in una rivista di moda.
Tetsuya resta a guardarli e perde la voglia di fare qualunque cosa, persino sensata. È Kitamura che gli arriva alle spalle e allarga le troppe vocali del dialetto di Osaka per dirgli: “Tetchan, lo so che è moralmente scorretto arrivare in mezzo agli undici minuti. Ma ti ricordo che haido è quello che ce l’ha più lungo tra noi tre, e non gli è caduto con il raffreddore. ‘Sto Sakura ci serve vivo. Se gli prende un colpo, che cazzo c’inventiamo?”

Tetsuya Ogawa si riscosse da un sogno che rischiava di trasformarsi in una tragedia buona per un kabuki o per un enka di quarta categoria, il che lo portò a considerare il fatto che la poesia fosse meglio lasciarla fuori dalla contabilità e dalla gestione di un gruppo, se uno aveva la pretesa di esserne il leader. Ken, con la sua brutale concretezza di puttaniere e le ardite metafore del suo lessico da scopata di provincia, se non altro, aveva avuto l’indiscutibile merito di riportare il tutto sul binario della concretezza, ovvero quella della farsa. Una mitologica, pericolosissima farsa i cui protagonisti, oltre che personalità in grado di minargli il sistema nervoso, avrebbero fatto scintille non solo sul palco, ma anche nel concreto – con il non tanto trascurabile dettaglio che quella fosse una prerogativa pure dell’innesco di Nagasaki.
C’era Sakura, maschione ormonalmente attivo di Tokyo, con l’occhio lungo e le mani pronte. E c’era haido-la-geisha-vergine, che in verità era un ventiquattrenne non vergine da un pezzo e del tutto rincoglionito dalla febbre. C’era da piangere e da ridere al tempo stesso. Anzi, era il tempo quello che mancava davvero.
“E adesso che si fa, Tetchan?” gli aveva chiesto Ken, senza curarsi di nascondere un vistoso succhiotto che non poteva avergli lasciato lo spinotto della chitarra.
Tetsuya aveva avvertito il prepotente desiderio di spegnergli in fronte la sua sigaretta, ma ne aveva abbastanza di perdere membri della band e sostituirli con soggetti ch’erano sempre più svitati.
“Si corre, coglione! Dobbiamo evitare che se lo porti a letto, no?”
“Già. Non mi sento pronto per diventare zio,” aveva pontificato Kitamura, prima di usare uno degli orribili rossetti di haido per lasciare sullo specchio della toilette un recapito telefonico che compensasse quella fuga improvvisa.
La cameriera l’aveva salutato con le lacrime agli occhi, mentre Ogawa se la prendeva con Buddha e Gesù Cristo per qualcosa che solo lui poteva aver capito, benché il suo adorato Charz Aznable, probabilmente, smadonnasse con un minimo di classe.
Ken Kitamura non poteva fare a meno di mantenere sul proprio viso da buono quell’espressione di immutato divertimento, perché quello non solo poteva essere il giorno più glorioso del futuro dei Laruku, ma anche quello più comico di un’epopea ancora da decidere. A quel punto poteva pure capitargli di mandare a puttane tutto un’altra volta e tornare a Nagoya, se non altro poteva dire d’essersi divertito. Tanto.
Tetsuya, per contro, era davvero a un passo da quell’esaurimento nervoso che il povero haido non era riuscito a fargli esplodere se non in modo del tutto involontario. O quasi.
Ken Kitamura, in ogni caso, non aveva mai provato un sentimento di solidarietà tanto spiccato quanto quello che nutriva ora verso Sakura; al contempo, ovviamente, ringraziava Dio – o chi per lui – che non gli fosse toccato nulla di simile. Era del tutto sicuro, in ogni caso, che lo shock l’avrebbe ucciso.

