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Autore: DubheShadow    09/12/2010    1 recensioni
Una song-fic ispirata dall'omonima canzone di Marco Mengoni.
Il mio non è un racconto pretenzioso, un qualcosa di speciale: è la narrazione di un giorno qualunque, di qualcosa che trae elementi positivi dalla noiosa routine della quotidianità cittadina. Un piccolo dono, uno scambio che farà nascere un po' di magia, e che illuminerà il grigiore del giorno con la sua piacevole freschezza autunnale.
Genere: Introspettivo, Slice of life, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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 I libri vanno e vengono, sono come le foglie di questo autunno invadente e impreciso. Quasi li si vede, appesi con mollette in legno ai rami degli alberi, le pagine che frusciano, scricchiolano, sbattute incessantemente dal vento. Come dei sogni racchiusi nella morsa del tempo, che cercano di fuggire urlando, ma le loro catene li tengono ancorati al palo arrugginito del fato; loro si ritraggono spauriti nel loro cantuccio, per poi tentare la libertà una volta di più. Un libro è un sogno prigioniero delle sue stesse parole.

 I libri vanno e vengono. Alla fine, ciò che resta di loro è solo un’emozione. L’emozione che si prova quando si legge, o quando si è appena finita una storia: quel sentore alla bocca dello stomaco, proprio lì, quel brivido che ogni tanto ti percorre le dita delle mani, il viso che si avvicina alle parole e alle frasi, risucchiato.  Un senso di noia che profuma di nebbia, una tranquillità celata che si trascina dietro il peso di una storia che non si riesce a narrare. L’indifferenza iniziale, l’approccio, che poi talvolta si tramuta in invaghimento, e raggiunge una passione indecente…  si può amare così tanto un pezzo di carta?

Questo pomeriggio l’aria è come un buon libro, ti trasporta nell’amplesso delle sue trame, ma lo fa piano, dolcemente. Quasi non ti accorgi che, a un certo punto, è stata lei a guidarti in quel luogo, a muovere i tuoi stessi passi.

 È fresca, leggera. Le foglie umide invadono a tratti i sentieri del parco, impiastricciate come lo schizzo di un bambino, si appiccicano fastidiosamente alle suole, e là restano, mezze marcite, con quell’odore persistente e intriso di pioggia e di sole. Pizzica appena il naso e libera i polmoni dal fumo dei ricordi, si insinua per la gola come tante praline di cioccolato piccante.

 Un uomo cammina su quelle vie, il capo chino, il passo lento di un fantasma che si è smarrito fra i meandri del suo castello. Anche i capelli, di un biondo cenere, sono smorti come quelli di uno spirito. Si stringe un po’ nel suo paltò del colore delle caldarroste. È fatto di un tessuto morbido e rigato, due ampie tasche ai lati per contenere un altro mondo, magari più bello, fatto di primavere e di gite nei boschi. L’uomo sente il freddo pungergli la pallida pelle, e ha le braccia incrociate, le mani che sfregano la stoffa del cappotto alla ricerca di un granello di calore. Una di esse stringe un libro, il pollice e l’indice che impugnano il dorso sbiancando attorno all’unghia, e i polpastrelli rossi come se immersi in succo di lampone.

 Si siede su una panchina, e comincia a leggere. Pagina dopo pagina, il freddo lo abbandona per rifugiarsi in altre lande desolate, forse nelle steppe del nord, o nei pressi di qualche baita scandinava, a gelare fra le volpi artiche e a sussurrare segreti alle miti alci. Gli occhi non guardano che la storia, la sua storia, e i passanti che scorrono davanti a lui sono solo una cornice appena percepita dalle iridi incantate. Una cornice d’autunno su cui scorrono anonime scene, fotografie in negativo. Una madre si ferma un attimo per aggiustare la copertina in pizzo e lana del suo bambino, infagottato in una carrozzella che fra un po’ sarà troppo piccola per lui, poi prosegue veloce per la sua breve camminata. Un nonno accompagna la nipote a dar da mangiare alle anatre e ai cigni in riva al lago artificiale, passeggiano lenti, lei aggrappata al suo braccio rinsecchito che a sua volta si sostiene a un bastone. Due innamorati mano nella mano, il lampo più fugace che l’occhio riesce a scorgere – fotogrammi di vita.

