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Autore: miseichan    05/12/2010    9 recensioni
Storia classificatasi prima al contest: “Quando la morte ti chiama” indetto da Diana21
Halloween. Niente di nuovo in questo.
Daniele, tipico adolescente. Odio viscerale per la fisica, passione per le auto. Niente di nuovo.
Ogni storia ha però qualcosa di nuovo, se si presta attenzione.
Ogni storia ha le sue particolarità, le sue caratteristiche.
Perché i personaggi sono sempre diversi e hanno sempre qualcosa da raccontare.
Bisogna solo dar loro modo di esprimersi.
Lasciare che nella notte, Daniele, Sofia, Rossana… raccontino la loro storia.
Genere: Dark, Mistero, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Lacrime di cristallo'
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Rossana

 

 

Archimede. Il principio di Archimede.

“ Ogni corpo immerso in un fluido riceve una spinta verticale dal basso verso l'alto, uguale per intensità al peso del volume del fluido spostato.”

Daniele lesse la legge, poi la rilesse. Una volta, due volte, tre volte. Alla quinta volta sospirò. La fisica: principi, leggi, ipotesi e dimostrazioni. Archimede, Galilei, Bernulli… Niente. Proprio non gli andava.

A cosa serviva, in fin dei conti? Non gli importava dell’interrogazione, così come gli era indifferente il voto che avrebbe preso. Mordendosi il labbro inferiore lesse ancora il paragrafo, le palpebre che si facevano pesanti e il respiro che accelerava. Succedeva sempre così. Al tempo stesso montavano in lui il sonno ed il rimorso. Se da un lato sentiva il capo farsi ciondoloni e gli occhi che si chiudevano, dall’altro sentiva l’ansia salire, pervaderlo e prendere quasi il controllo di lui. Annaspava. Come sempre.

- Daniele? –

Non aveva sentito il leggero colpo alla porta. Sollevò di scatto la testa, lo sguardo improvvisamente attento e fermo sulle due figure che si stagliavano nella luce pallida del corridoio.

Daniele le fissò, lo sguardo appannato. Cleopatra ed una mummia. Lo guardavano entrambi, sorridenti.

- Ma come, non ti sei vestito?! – chiese la regina egizia, inarcando le sottili sopracciglia nere.

Il ragazzo non si degnò nemmeno di rispondere, sbuffando e dando invece loro le spalle. Strinse le dita sul dorso del libro e lo poggiò in grembo, sfogliandolo distrattamente.

- Devo finire fisica – mormorò, il tono incolore, sperando che la porta si chiudesse lasciandolo solo.

Invece del cigolio che si aspettava però, sentì dei passi e una risata nervosa.

- Fisica? Ci prendi in giro, figliolo? -

Daniele si voltò, gli occhi stretti e lo sguardo corrucciato. Perché erano lì? Perché non lo lasciavano in pace?

Fulminò il padre con lo sguardo, osservando con disprezzo le bende che flaccide gli nascondevano in parte il volto. La mummia tuttavia sorrideva, indifferente all’odio che le era stato riservato.

- Sì, fisica. Quella materia in cui prenderò nientemeno che un voto negativo se non mi lasciate studiare -

- Non puoi studiare domani? – chiese, innocente, la regina.

Daniele scosse la testa, agitando la mano con fare incoerente. Vedeva chiaramente lo scintillio divertito che animava gli occhi dei genitori, sapeva che mai prima di allora si era seduto con un qualsivoglia libro in grembo e ricordava perfettamente che giorno dell’anno era. Nonostante ciò voleva studiare.

Desiderava restare lì, nella sua camera, lontano dalla momentanea e generale follia.

Desiderava chiudere gli occhi e vedere il resto del mondo che lentamente scompariva, lasciandolo solo.

Desiderava ignorare, dimenticare, rimuovere per sempre tutto il resto.

- Non puoi studiare domani, Danny? -

La domanda era stata posta di nuovo, un accenno di sarcasmo nella voce.

Il ragazzo sollevò gli occhi, incontrando finalmente quelli della madre: la osservò avvicinarsi, leggiadra, la mano stretta in quella del marito. Daniele ne seguì i movimenti con attenzione: mentre con sicurezza prendeva posto sul suo letto, i lunghi capelli neri che ondeggiavano con lei.

- Sai benissimo quanto mi faccia piacere vederti con gli occhi su qualcosa che non sia uno schermo – stava dicendo, la voce pacata, quasi cantilenante – Stasera però non mi sembra il momento migliore -

Daniele la ascoltava e non la ascoltava. Pensava, piuttosto.

Rifletteva su cosa potesse aver combinato, su quale potesse essere il motivo per cui erano lì, nella sua stanza. Inarcò un sopracciglio, chiedendo tacitamente spiegazioni. La mummia sospirò, il sorriso sotto i baffi e lanciò un’occhiata allusiva alla moglie.

