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Autore: Globulo Rosso    05/12/2010    5 recensioni
L’illusa. L’infame. La perdente. L’omosessuale.
Quattro storie di ragazzi che non hanno avuto nulla dalla vita, ma che a forza di provarci ce l’hanno fatta.
[Happy B-Day Lù! E perdona il ritardone ;D]
{Partecipa al The One Hundred Prompt Project di BalckIceCrystal e alla Love Challenge-Do you Love me? di Mayumi_san}
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Hinata Hyuuga, Sabaku no Gaara , Sakura Haruno, Shikamaru Nara
Note: AU, Lime, Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Love Challenge e The One Hundred Propt Project!' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Premessa: in questo capitolo parlerò di gravidanze indesiderate. Vorrei che consideraste ciò che è scritto non come mio pensiero personale, ma pensieri dei protagonisti, dovuti alle loro esperienze. Vi prego di rendervi conto che sono i personaggi che parlano per via delle circostanze vissute, e non l’autrice. Ve lo direi volentieri e non mi farei rimorsi, in caso contrario. Non sono tipo da nascondere al mondo ciò che penso, perché ho il diritto di farlo. Ad ogni modo, buona lettura, e grazie mille a tutti i lettori e commentatori. Grazie grazie grazie! Mi avete reso felice. Spero che questa shot sia di vostro gradimento e sia abbastanza per le vostre aspettative. Che poi ve ne siate create leggendo questa raccolta, sarebbe un onore. Ok, basta. Smetto qui. Vi lascio con la perdente, che piuttosto di soffrire, evita di vivere.

Ricordo ancora :La fan art non mi appartiene, ma è stata trovata sul web. Non intendo avvalermi della maternità di essa.

The fan art was founded on web. It’s not mine, i don’t own it.

 

 

Prompt #8, Luce; The One Hundred Prompt Project, di BlackIceCrystal
The One Hundred Prompt Project

 

 

Partecipa alla Love Challenge di Mayumi_San- “Do You love me?”

 

 

 

 

 

Bel nome, Jeremy.

 

 

{La perdente; Hinata Hyuuga}

 

 

“Sei a terra?

Meglio, è da distesi che si vede il cielo.”

 

 

 

 

A chi non é capitato, di cadere?

Battere il mento sul pavimento o sul selciato, sbucciarsi le ginocchia, puntare i palmi delle mani in avanti, così da proteggersi il viso. Sarà successo anche a voi.

Quando cadi digrigni i denti dal dolore, o imprechi, oppure in certi casi ti lagni con il mondo, ma ti alzi.

Dopo pochi secondi, dopo un eternità, ma ti alzi.

Disinfetti la ferita e pace. Fine della storia. Al massimo ci metti un cerotto sopra, o nel peggiore dei casi ti fai dare qualche punto, ma la storia termina così.

Caduta e ripresa.

La vita funziona un po’ allo stesso modo.

Caduta e ripresa.

Succede che alcuni individui, però, non riescano a staccare le membra da terra, e rimangano bloccati con la schiena stesa sulla strada fredda.

Li chiamano perdenti, quando invece sono solo deboli. Deboli perché da soli non riescono a spuntarla, perché la vita li ha segnati e loro, perdenti, si ritrovano schiacciati al muro, gli occhi guizzanti da una parte all’altra, in preda al terrore.

Meglio rimanere nella merda, piuttosto di continuare a rialzarsi per poi ricaderci dentro.

Per loro non ha senso tentare. Una volta basta e avanza. Hanno provato e hanno fallito. Non gli piace più il gioco della vita.

Non lo concepiscono: secondo i perdenti esso è controproducente, perché bene o male non la spunteranno mai. Peccato che l’hanno creato loro, quel gioco.

E’ uno spreco fermarsi alla prima mano, non credete?

A Poker si può avere sfiga una volta, due, tre. Prima o poi la ruota gira, e un bel full di Jack non te lo toglie nessuno. Però devi giocare, è ovvio.

Provate a convincerli voi, i perdenti, a riprendere le carte e tentare la sorte.

Hinata non lo farebbe mai. Non vuole rischiare altro dolore, altre sofferenze, altra compassione. Sente quella sensazione d’impotenza bruciarle il petto e narcotizzarle la mente. Un lexolan naturale da cui non riesce a staccarsi.