Sakura pensa che non gli è mai capitato di conoscere una ragazza così attraente sotto ogni suo profilo. Non è solo bella, ha anche un talento incredibile, una personalità carismatica e una resistenza fuori dal comune. A vederla lontana dalle luci è solo così piccola e fragile da farti male al cuore. Sakura pensa che per una così potrebbe innamorarsi davvero e diventare quasi un bravo ragazzo, perché in fondo il segreto della felicità può essere anche scrivere la musica che ti piace davvero per una voce che non ha eguali.
Sakura pensa che Tetsuya aveva proprio ragione, che i Lark sono nati per esplodere e che i colori del loro arco raggiungeranno perfino l’inferno. È felice e finalmente soddisfatto perché ora può fermarsi, ora può dire che ha trovato piatti da pestare con tutto il talento e l’energia che servono a far brillare ancora di più quella piccola stella.
Le passa d’istinto il braccio contro le spalle. haido piega il viso contro la sua mano. È morbida e calda come un animaletto davvero kawaii. Sakura pensa che deve assolutamente portarsela a Tokyo, ma che passerà qualche grana per forza, se la stellina è davvero minorenne come crede e quanto sembra – e non minorenne da diciassette-diciotto anni; a occhio e croce haido avrà appena cominciato il liceo. A occhio e croce farle quello che vorrebbe potrebbe spedirlo davanti a un tribunale prima ancora di un’altra cosa non molto lecita con cui si dà la carica qualche volta.
Però, se già riuscisse a parlare con i genitori di lei…
Se si potesse firmare un vero contratto, magari…
“Ehi… Non vuoi dirmi come ti chiami davvero?”
haido tossisce piano e scuote la testa. È giù di tono da quando sono usciti dal locale e Sakura non riesce proprio a darsi una spiegazione plausibile. In fin dei conti una ragazza dovrebbe essere contenta di aver fatto colpo su uno come lui, poi si ricorda che forse haido ha quattordici, quindici anni, che magari non è ancora una donna vera e che dovrà tornare a casa, togliersi il trucco pesante da kokeshi e, magari, infilare l’indomani la brutta divisa di qualche scuola media o di un liceo di provincia.
A Sakura viene un po’ da ridere, perché sa benissimo come ci si sente quando la vita pesta l’acceleratore e la tua famiglia tenta di placcarti, ma vuole rassicurarla ed è la persona adatta. Stringe la presa nel modo più rassicurante, virile e dolce che conosce e poi le dice che l’accompagnerà fino a casa. Che non deve preoccuparsi di niente, anche se sono le tre del mattino e per una ragazzina non è certo un’ora sicura.
haido tossisce in un modo strozzato che sembra quasi una risata e lo lascia sorpreso, ma quella ragazzina riesce a sorprenderlo sempre e gli fa quasi piacere. Ha cominciato con certa roba proprio perché gli sembrava che la vita non potesse più stupirlo e invece, da un giorno all’altro, arriva una telefonata e una ragazza che davvero non ti aspetti a seicento chilometri da Tokyo.
Sono queste le cose che gli fanno pensare d’essere ancora un ragazzino e di trarre troppe conclusioni affrettate.
“Io sto a Wakayama,” mormora haido. “Non ci sono treni fino a domattina.”
“E i tuoi?”
“I miei cosa?”
“I tuoi genitori, intendo… Hai piazzato qualche scusa, immagino… Non so… Che dormi da un’amica, magari.”
haido solleva il mento e lo guarda. Ha degli occhi talmente belli persino senza trucco che Sakura avrebbe voglia di baciarli. Sì, di baciare anche quelle due mandorle nocciola così lucide e così grandi.
“…O da un amico,” scandisce con un timbro indecifrabile. No, forse è malizioso, ma è troppo rauca per capirlo.
Sicuramente haido non è una brava ragazza, ma non è affatto un limite. A Sakura certe eroine da shojo manga non sono mai piaciute. haido, invece, gli è arrivata dritta al cuore, al cervello e, cosa ancora più importante, al cazzo. Già, è arrivata fino a là.
“È Tetsuya questo amico?” dice con un tono forse troppo apprensivo – il che gli ricorda di quando non poteva portare i capelli lunghi e si sentiva asimmetrico e sbilanciato davanti a quella ragazza così bella (che ora però neppure ricorda come si chiamasse), in un corridoio scolastico troppo luminoso e troppo falso per quelli che erano i suoi sentimenti di allora. Sentimenti che ricorda appena.
haido si ferma, abbassa il viso e non dice nulla. Le dita di Sakura scivolano tra i suoi capelli e li avvolgono in spirali strette tra le falangi. Gli sembra il solo modo in cui potrebbe trattenerla, come se fosse una fata inconsistente delle paludi.
“Tetsuya è uno stronzo pieno solo dei suoi grandi progetti,” la sente infine scandire, con un tono che quasi non riconosce, tanto è duro, risentito, rabbioso. “Ho una camera qui vicino. Se vuoi, stanotte il tuo amico sono io.”
haido piega di nuovo il capo contro le sue dita, abbandonata, docile e bellissima. È l’assenso più sensuale abbia mai ricevuto.