- Devi andare a fare dolcetto o scherzetto – affermò allora la regina, seria e sorridente.

Daniele in un primo momento pensò di aver capito male. Assottigliò lo sguardo, lasciando cadere il libro sul pavimento e stringendo le mani l’una nell’altra.

- Come? –

- Dolcetto o scherzetto – ribadì la mamma, uno sguardo altezzoso da far invidia a Cleopatra.

- Scherzate? – chiese Daniele, reclinando leggermente lo schienale della sedia – Cos’ è, una presa in giro?-

Non ottenendo risposta né alcun cenno di scuse da parte dei diretti interessati, continuò, infervorandosi:

- Ho diciotto anni, porco cane! Avrò il diritto almeno di decidere cosa fare e cosa non fare?! Dolcetto o scherzetto! Non ci penso proprio, fossi matto! Ma cosa vi salta per… -

- Otterresti punti per la macchina –

Cinque parole. Cinque semplici parole che riuscirono a fargli chiudere di scatto la bocca.

Daniele si era alzato in piedi senza nemmeno accorgersene: aveva preso a camminare per la stanza, le braccia che si agitavano per enfatizzare le sue parole. Non riusciva ad accettare quella loro improvvisa ed inaspettata imposizione. Non riusciva neanche a spiegarsela.

Eppure bastarono quelle parole a svuotargli la mente.

- Cosa? -

Un sussurro, solo un sussurro. Fievole, quasi inesistente.

Un alito di speranza uscito con riluttanza dalle sue labbra umide e tremanti.

- La macchina – ripeté, calmo, il padre.

Daniele gli si fermò di fronte, le braccia che lente tornavano ai lati del corpo ed un’espressione guardinga che gli colorava il volto. Il ragazzo strinse le labbra, gli occhi fissi in quelli della mummia.

- Gradirei delle spiegazioni – disse, ponderando le parole.

- Tu accompagnale e noi prendiamo in considerazione l’Audi –

Daniele spinse le mani nelle tasche dei jeans, il cervello che lavorava furiosamente.

- E’ un ricatto? – chiese, l’unica intenzione di prendere tempo.

- Vedila come una possibilità – rispose angelica la madre.

Daniele le sorrise di rimando, un sorriso tirato e distratto. Accompagnale e prendiamo in considerazione l’Audi, così aveva detto. Una serata a fare dolcetto o scherzetto e avrebbe potuto avere la macchina.

Gli occhi del ragazzo s’illuminarono automaticamente, il verde che diventava gradualmente sempre più brillante. Poche ore in mezzo a quella pazzia convulsiva valevano una macchina? Daniele si trattenne a stento dal saltare proprio lì, davanti a loro, certo che sì, certo che la valevano!

Non riusciva a crederci, avrebbe avuto la macchina!

- Ci sto – buttò lì, preda dell’euforia, il sorriso che s’ingrandiva illuminandogli il viso.

Cleopatra e la mummia si alzarono, sorridenti, guardando il giovane con malcelata soddisfazione.

- Sicuro? –

- Certo che sì – affermò Daniele, facendo per uscire dalla stanza. Aveva già messo un piede fuori dalla porta quando si bloccò di colpo, cercando di nuovo gli occhi del padre: - Non c’è qualcosa sotto, vero? –

- Nessun trucco – rispose la mummia, annuendo con il capo.

Daniele sorrise ancora, credendogli subito. – A più tardi! – gridò, scendendo le scale a due a due.

Arrivò al piano terra a tempo record: corse verso il salotto e venne accolto da due paia di occhi sorpresi.

Sorrideva, i pensieri ancora fissi su degli pneumatici indistruttibili, quando si accorse di loro. Le labbra persero l’inclinazione allegra alla stessa velocità con cui l’avevano assunta.

Daniele guardò le due ragazze vicine alla porta e capì di aver preso la situazione sottogamba.

Calimero e Trilli. Sei e sedici anni.

Le guardò, squadrandole con occhi critici. Prima la più piccola, avvolta nel costume nero, l’enorme massa di capelli rossi e ricci che lottavano per uscire dal cappuccio e gli occhioni neri che non smettevano di fissarlo. Quindi la più grande, vestita da fatina, i capelli lisci legati in una coda di cavallo e le forme messe in bella mostra, che lo fulminava con la mascella serrata.

Daniele guardò le sorelle, chiedendosi se avesse fatto la scelta più giusta.

Le guardò, ricordandosi che era il 31 di ottobre.

Le guardò, pensando a cosa andava in contro.

Daniele sospirò, immaginando i genitori che se la ridevano al piano di sopra. Lo avevano messo nel sacco.

Tanto di cappello.

- Pronte a fare dolcetto o scherzetto? –

*

 

- Questa! No, prima quella! No, no, cominciamo dall’altra strada! -

Daniele si passò una mano sugli occhi, un’imprecazione che ondeggiava perfida sulla punta della lingua e i piedi che si rifiutavano di spostarsi anche solo di un altro centimetro.