Preferisce l’inerzia della sconfitta, lei. E’ caduta e non si rialza. Non si è più ripresa.

Non ne vuole sapere. La polvere del pavimento è più facile da sopportare di tutti i problemi che la vita le sta mettendo davanti.

Perciò, lucida meticolosa i tasti d’avorio con un panno umido, senza rendersi conto dei sospiri che emette. D’altronde, nessuno pare accorgersi di lei, e per Hinata è molto meglio così.

Quel pianoforte é estremamente costoso. Tutti ci passano accanto e lo sfiorano con lo sguardo, guardandolo con interesse, con meraviglia, con passione. Nessuno lo compra, però. La sua bellezza, il suo valore, viene oscurato dall’apparenza dei soldi. E’ una vera condanna. Se fosse per Hinata, commessa del negozietto sulla terza strada, quel piano avrebbe trovato già un padrone. Lei lo affiderebbe alle cure di una persona sensibile e meticolosa, ma l’umanità scarseggia di individui simili. O si è sensibili, o si è meticolosi. Entrambe le cose é estremamente raro.

Lavora lì da circa tre anni. E’ sempre stato il suo sogno, la musica.

Fare l’artista. Cantare, suonare, vivere attraverso l’eteree emozioni che solo le note sanno dare. Per lei musica non significa ribalta. Lo spettacolo e i riflettori sono l’ultimo dei suoi progetti. Vuole semplicemente vivere, quasi volesse essere uno spartito lei stessa.

Nel cassetto, accanto ai calzini a pois blu, nasconde il suo più intimo desiderio. Comporre una melodia da zero, che faccia parte di lei e che esprima una parte di lei.

Una Hinata versione danzabile.

Sorride, riponendo la salvietta bagnata nel cassetto e tornando a fare un giro per il negozio. Si dirige dritta dritta verso gli strumenti ad arco.

Si sofferma sempre su uno in particolare, Jeremy, così lo chiama. Un violino panciuto e dal legno chiaro, con sfumature ambrate e lacca uniforme.

Lo ama, quasi quanto quel pianoforte. Verso sera, quando suo padre se ne è andato e i clienti non arrivano più, lei si siede sullo sgabello e se lo rigira tra le mani, tremante.

Ma lo fa solo in quel breve lasso di tempo, quando gli occhi del papà non la possono giudicare, severi.

Sembrano solcare la sua anima in cerca di crepe, e dopo averle trovate, martellare fino a che il muro d’equilibrio di Hinata non crolli sotto il suo stesso peso. Ha paura, di lui.

Lo teme.

Nessun figlio dovrebbe temere il proprio padre. Nessuno.

Eppure lei deglutisce e abbassa il capo, in segno di rispetto. Quale rispetto poi? Lei non ne prova.

Da quando è rimasta incinta niente è più lo stesso. Non vuole trovare una giustificazione, Hinata. E’ solo colpa sua. E’ lei la colpevole di tutto.
Si é lasciata andare alle illusioni, si è lasciata cadere tra le sue braccia. E’ rimasta fregata.

Quel bastardo è sparito appena saputo che Hinata aspettava un bebè. Eppure a ventisei anni si suppone che l’uomo sia abbastanza maturo per prendersi le proprie responsabilità.

La Hyuuga sospira, passandosi la mano sul ventre rigonfio. Pochi mesi e darà al mondo il bambino di uno sconosciuto.

Non si ricorda nemmeno come si chiamava. L’ha completamente rimosso. Il giorno prima ha bagnato il cuscino di lacrime, invocando il suo nome, chiedendo che tornasse e l’amasse come faceva sempre. La mattina seguente si è alzata con un mal di campo intermittente.

Ricordava il suo volto, ma non il suo nome.

Quel giorno Hinata confessò tutto a suo padre, e inciampando sui suoi errori, decise di non rialzarsi più.

Sospira, riponendo nella sua custodia il prezioso strumento. Non l’ha mai suonato. L’ha solo toccato, respirato, vissuto attraverso le note suonate e composte da altri. Non è mai stato suo, Jeremy. Di fatto nulla è stato suo, nemmeno la sua personale esistenza.