Tetsuya Ogawa realizzò di averla combinata non grossa, ma immensa quando dovette arrendersi all’evidenza dei fatti; aveva dato il suo vocalist in pasto a uno sconosciuto di cui ora non possedeva neppure un recapito telefonico. Un vocalist che era lagnoso, infantile, basso, daltonico, ingordo e troppo kawaii per non perdonargli tutto quello e forse persino tutte le carognate prossime venture, perché, nei fatti, come Kitamura non poteva fare a meno di ricordargli tra una risata e l’altra – e solo un coglione come lui poteva trovare da ridere in pieno kabuki – ormai era debitore di Takarai fino alla morte e anche oltre.
“E dai, Tetchan, che non avrebbe mai il coraggio di tradirti!” ghignava il cretino, mentre ancora truccati come due transessuali mal riusciti correvano per un’Osaka addormentata, deserta e abbastanza disinteressata al loro teatrino.
“Oh cazzo, cazzo, cazzo!”
Tetsuya non era un ragazzo volgare e certe uscite alla haido non appartenevano alle sue abitudini, ma in quel contesto non gli veniva davvero in mente altro. In ogni senso. Poi, finalmente, Kitamura aveva chiuso la bocca, aperto il cervello e avuto un’idea decorosa.
“Senti, ma se torniamo al locale e chiediamo là? Secondo me quel tipo non è passato tanto inosservato. Qualcuna avrà pure tentato di rimorchiarlo.”
Tetsuya aveva annuito, per quanto pure lo sconvolgesse pensare che delle inevitabili pretendenti, Sakurazawa aveva scelto proprio quella sbagliata.
 