Non ce la faceva più.

Avevano percorso appena pochi metri dalla porta di casa e già non ce la faceva più.

Fu con diffidenza che riaprì gli occhi. Lentamente, preparandosi psicologicamente a ciò che avrebbe visto.

Lasciò correre lo sguardo sulle villette schierate ai lati della strada: addobbate, luminose, alcune spettrali altre festose. Guardò le innumerevoli zucche che punteggiavano la notte con i loro colori infiammati e le loro espressioni ridenti e ghignanti. Sentì le risate dei bambini, i trilli dei campanelli, la voce di Rossana.

Rossana, costumi, zucche, dolcetti, Rossana, lampioni, candele, bambini… Rossana.

- Daniele, forza! Andiamo! -

Si sentì tirare la manica della felpa, una vocetta acuta e squillante che gli perforava il timpano. Con calma abbassò lo sguardo, fissando le piccole dita che gli stringevano la maglia. Osservò la bambina che con un guscio in testa saltellava al suo fianco. Lo cercava di trascinare, guardandolo con fare supplichevole.

- Danieeeele! Ti muovi o no? – cantilenò ancora la bambina, una ciocca di capelli rossa stretta fra i denti.

Il ragazzo sorrise con un sorriso di convenienza e si piegò sui talloni, portando il viso all’altezza di quello della sorellina. Il tono pacato, le parlò con decisione:

- Rossana, non devi fare così – cominciò, lo sguardo serio al punto da far perdere la voce ed il sorriso alla piccola  – Non c’è bisogno di gridare né di tirare, stiamo andando, non vedi? -

- Ma che tatto, complimenti – commentò acida una voce alle sue spalle.

Daniele si rialzò, liberando il braccio dalla stretta della bambina e lanciando un’occhiata aspra a Trilli:

- Non ho urlato -

- Hai fatto di peggio – ribatté la ragazza, l’aria piccata, prima di poggiare una mano sulla schiena di Rossana e sospingerla verso un gruppo di bambini: - Perché non vai avanti? Noi arriviamo subito -

Daniele guardò la bimba che si allontanava, lo sguardo basso e ferito.

- Non intendevo sgridarla, Sofia – disse, sedendosi svogliatamente sul bordo del marciapiede. Lei scosse la testa, agitando la busta che teneva in mano. – No. Non va – mormorò, guardandolo dall’alto in basso.

Daniele fece per dire qualcosa ma lei non glielo permise, con la voce tremante di rabbia lo anticipò:

- Non puoi fare così! Non è tuo diritto, lo sai? Passi meno di un’ora al giorno con quella bambina: non puoi essere arrogante al punto da riprenderla, men che meno se io sono presente. - Si fermò un attimo solo per prendere fiato e poi continuò, il tono più basso – Ti vuole un mondo di bene. Senza ragione per quanto mi riguarda, ma è così. Non… non commettere l’errore di… Rossana è dolcissima, cerca di… -

Daniele si alzò in piedi, evitando lo sguardo della sorella e stringendosi nelle spalle.

- Dobbiamo passare una serata insieme, Sofia, vedi di non farne una tragedia -

- Sei un imbecille! – sbottò lei, spintonandolo con forza ed avviandosi a passo svelto verso il gruppo cui si era accodata Rossana. Li raggiunse, sorridente ed apparentemente spensierata.

Daniele la guardava da lontano, ancora fermo.

Le guardò entrambe mentre ridevano, chiedendosi quando fossero arrivati a quel punto: quando avesse smesso di parlare con le sorelle, quando Sofia avesse accumulato tutta quella rabbia nei suoi confronti e come fosse possibile che verso quel piccolo Calimero non sentisse altro che un fievole affetto.

Iniziò a passeggiare, tenendosi diversi metri dietro di loro, lontano dalla calca, indifferente ad ogni cosa.

- Tutto bene? -

Daniele sobbalzò sentendo quella voce del tutto inaspettata. Guardò il bambino alla sua destra e inghiottì a vuoto, ancora scosso per lo spavento preso. Piccolo, sui dieci anni al massimo, il ragazzino gli camminava affianco, fissando un punto indefinito davanti a sé.

- E tu saresti? – chiese Daniele, cercando di riprendersi, fissandolo truce.

- Fonzie – rispose il ragazzino, spingendo più a fondo le mani nelle tasche della giacca di pelle.

- Quello di Happy Days? –

- Esattamente. Non sono identico? –

Daniele ridacchiò, scuotendo piano la testa e guardandolo con la coda dell’occhio.

- Sei biondo – ribatté poi, scompigliandogli la chiara capigliatura con una mano. – Fonzie non era bruno? -

- Dettagli – soffiò il ragazzino, sbuffando ed allontanandosi di un passo.

- Se lo dici tu – mormorò Daniele, fermandosi giacché il gruppo aveva raggiunto una nuova casa.