Quella l’ha perduta nel momento stesso in cui si abbandonata alle lacrime. Si è rassegnata e ha smesso di scalciare, esasperata.

Annaspare, rilassarsi, annegare.

“E’ magnifico.” Quella voce di ragazzo la fa sobbalzare. Si volta appena alla sua destra, i capelli corvini ondeggiano con il capo, lentamente. Le reazioni di Hinata sono sempre state pacate e delicate, e persino i suoi movimenti seguono l’onda della sua anima.

Sembra una curva, che dolcemente, tende all’infinito.

“S-Sì. E’ magnifico.” Annuisce, vigorosamente, e le sue guance s’imporporano immediatamente. E’ fatta così, lei. Non riesce a non dubitare di sé stessa. Si tocca la pancia, d’impulso.

Appoggia la mano sul ventre e l’accarezza, voltandosi poi a guardarlo.

“Scusa, avrei dovuto farmi notare, ma sono rimasto ad osservarti…Sai, sembravi così presa.” Il ragazzo fa un passo indietro, sorridente. Gesticola in fretta e furia, portandosi una mano ai capelli, grattandosi la nuca in segno di mortificazione.

Sembra molto aperto, solare, deciso.

A quell’analisi repentina Hinata sospira e guarda il pavimento lucido del negozio.

Lei non é così, cazzo. Perché lei non può essere come lui?

“Non si preoccupi. Mi scusi per la mancanza, io…” Il ragazzo la interrompe, prendendo una bella boccata d’aria.

“Scusare? Te? Ma scherzi!? Ti chiedo scusa io per averti…” apre la bocca, sta per terminare la frase. No, non vuole dirlo. Scrolla la testa e continua, cambiando discorso.

“Non darmi del lei, per favore. Abbiamo la stessa età.” E’ vero. I tratti di lui paiono freschi, giovanili, molto simili ai suoi. Hinata annuisce, sorridendo leggermente. E’ ancora paonazza, ma non riesce a non porsi domande.

Cosa voleva dire? Ha ventiquattro anni? Chi é? Mi conosce? Come si chiama?

“Sono maleducato, in effetti.” Porge la mano ad Hinata, sorridendo. “Mi chiamo Kiba. Kiba Inuzuka. Piacere mio.” Si rende conto di aver scorto solo brevemente i suoi lineamenti, ma di non aver ancora osservato i suoi occhi. Quando alza il capo quei pozzi nocciola sembrano mandarle un segnale, qualcosa che si avvicina molto ad una scossa. No, non siamo banali.

Non è romanticheria gratuita e nemmeno un colpo di fulmine.

Hinata non crede più a queste sciocchezzuole. Ci credeva, è vero, ma ha smesso da quando ha scoperto di portare in grembo un bambino che, è brutto dirlo, non vuole affatto.

Kiba non sembra vedere la sua pancia, comunque. Continua a guardarla negli occhi e inclina il capo, sorridendo.

Cerca in tutti i modi di farla parlare, ma più che lievi cenni o mormorii incomprensibili non riesce ad ottenere.

Non gli interessa scavare, non gli interessa sapere. Gli interessa vederla.

“Perché non lo suoni?” Indica il violino, ormai riposto nella sua custodia scura, che troneggia sopra un piedistallo, sopra tutti gli altri strumenti ad arco.

Lei si fa ancora più rossa, si stringe nelle spalle, vuole caderci dentro.

“Io?”

“Sì, tu.” Afferma, incrociando le braccia. Hinata non se la sente. Non l’ha mai suonato e non crede di farlo. Jeremy è stato di suo padre, e sarà di sua sorella. Non sarà suo. Lei non è nessuno, o forse è semplicemente una perdente incinta di uno sconosciuto.

Non ha voce, mai ne avrà. Dramma poco originale, vero?

Uno crede di essere pronto a certe cose. Di essere pronto a diventare genitore quando Dio gli manda quella creatura da accudire, e che quando i genitori lo sapranno riuscirà a sostenere una vita senza di loro.