haido ha la febbre alta e proprio non riesce più a tenere gli occhi aperti. Si sente lontano da tutto, ma non ha il coraggio di ammettere con se stesso che si sente soprattutto lontano da quel minimo di buonsenso che gli permetterebbe di mantenere un pur blando rispetto di sé. L’ha perso, come tutta la sua sicurezza e una quantità di dettagli importanti. Ora tutto gli sembra per l’ennesima volta fuori fuoco. Si sente fuori fuoco. Non è nulla che suoni rassicurante.
Sakura dorme in una brutta stanza di quei brutti blocchi che affittano solo agli studenti, agli squattrinati e ai pochi di passaggio. Pensandoci bene potrebbe rientrare in tutte e tre le categorie, come potrebbe dire di se stesso. Se sapesse cosa sta combinando, sua madre morirebbe di crepacuore e suo padre non si limiterebbe a tagliargli i capelli. I Takarai ascoltano i Beatles, non i Culture Club e gli sembra che questa sarebbe una grandiosa battuta, se solo non fosse ridotto in condizioni merdosissime e schiacciato contro la parete invalicabile di un vicolo cieco. Sembra che i muri siano nel suo karma e crescano dal suolo come avrebbe piuttosto bisogno di una via d’uscita. E ogni volta allunga musate indimenticabili.
Sakura apre la porta, mentre il vicino del blocco esce con l’aria losca di chi non ha di che pagare e allora taglia la corda. Dall’occhiata che gli rifila penserà senz’altro che Yacchan è un gran figo ed è bellina la troietta che si è rimediato per la notte.
haido vorrebbe avere il fiato per mandarlo affanculo, ma è già tanto se respira ancora.
Sakurazawa fa il padrone di casa, accende la stufa e il kotatsu. haido pensa che se non si sdraia entro il prossimo minuto lo farà per sempre, perché morirà. “È un po’ fredda, ma è piccola. Si scalda in fretta. Se vuoi, c’è anche il bagno,” dice rassicurante.
E lo sarebbe davvero, se solo haido non fosse un ragazzo di ventiquattro anni che comprende benissimo cosa passa per la testa di un coetaneo quando si porta una ragazza in camera. È talmente naturale, fisiologico e quasi rassicurante, che se non l’avesse fatto, a dirla tutta, si sarebbe sentito ancora più miserevole e brutto. Ma la situazione non cambia di molto. Quella situazione, poi, non può cambiare in meglio.
“Ehi, non fare quell’espressione così sconsolata. Domani ci parlo io con i tuoi. Gli dico che…”
haido prende fiato, prende coraggio e realizza che tanto vale usare la strategia di quella volta: chiudere gli occhi e non pensare a niente. Spera solo di non svegliarsi nelle stesse condizioni, perché al solo pensiero il gomito gli fa ancora male.
“Sakura… I miei ci sono abituati,” scandisce con una certa freddezza. L’altro lo fissa tra lo scandalizzato e il perplesso. E non è neppure vicino alla verità.
“Quanti anni pensi che abbia?”
Sakura si arruffa i capelli e di sicuro prova a inventarsi un’età fittizia, ma che non l’offenda troppo.
“Diciannove?”
haido ride divertito a labbra strette, come fa sempre da che una ragazza gli ha detto che i suoi denti sono brutti. C’è rimasto così male che l’ha lasciata, però qualcosa è rimasto nelle sue abitudini.
“E sia. Lo sapevo…Sedici?”
haido pensa che non è poi così divertente, ma tutto sembra talmente assurdo che a questo punto Sakura gli fa quasi pena. Solo che il pensiero Tetsuya ne esca come una specie di genio del male è persino più comico.
“D’accordo. Fai ancora le medie. Ecco perché non hai per niente seno.”
haido si sente sempre più stanco, sempre più ridicolo e sempre meno coinvolto, per questo abbandona il kotatsu, per quanto a malincuore, si alza e si avvicina a Sakura. Senza i tacchi, la distanza tra loro è una sproporzione quasi grottesca. haido piega le punte, finché non sfiora di nuovo le labbra di Yasunori.
“Il ventinove gennaio compio ventiquattro anni. Ventiquattro,” scandisce con un sorriso malizioso. “… E non ho seno perché sono un uomo. Vuoi controllare?”

 
“Tu sei il tipo che non si ferma proprio davanti a niente, vero?”
“Dipende. Ma fondamentalmente sì. Sono un tipo che non si ferma davanti a niente.”
“Va bene.”
“Cosa?”
“Forza, prenditi il futon. A me il sonno è passato.”
“Grazie…”
“…”
“… Senti…”
“Ventiquattro anni… E sei un maschio, eh?”
“Già.”
“Non so chi sia il diavolo con cui hai stretto il patto, ma era bravo per davvero…”
“…”
“Faremo soldi a palate, Hideto… Faremo davvero soldi a palate.”