- Sai cos’altro dico? –

Daniele non rispose, il capo reclinato all’indietro per cercare di vedere le stelle che non guardava da troppo tempo. Sentiva i pensieri che gli si accalcavano nella testa, immagini che si susseguivano: un’Audi aspettata da tempo e che ora sembrava quanto mai vicina, la scuola che lo tartassava, i genitori che…

- Dico che dovresti tenere d’occhio la fatina -

Daniele inarcò le sopracciglia, abbassando la testa per guardare il ragazzino:

- Cos… -

Lo spazio prima occupato, ora era completamente vuoto. Daniele girò su se stesso, cercando quel giacchetto di pelle nero con cui prima stava parlando. – Fonzie? Dove sei finito? –

Continuò a cercarlo con gli occhi, dimenticando il gruppo che stava seguendo e che era scomparso alla fine della strada. Fu allora che ripensò alle parole dette dal ragazzino in nero: “ Tieni d’occhio la fatina”

Daniele riprese a camminare, affrettandosi a girare l’angolo per raggiungere gli altri.

Camminava a passo veloce, la parola “fatina” che gli rimbombava per qualche motivo nella testa. Di primo acchito aveva pensato a Trilli, a Sofia… e senza rendersene conto aveva sentito quell’ansia che saliva. Non ce n’era motivo, lo sapeva bene. Eppure ancora una volta annaspava.

Girò l’angolo rischiando di inciampare nei suoi stessi piedi. Si ritrovò sulla strada principale, metri e metri pieni di zombie, girasoli, mele e cani parlanti… un numero apparentemente esorbitante di costumi. Si fece largo tra la folla, cercando con gli occhi un punto di riferimento: che fosse Rossana, Sofia o anche Fonzie.

Continuava ad annaspare. Perché non li vedeva? Che diavolo di fine potevano aver fatto?!

- Daniele? -

Si voltò di scatto, incredibilmente sollevato dal sentire quella vocetta conosciuta. Sorrise, trovandosi davanti Rossana già aggrappata alla sua felpa. Guardò alle spalle della bambina ma non vi trovò la fatina.

- Daniele! Marco dice che è da stupidi aver paura del buio – si lamentava la bimba, gli occhi umidi che minacciavano il pianto – Diglielo che non è da stupidi! Perché non lo è vero? -

Daniele scosse la testa, sperando di darle ragione. Non aveva davvero sentito le parole della sorellina, la testa piena di troppi pensieri. A riportarlo in sé furono gli occhi sempre più liquidi, impossibili da ignorarsi.

- Sono una stupida? – chiese ancora la bimba, sconsolata come non mai.

- No. Certo che no – rispose Daniele, lo sguardo finalmente concentrato. – No, che non sei una stupida, Rossy. – aggiunse, sorridendole indeciso.

Lei rispose al sorriso, illuminandosi in volto e dimenticando rapidamente la tristezza.

- Hai avuto buoni dolcetti? - s’informò Daniele, camminandole al fianco.

- Abbastanza. Nessuno però mi ha ancora dato una Rossana – piagnucolò lei, scavando con le manine nel cestello colorato. – E’ la mia caramella preferita, sai? Perché è dolce e si chiama come me –

Daniele guardava distratto nel cestello della sorellina, quando con la coda dell’occhio individuò un giubbino di pelle che svoltava in una stradina laterale. Il ragazzo sentì un brivido lungo la schiena, fermandosi piano.

- Rossana – mormorò, poggiando una mano sulla spalla della bimba – Sai dov’è quel ragazzo con cui stavo parlando prima? -

- Quale ragazzo? –

- Era vestito di nero, un giacchetto di pelle… biondo, piccolo. Parlavamo poco dietro di voi –

La bambina scosse la testa, stringendosi nelle spalle.

- Non lo so. Credo di non conoscerlo -

- E Sofia? – chiese Daniele, improvvisamente agitato, scuotendole piano la spalla – Sofia dov’è?! –

Rossana rise, distratta da quattro principesse che la chiamavano dalla casa vicina. Si stava già allontanando, diretta dalle amichette, quando si ricordò di rispondere al fratello:

- Ha detto che doveva incontrare Capitan Uncino -

Daniele corrugò le sopracciglia, preso in contropiede da quella risposta inaspettata. Chi doveva incontrare?

Strinse le labbra, spingendo le mani nelle tasche. Non gli piaceva, per niente.

 Non gli andava bene che Sofia se ne fosse andata, così come non gli era mai andato a genio Capitan Uncino. Che poi, non era proprio lui a uccidere Trilli? Scosse la testa, cercando di non perdere di vista Rossana: almeno una avrebbe dovuto riportarla a casa.

Daniele sospirò, dandosi dello stupido: che doveva fare? Lasciò che i pensieri andassero a ruota libera, sfiorando le zucche, urtando il principio di Archimede, soffermandosi sulla macchina che avrebbe avuto.