Balle, cazzate. Bugie. Tutte bugie. I film non fanno cultura, e nemmeno esperienza. Hinata sospira, facendo un passo indietro. Un metro sembra tanto, per una persona normale. Un metro da un ragazzo bello, solare, e decisamente genuino. Per lei, invece, quel metro che lo separa da lui non è che un centimetro, vale meno di niente.

Perché chi vuoi che si avvicini ad un perdente, Hinata? Quelle parole sembrano rimbombare dolorose nel cranio. Le parole del padre dette con disprezzo, rabbia, furore.

Si morde un labbro, indecisa.

“Io non sono brava…” Kiba ride, di gusto. Si porta addirittura la mano allo stomaco, dopo che gli spasmi d’ilarità l’hanno catturato. La ragazza sgrana gli occhi, sorpresa. Forse ride di lei.

Sì, probabilmente ride di lei. Deglutisce, imperterrita. Sai che novità.

“Non mi prendere in giro, so benissimo che suoni fantasticamente. Cioè, ti ho sentito.” Afferma, leggermente titubante. Di nuovo si porta il braccio dietro la schiena. Sembra lo faccia ogni volta che é esitante.
Sceglie le parole, i movimenti, gli atteggiamenti, Kiba, in modo che lei non ne risulti spaventata. Che la conosca? Che sappia che Hinata teme il mondo? No.

Probabilmente nessuno conosce questo suo aspetto. Ed è anche sbagliato, tra l’altro. Lei non teme il mondo, lei teme di non riuscire più a rialzarsi, la prossima volta che esso gli farà lo sgambetto. Quindi rimane per terra e aspetta da laggiù.

Comodo, non vi pare?

“Come lo sai?” Gli chiede, portandosi le mani al grembo.

Quel rapporto inizia così, con dei gesti. Minuscoli dettagli che sfuggono alle persone distratte. Quelle mani giunte, quel rossore sulle gote, non è che sintomo di vanità per molti, se non per tutti.

Le lusinghe, direbbero, fanno bene all’ego. Ma Kiba non sta facendo alcun complimento, e Hinata non ne riceve alcuno. Un vantaggio, sì, forse c’è.

Kiba l’ha svegliata.

“Io abito qui vicino. Proprio dietro al negozio. Quando scendo per andare a lavoro ti sento suonare. Sei tu che apri alle 8.00, vero?” Sì, sì è lei. Annuisce, aggiustandosi la camicia. Tutti gesti involontari, servono a farla stare eretta, a resistere a quel ‘contatto’ prolungato.

“Bè, allora sei una bugiarda. Suoni da dio. Però sento sempre il pianoforte.” Afferma, scrollando le spalle. Si volta e si dirige verso quello strumento lucidato, a grandi falcate. Pochi passi e lo raggiunge. Scorre un dito sui tasti, contemplando.

Hinata socchiude i suoi, non trattiene un sorriso. Sembra che lui la capisca.

E’ strano vedere che il mondo a volte, dopo averti tolto tutto, ti regali qualcosa. Magari prova pena  per i suoi inquilini. Inquilini, sì. Hinata crede di essere un’inquilina in quella terra, non un padrone. Lei non oserebbe mai ardire a tale ruolo. Lei, che se lo merita tanto e che ne avrebbe il diritto.

Dopotutto Hinata non l’ha voluto, quel bambino. Hinata non vuole soffrire di voglie, non vuole le smagliature, non vuole i crampi allo stomaco.

Merda, Hinata non vuole quel bambino.

“Mi accompagni?”

“D-dove?”

“Come dove?” ridacchia, poggiandosi sulla seggiola, “al pianoforte, no?” Fa cenno di avvicinarsi. In pochi attimi aveva già sistemato un'altra sedia accanto alla sua, in modo che fossero belli larghi.

“Ti va di suonare Inno alla Gioia? Tanto per testare come siamo messi. Per vedere se insieme andiamo bene.” Aggiunge, sorridendo. Hinata gli si siede affianco, insicura.

Sfiora la sua mano e la ritrae, paonazza. Kiba sembra non essersene reso conto, e poggia le sue sull’ottava di mezzo.

Si concentra, conta, inizia.

Mi mi fa sol sol…

Si ferma, notando che lei non ha nemmeno iniziato.