 
Tetsuya non poteva fare ameno di ansimare e correre e pensare che quella fosse in assoluto la notte più lunga della sua vita. Il fatto, per contro, Ken gli stesse piuttosto dietro a ridere ridere e dire fosse invece la più divertente e la più assurda, gli faceva quasi montare la voglia prepotente di togliersi una zeppa e rompergli la testa. Poi si ritrovava a riflettere sul fatto ne avesse già uno sulla coscienza e per i suoi ventiquattro anni cominciava davvero a essere troppo.
Sakura aveva preso una camera in un blocco periferico, squallido e sottilmente sinistro. Il posto ideale, insomma, per violentare quella troietta di haido e magari buttarne il corpo in un rigagnolo. Non sapeva dire perché, ma in occasioni come quelle gli tornavano in mente solo un mucchio di brutti manga e mai una pillola di buonsenso ottimista.
Ken, per contro, era di un’ironia sempre più fuori luogo.
“Magari si sono piaciuti lo stesso, no? Magari avrà pensato che Hideto non ha nemmeno quella settimana al mese di…”
“Magari inghiotti la lingua e muori, eh?” aveva replicato acido, tentando di trovare nel suo repertorio una scusa valida, una trovata retorica, un misero appiglio per giustificare quella specie di invasione di campo ch’era poi soprattutto una colonizzazione emotiva non autorizzata e pure squallida, a ben vedere. Poi aveva sollevato lo sguardo e si era visto osservato da centosettantacinque centimetri di batterista di Tokyo. Non sapeva se sentirsi sollevato dal fatto avesse in mano una sigaretta e non una carabina, oppure cominciare a deglutire e chiedergli dove avesse nascosto il corpo.
Ken, ovviamente, stava ridendo con ampio anticipo su qualunque battuta – forse l’avrebbe fatto persino su una di caccia. Dove trovasse tutto quel senso dell’umorismo era un mistero insondabile e pure urticante.
“Senti, Sakurakawa…”
Yasunori si era sporto dalla balaustra, ciccando nel vuoto. “Ogawa? Sei uno stronzo.”
“Io…”
“Un truffatore…”
“…”
“… E un deficiente. Se Hideto perde la voce, ti riterrò personalmente responsabile.”
“Tu…”
“… Racconta in giro che ci sono caduto, e col cazzo che vi porto a Tokyo.”
“…”
“Avevi ragione tu. I L’Arc~en~ciel conquisteranno il Giappone.”

Tetsuya non l’aveva abbracciato solo perché si sentiva ancora sotto tiro e perché i fumatori gli facevano schifo. Kitamura gli aveva invece dato il cinque all’americana, prima di promettergli la cosa più scontata del mondo: donne. Vere, questa volta.
“Non saranno carine come lui, ma pazienza…” aveva aggiunto in tutta onestà. Sakura aveva riso, ma con l’espressione di chi era d’accordo.
Hideto era un groviglio di capelli e lenzuola in un brutto futon. Era così piccolo e carino e indifeso e malato che Tetsuya si era domandato per l’ennesima volta se non lo facesse apposta a farsi amare e odiare al tempo stesso. Poi, nel sonno, l’aveva sentito mormorare un ‘Tetchan, posso venire da te?’ che aveva azzerato tutte le sue difese. Come sempre, in fondo. E come immaginava potesse accadere fino alla fine del tempo, perché haido era haido.
E andava bene così.

Tetsuya Ogawa osserva la luce debole e pallida con cui il sole sorge all’orizzonte in questa fredda alba di gennaio. Meccanicamente sposta la mano contro i capelli di haido, che dorme tranquillo sulle sue spalle, per controllare che sia ben coperto e non prenda ancora freddo. Ken, di quando in quando, smette di fumare quelle sue odiose sigarette per lanciargli una battutina che sa sempre di shounen-ai di terza categoria, ma a ben vedere gli risponde male più per abitudine che per voglia.
Tetsuya guarda quell’alba dai colori così vividi e pensa che forse haido troverebbe le parole giuste per descrivere come si sente in questo momento e come si sentiranno tutti quando vedranno insieme, a Tokyo, quel sole prepotente che finalmente li illumina come avevano sempre sognato.
Tetsuya quasi non ci crede. Fino a un pugno di ore fa pensava fosse tutto finito, invece tutto deve ancora cominciare, e allora pensa anche che bisognerà trovare un modo per festeggiare in modo degno. Un modo per rendere tutti felici. Per haido preparerà una tinozza di riso al curry, come minimo. A quegli altri due, magari…
“Sia chiaro: non le tue sorelle, Tetchan!”
“Vaffanculo, Ken!”
Eppure Tetsuya ride e si sente felice e pensa che è così che deve essere. È così che la vita va vissuta e smette di fare paura, ma è così solo perché ha trovato la risposta giusta, quando quella domanda è arrivata.
Are you ready?
Già, Tetsuya era pronto ad aprire le ali.

   
 
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