Fu durante quel giro panoramico che lo rivide. Solo di spalle, nella stradina alla sua destra, ma lo vide. Ne era certo. Deglutendo a vuoto, senza pensarci sopra due volte, s’incammino verso il fantomatico giubbino di pelle. Quando ebbe raggiunto la stradina, mal illuminata e silenziosa, la giacca non c’era più.

Sapeva di star sbagliando e forse proprio per quello continuò a camminare.

Percorse l’intera stradina, sbucando nella piccola piazza. Si guardò attorno, il respiro che si condensava in una pallida nuvoletta davanti ai suoi occhi. Stava per girare i tacchi, deciso a tornare da Rossana, quando sentì la risata: piccola, quasi un soffio. Eppure la sentì. Proveniva dal fondo della piazza, dal piccolo parco giochi in disuso: quello con l’altalena rotta e lo scivolo rovinato.

Iniziò a camminare molto lentamente.

Giocava con le ombre, cercando di muoversi piano, silenziosamente. Il respiro controllato, gli occhi che si abituavano al buio. Notò la macchia di color verde brillante solo dopo parecchi minuti e la riconobbe come il vestito da Trilli solo dopo una manciata di secondi.

La prima cosa che aveva riconosciuto era stata la risata di Sofia. Ora ne vedeva chiaramente i tratti del viso: seduta sul bordo di una panchina sorrideva, gli occhi fissi sulla figura che aveva di fronte. Daniele aguzzò la vista, cercando di capire se davvero era Capitan Uncino quello con cui parlava Trilli. Fermandosi a qualche metro di distanza dovette ammettere che sì, era proprio un pirata il ragazzo che intratteneva sua sorella.

Avrebbe voluto raggiungerli, afferrare Sofia per un polso e riportarla sul corso, in mezzo alla gente.

Avrebbe voluto che quel pirata smettesse di guardarla in quel modo.

Avrebbe voluto comportarsi da fratello maggiore.

Non lo fece però, bloccato dalle parole che sentì.

- Perché hai accettato, allora? -

- Ti giuro che non lo sapevo! Non esce mai dalla sua stanza, come potevo mai immaginare che sarebbe venuto a fare dolcetto o scherzetto? Devono averlo costretto mamma e papà –

- Ha detto qualcosa? –

- Non si è nemmeno accorto che venivo qua –

Una risata, diversa. Roca, profonda.

- E’ un idiota tuo fratello -

Daniele s’irrigidì. Gli occhi che si chiudevano, cercando invano di reggere il colpo.

- Proprio un idiota. Come puoi essere imparentata con uno del genere? -

- Zitto –

Daniele si aspettava di tutto. Qualunque cosa. Meno che quello.

- Solo io posso chiamarlo idiota. Come ti permetti? Non provare mai più ad insultarlo, hai capito? -

- Dai piccola, non ti scaldare! Scherzavo, che diavolo! –

- Non mi piace quando scherzi su queste cose – rispose lei, alzandosi in piedi e facendo per allontanarsi.

- Ma che, te la sei presa? – rise lui – Solo perché ho dato dell’idiota a tuo fratello? –

Sofia gli aveva dato le spalle ma a quelle parole si girò di nuovo per fronteggiarlo, incollerita come mai.

- Non provare più a ripeterlo – sibilò, i denti serrati.

Il pirata rise ancora, muovendo qualche passo verso di lei. Si mosse rapidamente, afferrandole il braccio per impedirle di allontanarsi ancora. Avvicinò il viso a quello della ragazza, sorridendo con cattiveria.

- Io dico quello che mi pare -

Sofia cercò di liberare il braccio dalla stretta ferrea del giovane, inutilmente. Scalciò, senza colpirlo.

- Non ti agitare, fatina – rideva, lui – Non ti va di giocare? -

- Lasciala –

La scena s’immobilizzò all’istante.

Come se le parole di Daniele avessero avuto il potere di fermare il tempo.

Poi si voltarono entrambi verso di lui. Due paia di occhi: uno irridente, l’altro sollevato.

- Che hai detto, scusa? – chiese il pirata, la voce dura più di quanto fosse invece l’atteggiamento.

Daniele mosse qualche passo verso di lui: lo superava in altezza, in età e in forza. Lo sapeva lui e lo sapeva Capitan Uncino. Lo fissò negli occhi. Era sicuro di sé, pronto a colpirlo, a fargli davvero male.

Lo meritava. E lo avrebbe anche fatto, bastava un suo cenno, un suo movimento… ma non ci fu. Il sorriso del pirata si spense piano, mentre le sue dita lasciavano il braccio della ragazza. Sofia arretrò rapida non appena le fu possibile, portandosi alle spalle del fratello. Anche il pirata era arretrato, tornando alla panchina, dando loro le spalle. Daniele continuò a guardarlo, poggiando una mano sulla schiena della sorella e sospingendola.