“Bé? So che ne sei capace, su. Accompagna la mia melodia.” Lei deglutisce, gli occhi lucidi. Vuole dirgli che gli piace vederlo suonare, vorrebbe osservarlo. Non lo fa, poggia le mani e inizia gli accordi. Lui sorride e la insegue, mettendosi in pari.

Fa mi re do do re mi re do do…

E suonano fino all’ora di chiusura. Hinata non si è mai sentita tanto importante.

 

“Vai via. Non voglio vederti.” Richiude la porta seccamente, senza che però la sua espressione di disgusto scappi ad Hinata. Suo padre non sopporta la vista di sua figlia conciata in quello stato.

La detesta. La visione di una Hyuuga abbandonata e privata della sua dignità.

Una gazzella in una famiglia di leoni.

Una perdente tra i vincenti. Di fatto la sua stirpe è rinomata e importante. Non nasconderemo lo scalpore di una tale notizia nella società attorno alla famiglia. Sciacalli che non aspettavano altro che un passo falso da parte di uno di loro.

Vendono meraviglia, gli Hyuuga. Vendono emozioni. La musica è vita, purezza, sogno.

Per questo sono stati sempre invidiati, perché l’arte va oltre qualsiasi lavoro manuale, qualsiasi retorica o arnese.

Dopotutto, un lavoro che rende l’uomo la sua essenza vale molto di più di molti altri beni terreni. Perciò, quando gli avvoltoi hanno intravisto un barlume d’instabilità, ci si sono fiondati come lupi.

Questo soffre, suo padre. La perdita di reputazione.

Hinata sa di esserne la colpevole. Lei che ha provato a credere in qualcosa, ma che ne è uscita sconfitta.

Stupida, stupida Hinata.

“Papà…”

“Lascia perdere. Sai benissimo che ti detesterà fino a quando non darai via il bambino.” Hanabi la guarda dall’alto in basso, nonostante sia la minore e sia anche più bassa di lei. In tutte le sfaccettature, dunque.

Un altro colpo da subire. Probabilmente isolati, tali insulti, possono essere narcotizzati. Sono umiliazioni leggere, abitudinarie, possono essere contrastate. Ma giorni e giorni fanno di quelle briciole un intero macigno. Un po’ come continuare ad infilare il dito nella ferita, appena essa è riuscita a cicatrizzare. La riapri, troppo debole per poter resistere ancora.

Hinata trattiene le lacrime mordendosi il labbro. Annuisce, e lascia che lei se ne vada, sparendo dal corridoio.

“A-andrò al negozio, papà.” Sussurra, ancora di fronte alla porta. Ci andrà perché potrà piangere senza che nessuno la veda. Si siederà a fianco a Jeremy e lascerà che la polvere la sotterri di qualche altro centimetro. Tanto nessuno le farà caso.

E’ una perdente, almeno questo ruolo le lascia un po’ di silenzio attorno a sé.

Forse è l’unico vantaggio che una tale filosofia le renda. Peccato che lei, in fondo, ami il rumore.

 

“Ciao Hinata!” Kiba entra dal negozio facendo tintinnare il campanello della porta. Hinata sobbalza, rischiando quasi di far cadere il panno che ha tra le mani. Questa volta tocca all’ottone degli strumenti a fiato. Un oboe viene riposto con molta fatica sul suo scaffale.

“Ciao Kiba…” dice, tornando dietro al bancone, sempre rossa in viso.

“Ho finito di lavorare, ti va di suonare?”

“Io, bé, io non posso farti usare il piano senza che tu lo compra…” dice, sentendosi in imbarazzo. 

Se fosse per Hinata, commessa del negozietto sulla terza strada, quel piano avrebbe trovato già un padrone.

“Ah, davvero? Ma ieri io e te suonavamo benissimo.” Dice, un po’ mortificato. Il sorriso di lui scompare per qualche secondo, per poi tornare più vivo di prima.

“Allora lo compro, Hinata. Ora.”

Lei lo affiderebbe alle cure di una persona sensibile e meticolosa.

Hinata si cruccia, esitante. Costa tanto, quel pianoforte. E’ molto prezioso.