Sentì il tremore che la pervadeva e si avvicinò di più, avvolgendole le spalle con un braccio.

- Va tutto bene -

 

*

 

- Come… come hai fatto a… come sapevi che… -

Daniele sorrise, cercando e sperando di riuscire a confortarla. La guardò, il viso calmo e rilassato.

- Ti ho visto mentre ti allontanavi – mentì, stringendosi nelle spalle.

- E mi hai seguita? –

Daniele annuì, stringendo le labbra e rilassando le spalle alla vista della strada principale.

- Perché? -

- Tu perché sei andata via? – ribatté lui.

- Dovevo vedermi con quel cretino –

Daniele ridacchiò, annuendo fra sé e sé: - E’ un poco di buono, lo sai? –

- Ora sì – rispose Sofia, accennando un timido sorriso.

Stava per aggiungere qualcos’altro, quando furono interrotti da un pulcino nero che si fiondò loro incontro.

- Ma che fine avevate fatto? – li assalì Rossana – Siete spariti! Mi avete lasciato sola! -

- Scusaci, Rossy – mormorò Sofia, piegandosi sui talloni.

Daniele annuì, scusandosi silenziosamente.

- Ci siamo persi qualcosa? -

- Sì – dichiarò eccitata la bimba – Ho scoperto che Marco ha paura dei ragni! –

Sofia la guardò senza capire: - E’ un bene? – chiese, incerta.

In quel momento Daniele ricordò ciò che gli stava dicendo prima e sorrise, intromettendosi nel discorso.

- Certo che è un bene! – esclamò – Ora non ti può più prendere in giro, vero? -

Rossana saltò su felice, gli occhi che le brillavano e le gote rosse.

- Esatto! – strillò, afferrando per mano il fratello e tirandolo con sé.

- Dove andiamo? –

- A fare dolcetto o scherzetto – rispose lei con ovvietà.

Daniele sentì Sofia che ridacchiava alle sue spalle e sospirò, fingendosi abbattuto.

- Non ti sei ancora stancata? -

- No! Come fai a pensarlo? – gli chiese lei, davvero sorpresa – E poi non ho ancora avuto una Rossana –

Sofia gli si avvicinò dall’altro lato e lo prese a braccetto, mormorandogli all’orecchio:

- E’ la sua caramella preferita -

- Lo so – rispose Daniele, contento di averla presa in contropiede.

Sofia si riprese alla svelta, pizzicandogli scherzosamente un fianco e rimbrottandolo:

- E sai anche che un ragazzino sta cercando di attirare la tua attenzione? -

Daniele sobbalzò a quelle parole, voltandosi di scatto nella direzione che gli indicava la sorella. Strinse gli occhi, fermandosi sul posto e fissando il bambino: era proprio lui, Fonzie. Balbettando il ragazzo si scusò, dicendo alle sorelle di andare avanti, perché le avrebbe raggiunte dopo poco. Loro annuirono, confuse, continuando a camminare e lasciandolo indietro. Daniele le fissò per un po’, quindi attraversò la strada, raggiungendo il piccolo demonio. Sentiva una strana sensazione, qualcosa di diverso dalla solita ansia.

Una sensazione che sembrava assalirlo sempre e solo in presenza del bambino.

- Si può sapere a che gioco stai giocando? – gli chiese, aggressivo, guardandolo di sbieco.

- Io? –

- Non fare la faccia d’angelo: sei tutto fuorché quello –

Il ragazzino sorrise, un sorriso furbo, saputo:

- Attento alle parole, potresti arrivare a scomode verità -

Daniele sussultò, sorpreso dal tono improvvisamente serio del suo interlocutore. Arretrò di un passo, senza smettere di fissarlo.

- Che stai dicendo? – gli chiese, sconcertato – Come fai a sparire in quel modo e perché ti comporti in modo così assurdo? Non è divertente, sai? -

L’altro ridacchiò, sedendosi sul bordo del marciapiede con nonchalance.

- Quella frase poi! “Tieni d’occhio la fatina”, si può sapere da dove ti è uscita? E’ uno scherzo? -

Non ottenendo risposta Daniele continuò. Sempre più nervoso, il tono di voce che saliva senza che se ne rendesse conto. Scese dal marciapiede mettendosi di fronte al ragazzino: l’espressione truce e le braccia conserte in atteggiamento battagliero. Qualcosa non quadrava. Assolutamente no.

- Se scherzavi, sappi che non è stato divertente – sibilò, il cervello che faceva gli straordinari.

Come faceva quel tipetto a sapere che Sofia sarebbe stata in pericolo?

Era stato davvero un avvertimento il suo? L’aveva davvero guidato fino al parco giochi in disuso?