“Ma è caro. Molto…”

“E chi se ne frega?” dice, prendendo un libretto degli assegni e poggiando una penna sulla carta. L’ha appena sfilato dal porta penne che è appoggiato al bancone.

“Quanto fa?” alza gli occhi, ridendo. Hinata non capisce. Perché lo fa? E’ un investimento importante, lungo, che frutterà relativamente poco.

“P-perché lo compri?” si azzarda a chiederne persino il motivo. Non sa perché lo fa, dovrebbe essere solo contenta di far guadagnare soldi alla famiglia. Fin’ora ha sempre pensato che portare a casa più soldi che poteva avrebbe significato la sua reintegrazione nella nucleo famigliare.

Ma i soldi non sembrano bastare mai.

“Perché voglio suonare con te. Adesso.” Alza le spalle, naturale.

Forse è per questo motivo che gliel’ha chiesto. Perché voleva sentirsi dire quelle parole.

Inizia a vedere una luce, nel buio del suo baratro. Qualcuno ha acceso una fiaccola e vuole salvarla.

 

“Quanto manca, Hinata?” E’ la prima volta che glielo chiede. Si conoscono da due mesi e lui non ha mai accennato alla pancia di lei. Un po’ se lo aspettava. Prima o poi gliel’avrebbe domandato. Come fa a sopportare una creatura che nemmeno vuole?

“Un mese e quattro giorni.” Una creatura che non vuole, ma di cui si ricorda tutto. Dal primo battito, al primo calcio. La prima nausea, la prima fantasia.

“Bè, allora abbiamo ancora un po’ di tempo per suonare insieme, prima che tu mi abbandoni per dar peso a lui.” Hinata arrossisce. Non sa perché gli dice questo.

Di fatto non sa molte cose di lui. Sono due mesi che si conoscono e Kiba gli ha sempre parlato poco di lui, giusto l’essenziale.
Lei vuole sapere tutto, vuole conoscerlo a fondo. Essere parte della vita del ragazzo che ha risollevato la sua.

“Perché…” ci pensa un attimo, esitante. Non dovrebbe parlare. Non ne ha il diritto. “…perché vuoi suonare con me?” Solo con me? Quel ‘solo’ lo omette, sarebbe troppo intimo. 

Kiba ridacchia, risvoltandosi le maniche della camicia a quadrettoni che porta. I muscoli tesi e le labbra tirate, poi, in un sorriso ironico.

“Con due cervelli una persona non dovrebbe essere più intelligente?” chiede, accennando con il capo al ventre della ragazza. Lei abbassa la testa, i capelli che le fanno da scudo.

Forse ha detto qualcosa di sbagliato.

Qualcosa che non andava assolutamente insinuato. Ha una ragazza, sì. Certo, lui ha una ragazza. E lui è un giovane molto curioso appassionato di musica.

Tutto qui.

“Se suoni Jeremy giuro che te lo dico.” Afferma, mettendosi le mani nelle tasche dei jeans sdruciti.

 

“Come si chiama, quel violino?”

“In che senso, scusa, non ho capito…”

“Come si chiama. So che ti piace dare nomi agli strumenti che ami di più. Me l’hai detto tu, no?”

Hinata sorrise, riponendo il prezioso arco nel suo cofanetto nero.

“Lui…” oh, che cosa stupida. “Lui…”

“Non è stupido, secondo me. Anche io lo farei.” Sgrana un po’ gli occhi, Hinata, prima di rispondergli. Lascia cadere mollemente le mani lungo i fianchi, i capelli si spostano da destra a sinistra seguendo il movimento del suo busto.

“Jeremy.” Sente la mano di lui sfiorarle appena una spalla, per poi ritrarsi, improvvisamente.

“Bel nome, Jeremy.” In quel momento la luce si era fatta più forte. Intensa come non mai. E pensare che non era nemmeno servito un gesto vero e proprio, ma semplicemente un abbozzo di esso, per farle tornare la speranza.

 

“Non credo di farcela…” di nuovo, tremante, si porta le mani al seno. No, dio, lei non può farlo.

Suo padre, sua sorella…la sua famiglia. Quella fottuta vita si regge in piedi su pochi cardini cigolanti, ma che sembrano essere l’unica via per sostenere quelle continue prove.