Daniele chiuse gli occhi sentendo che la testa cominciava a girargli in maniera preoccupante. Li riaprì solo quando sentì quell’odore sospetto: ci mise un po’ a mettere a fuoco la sigaretta tra le labbra dell’altro, troppo sconvolto per riuscire a realizzare al meglio la situazione.

- Stai fumando? – chiese, la voce che gli moriva in gola – No, dico: stai davvero fumando? -

Fonzie stringeva la sigaretta fra due dita: l’allontanò dalle labbra, schiudendole quel poco che bastava a far uscire una folata di pallido fumo. Gli occhi azzurri sembravano essersi congelati, fissi in quelli di Daniele.

- Non hai più di dieci anni - mormorò il ragazzo, la testa che gli si svuotava, stanca di quel gioco.

- L’età è sempre relativa –

Daniele rise, un ultimo e disperato tentativo di allentare la tensione.

- Me ne vado – disse, guardandosi nervosamente alle spalle – Non mi piace avere a che fare con ragazzini come te. Inquietante, ecco cosa sei. Tu, la tua sigaretta, le tue frasi e i tuoi occhi. Non fate al caso mio -

- Perché? –

- Te l’ho appena detto – rispose secco Daniele, dandogli le spalle. Stava per andarsene, stanco e provato da quell’incontro, quando si decise a fare un’ultima domanda:

- Come ti chiami? –

La risposta si fece attendere parecchi secondi.

- Non è nel tuo interesse saperlo -

Daniele sorrise. Sorrise al vuoto davanti a sé. Ne era sicuro. Lo sapeva che avrebbe risposto in quel modo.

Spaventoso, ecco cos’era.

Le membra infreddolite, si avviò lentamente, attraversando la strada con calma.

- Saluta le tue sorelle -

Daniele si pietrificò sul posto, indeciso se girarsi o no. Sempre quel ragazzino, sempre Fonzie.

Non doveva.

Faticosamente si girò di qualche grado, lo stretto necessario per guardarlo con la coda dell’occhio.

Era ancora seduto sul bordo del marciapiede, dall’altra parte della strada. Gli occhi su Daniele.

- Perché? – chiese il ragazzo, un soffio stentato – Perché non mi lasci in pace? Perché ce l’hai con loro? -

- Non l’hai ancora capito, Daniele? –

E ancora una volta, per l’ennesima volta, annaspava.

- Come sai il mio nome? –

Daniele si girò del tutto, fronteggiando il bambino. Sorrideva, la zazzera bionda illuminata da un lampione poco lontano. Sorrideva, mostrando i denti troppo bianchi. Sorrideva, spegnendo la sigaretta fra due dita.

- Le porto via, Daniele -

- Che stai dicendo? – sussurrò il ragazzo, chiedendolo quasi a se stesso.

Sentiva lo stomaco che si contorceva mentre respirare diventava sempre più difficile. Socchiuse gli occhi, cercando di guardare meglio quel piccolo corpo capace di spaventarlo tanto. Perché?

- Smetti di sorridere! – gridò, muovendo un piccolo passo in avanti – Cosa diavolo stai dicendo? Dove le porti? Quando, come e perché dovresti portarle da qualche parte?! -

Il bambino non aveva smesso di sorridere un attimo. Quando Daniele si zittì, il respiro affannoso e i pugni contratti, si alzò in piedi. Infilò le mani nelle tasche della giacca di pelle, lanciando uno sguardo alle stelle.

- Devo portarle via con me, Daniele -

Daniele scosse la testa, lentamente, socchiudendo gli occhi.

- Non è possibile – mormorò, a voce così bassa da credere di non essere stato sentito.

- E’ il mio lavoro –

Daniele rise, una risata oscura, terrificante.

- E cosa saresti? – sbraitò, ridacchiando convulsamente.

- C’eri vicino prima, Daniele –

Il ragazzo si zittì, ricordando senza volere le parole che aveva detto: Non fare la faccia d’angelo: sei tutto fuorché quello.

- Un angelo? – chiese, un sarcasmo caustico nella voce.

- Oh, no. Non un angelo – rispose il ragazzino, smettendo di sorridere – Non il tipo di angelo che vorresti –

- Non capisco –

- Hai capito benissimo, invece. E’ arrivato il loro momento, Daniele –

Il ragazzo scosse ancora la testa, le nocche pallide tanto i pugni erano stretti.

- L’angelo della morte? -

Non ci fu bisogno di confermare quelle parole.

Daniele lasciò che le braccia gli ricadessero inermi sui fianchi, gli occhi che si appannavano e la bocca che s’inaridiva. Annaspava, ma neanche se ne accorgeva.

- Perché? - chiese, lo sguardo vitreo.

- Devo –

Daniele negò con il capo.

- Perché mi hai portato da Sofia? Perché mi hai messo in guardia? Perché mi stai dicendo tutto questo?! -

Il bambino non rispose subito, guardando di nuovo le stelle per qualche attimo.