Non può farcela. No, cazzo, lei non ne è assolutamente capace.

“E allora non saprai mai quello che volevo dirti.” Afferma, allargando le braccia e alzando le spalle. E’ bello, diamine, maledettamente bello. Con quei capelli arruffati, quegli occhi scuri, quel sorriso salvatore.

Ehi, ehi, ehi. Hinata, non ti eri ripromessa di evitare? Non puoi farlo, rischi di ricadere e farti ancora più male.

“O-ok.” Annuisce vigorosamente, e senza pensarci, riprende il violino dalla custodia e lo poggia al mento. Il crine dell’archetto è setoso, rigido quanto basta per renderla sicura.

Kiba le si pone davanti, in attesa. Sembra aspettare solo che lei inizi a suonare, così da chiudere gli occhi e udire, vivere, una parte dell’anima di lei.

La melodia comincia lenta, strascicata, quasi sofferente. La ragazza socchiude le palpebre, si lascia andare. Questo è il rapporto che ha con la sua esistenza?

E’ dolore? Il crine sfrega più deciso e intenso. Sembra acquistare energia ad ogni accordo. Rapido, una toccata e cambia ancora.

Non è solo dolore. E’ cambiato, sì. Il suo approccio alla vita. Grazie a lui e alle loro sonate insieme.

Si fa di nuovo lento, ma dolce. Come se i suoi pensieri contaminassero Jeremy e da esso ne esca un tripudio di ricordi e sensazioni.

Vendono meraviglia, gli Hyuuga. Vendono emozioni. La musica è vita, purezza, sogno.

Una lacrima gli riga la guancia, e la mano di Kiba interrompe la sua sonata. Sente le labbra di lui poggiarsi sulle sue, leggere.

Un bacio casto, nulla di più. Poi qualcosa di più vero. Concreto, reale.

Le mani di lui le tolgono Jeremy dalla sua stretta, brancolanti. Nella passione fanno fatica a trovare gli oggetti che cercano.

Lei si limita ad assaporare quella botta di esistenza.

Kiba si azzarda addirittura a prenderla per la vita e avvicinarla più che può, il bambino in mezzo a loro e un bacio che sa di speranza.

Si stacca, ansimante. Gli occhi lucidi di lei lo supplicano di riavere quel contatto.

“E’ stato difficile Hinata, riprendersi la propria vita?”

 

Ogni tanto le scappa di chiamarlo angelo custode. Lui accenna un sorriso e scrolla le spalle.

Un’esistenza rimane semplice esistenza se non si agisce con caparbia.

No, la vita non è rosa e fiori. La vita rimane una merda, ma tra il letame è cresciuto un germoglio. Un passo alla volta, ragazzi, un passo alla volta. Non si può pretendere che dopo sconfitte cocenti l’animo umano reagisca agendo da vincitore.

Sarebbe una balla grande come una casa. Hinata é, e rimarrà sempre una perdente. Una perdente che però, in cuor suo, sa di aver speranze di vittoria.

Che dite? E’ un paradosso? Forse, può darsi.

Ha un bambino tra le braccia e una fede al dito. Suo padre e sua sorella la guardano con stizza e dispetto, ma l’odio sembra esserci leggermente attenuato. E’ sangue del loro sangue, vorrà pur significare qualcosa.

Ad ogni modo, la perdente ha capito che può risollevarsi dalle proprie delusioni tutte le volte che vuole, tanto qualcuno le manderà una fiaccola e le porgerà una mano per aiutarla ad alzarsi. Chiamatelo egoismo, chiamatelo opportunismo, fate come vi pare.

Io la chiamerei semplicemente giustizia.

“No, che angelo!” esclama Kiba, alzandosi dallo sgabello e dirigendosi verso la ragazza. “Gli angeli non possono innamorarsi degli umani. Sai che palle, non poterti baciare tutte le volte che voglio?”

Il bimbo emette un verso incomprensibile, tra le braccia della mamma.

Non lo voleva, certo, ma ormai c’é. Hinata non può far altro che tenerselo, chiunque lui sia.

Chiunque divenga. Se perdente, se vincitore.

Se illuso, se infame.

Se omosessuale, se etero.

Sarà quello che gli pare, non può far altro che adattarsi. Dopotutto e anche questo, quello a cui sono chiamati i veri campioni: adattarsi. In fin dei conti essi rimarranno vincitori in qualsiasi campo.

Alla faccia della perdente.

 

 

 

 

 

Cose da sapere/dedotte:

#1. Questa shot è solo speranza. Pura e volubile speranza. Forse la più intinta in essa, perché chi meglio di una persona che si è lasciata andare può sperare nell’essere raccolta da terra? Devo confessare che all’inizio questa storia doveva finire male, ma ho cambiato idea alla fine, proprio nell’ultimo paragrafo. Queste storie devono essere accumunate dal fatto che in qualsiasi caso, in qualsiasi modo, quattro persone completamente diverse l’uno dall’altra trovano la loro via per la felicità. A differenza di Shikamaru, o Sakura, i quali reagivano chi aggrappandosi alle illusioni chi chiudendosi nell’infamia, Hinata non ha difese, e perciò, rimane sdraiata sulla schiena, a fissare il mondo vivere senza di lei.

#2. La citazione a inizio storia è molto evocativa, e mi sembrava perfetta per questa shot – di Benigni, tra parentesi -. Inoltre ho scelto come canzone ‘L’inno alla Gioia’ di Beethoven, perché mi sembra una perfetta colonna sonora per questo capitolo. Le note citate sono davvero l’inizio della melodia della canzone. Lo so perché l’ho suonata migliaia di volte ;D

#3. Di nuovo, vorrei sottolineare il fatto che i pensieri sull’aborto non sono i pensieri dell’autrice, ma in queste circostanze ho provato ad immedesimarmi nella figura della ragazza, che si sente presa in giro e abbandonata. Sappiamo tutti quanto il padre di lei possa essere duro nei suoi confronti. Hinata coincide con la figura della perdente perché a forza di sentirselo dire si è convinta di esserlo. Non ha un padre per suo figlio, non ha abbastanza forza per riuscire a portare avanti la gravidanza da sola. Ha pianto per tutto e quel tutto l’ha sotterrata sempre più in basso. Non riesce più a muoversi, non vuole farlo.

Chi vorrebbe trovarsi nella sua situazione? Direte che è un dramma banale, bene. Lo sarà. Eppure è sempre penoso essere protagonisti o semplici spettatori di una situazione simile. Perché il mondo a volte ti pugnala in diversi modi, e non sai nemmeno quale capiterà a te. Speri che in quel momento, la fortuna, sia dalla tua parte.

#4. Come avrete capito, ogni personaggio ha la sua medicina, in questo caso Kiba. Immagino che non molti di voi abbiano apprezzato la coppia, ma che ci volete fare, io insieme li amo troppo. Davvero, davvero troppo. Sono perfetti uno per l’altro. E comunque, per Naruto ho altri progetti.
Ad ogni modo, vi svelo quello che voleva essere il progetto iniziale, e che ha mantenuto un po’ l’impostazione fino al termine della stesura. Kiba era un semplice angelo, un’apparizione fatta apposta per aiutarla a resistere, ad alzarsi e a scrollarsi di dosso tutta quella polvere che aveva accumulato rimanendo sdraiata per terra. Poi sarebbe scomparso, dopo essersi assicurato che lei ce l’aveva fatta. Ma lasciava troppo amaro in bocca per poter essere lasciato così, io che in questa raccolta mi prodigo per avere amore e tenerezza.

Ah, Jeremy, per chi non l’avesse compreso, è il violino. Il simbolo della vita di Hinata. Suonandolo ha prevaricato quei confini, e li ha sostituiti con i suoi personali.

“E’ stato difficile Hinata, riprendersi la propria vita?”

Ecco il senso di questa frase.

 

Benissimo, ci vediamo la prossima settimana con l’ultima shot. Sì, ragazzi, sta per terminare la tortura, non vi preoccupate. Spero che vi sia piaciuta e vi ringrazio per i commenti positivi, per le letture e per tutti i preferiti/ricordati/seguiti.

Mi fate felice ogni giorno di più. Come vi ho detto, tengo molto a questa raccolta. Non so perché, ma mi piace; Al prossimo e ultimo giro!
Glob °°

  
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