- Cerco sempre di fare in modo che l’ultima sera sia speciale – disse – Che non abbiano qualcosa di cui pentirsi, qualcosa per cui star male. Capisci? -

- No –

- Ti fai troppi problemi, Daniele – ridacchiò il ragazzino.

Ma Daniele non lo ascoltava più. Si era girato, guardando la terza casa bianca, quella dal cui vialetto stavano uscendo una fatina e un pulcino nero. Le osservò: Trilli e Calimero.

Era come se il tempo si fosse fermato.

- Prendi me -

 

*

 

- Daniele! -

Sentì la manica della felpa che gli veniva improvvisamente tirata verso il basso e sorrise.

- Ti avevamo dato per disperso – mormorò una voce alle sue spalle.

Si voltò, sorridendo anche a Sofia.

- Mi sono perso qualcosa? -

- Sì! – strillò la piccoletta che ancora lo stringeva. Daniele finse un’espressione scocciata e si piegò davanti a lei, così da poterla guardare in viso. Le guance arrossate, gli occhi luccicanti, Rossana era il ritratto della felicità. Daniele ridacchiò, prendendole affettuosamente il nasino fra due dita.

- E cosa mi sarò mai potuto perdere? –

- Guarda, guarda! –

Rossana saltellava, incapace di trattenere l’eccitazione. Scavava con le manine nel suo piccolo e strapieno cestello, un’espressione buffa sul viso e la punta della lingua che spuntava dalle labbra strette.

- Eccola! – esclamò, alzando vincitrice la mano destra.

Daniele guardò nella manina e vide una piccola caramella rossa: lunga, sembrava occupare tutta la mano della bambina. Rossana. Rossana aveva finalmente avuto una Rossana.

- La caramella che volevi? – chiese Daniele.

La piccola annuì, soffocando una risata. Lanciò un’occhiata complice alla sorella e poi tornò a guardare Daniele. Allungò la mano verso il fratello: il palmo all’insù, sembrava porgergli la caramella.

- Che c’è? -

- Prendila – rispose Rossana.

- La caramella? –

- Sì –

Daniele scosse la testa, non riuscendo a capire.

- Non era quella che volevi tanto? – domandò – Ora perché me la dai? -

- Voglio darla a te –

- Ma è la tua preferita – ribatté ancora, confuso e sorpreso.

Rossana ridacchiò, mettendogliela in mano.

- E’ per te – affermò, gettandogli le braccia al collo.

Daniele in un primo momento rimase immobile, attonito ed impressionato. Poi strinse la caramella nella mano. Ricambiò l’abbraccio della bambina, stringendola forte e poggiandole il capo sulla spalla.

Sentì quel piccolo corpo abbandonarsi contro il proprio e sorrise, gli occhi che pizzicavano.

- Grazie, Rossy – mormorò, baciandole i capelli.

Si sciolse dall’abbraccio, scoccandole un bacio anche sulla fronte.

Daniele si alzò in piedi, lanciando un’occhiata alle sue spalle. Il sorriso ancora saldo sulle labbra, si voltò verso Sofia. Lei fissava lo schermo del cellulare, ma sentendo gli occhi di lui, sollevò lo sguardo.

- Che c’è? – gli chiese, sorridendo incerta.

- Capitan Uncino è un poco di buono, lo sai? –

- Sì –

- Gli devi stare lontana, lo sai? –

- Sì – rispose ancora Sofia, reprimendo malamente un sospiro esasperato.

- E che ti voglio bene, lo sai? –

La ragazza trattenne il respiro, sorpresa. Prima ancora che se ne accorgesse, si ritrovò stretta fra le braccia del fratello. Dopo qualche secondo ricambiò la stretta, sorridendogli contro la spalla.

- Tutto bene, Daniele? – gli chiese, il sorriso nella voce.

Il ragazzo annuì, scostandosi da lei.

- Devo andare – mormorò, senza smettere di fissarle.

- Dove? – chiesero loro in coro.

Daniele sorrise, un sorriso malinconico ma sicuro. Reclinò la testa all’indietro, lasciando che lo sguardo si perdesse fra i miliardi di stelle che coloravano il cielo nero. Sorrideva, mentre i pensieri scorrevano liberi. Archimede, Rossana, la mummia, le zucche, Trilli, la giacca, Cleopatra, l’Audi, Capitan Uncino, Fonzie…

Sorrideva, rendendosi conto che per la prima volta non annaspava.

- Un angioletto difettoso mi sta aspettando -

Attraversò la strada, avvolto da un silenzio che era solo suo.

Sorrideva, raggiungendo senza incertezza il piccolo Fonzie. Gli scompigliò la zazzera bionda, facendogli cenno con il viso che era pronto ad andare.

Sorrideva, una Rossana stretta fra le dita.

Una lacrima che gli rigava la guancia.

 

§§§

va sentito quell'illi, a Sofia.  per qualche motivo nella testa. efinito davanti a sè.

   
 
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