 Il tempo è relativo, scorre, si ferma, poi riprende impetuoso, un orologio sincronizzato con il battito d’ali di una civetta. Il segnalibro è un rametto di mimosa raccolto la primavera prima, gli steli verdognoli sottili come fili di raso. Nei primi tempi, ogni tanto restava sulla carta una polverina giallognola dal sapore acre, e dal ricordo amabile.

 Il tempo va. Le nubi in cielo si scuriscono, è un nastro argento che si trasforma in onice, lentamente, sfumando come un carboncino su tela, la mano imprecisa di un cieco pittore.

 Lui si sfrega le mani sul jeans consunto, poggiando il romanzo sul resto della panchina vuota al suo fianco. Per quel che ne sa, è sempre rimasta così, senza nessun occupante se non lui, nell’angolo, a sedere nel minimo spazio in quel gelo di ferraglia verde. Si alza, esce dal giardinetto. Torna a casa, con l’animo un po’ più leggero, nonostante l’aria immobile dia l’impressione di una cappa pesante e opprimente.

 Percorrendo la strada, su un marciapiede trova un colombo che prende subito il volo. Dall’alto, il parco pare un’oasi in una giungla di palazzi alti e grigi, la sua forma tondeggiante immersa nella solitudine della sera.

 

 Ogni libro riflette i particolari della vita, ingloba la giovinezza terrena e la rende eterna. Deforma e incanta, persuade, insinua la sua lingua fra i paesi del pensiero. Un lettore è un cacciatore, l’autore un cacciato, preda delle sue stesse parole – armi e fucili dell’insaziabile immaginazione. La voce dell’anima, che viene a galla e rimanda alle vicissitudini dell’inconscio, gioca con i sentimenti. Uno, due, tre, stella! Vizio solitario, la lettura. E quando ti giri, vedi solo le foglie cadute e spostate dalla brezza passeggera che, impietosita, ha portato avanti qualche fronda. Ma è una giocatrice inesperta, non si ferma, o si ferma troppo presto, o sbaglia mira…

 Uno specchio enorme che inghiotte chiunque, questo è un libro.

 Questa mattina, l’acqua del laghetto è così. Piatta, incantevole superficie dai riverberi venati di azzurro cielo. Ogni tanto si vedono galleggiare briciole di pane, piccoli soli senza luce, che volteggiano e ritornano poi fra le profondità del lago.

 Una donna, il cappuccio del giubbotto di cotone violetto calato sul volto, supera la polla d’acqua e percorre uno dei tanti vialetti in ghiaia. Il rumore dei suoi stivali fra le pietruzze è come lo spezzarsi di una tavoletta di cioccolato.

 L’aria le si condensa a poco dal viso, tante nuvolette di nebbiolina leggera e umettata, il suo respiro che diventa palpabile e poi si scioglie di nuovo nel nulla dell’esistenza. Sotto le calze di nylon sente il freddo pungerle le gambe, ma non vi presta attenzione.

 È presto, c’è poca gente a percorrere le strade del parco. I barboni hanno già lasciato le loro postazioni notturne, mentre gli spazzini hanno da poco completato il loro lavoro. È la fascia oraria in cui l’isolamento si fa più netto, in cui i pochi transitanti restano in un silenzio religioso, cauto. Il parco diventa un luogo quieto, ma venato di malinconia, un cimitero senza morti – i morti nell’anima, quelli inevitabili, quanti ne passano, quanti camminano ancora per ogni via e ogni goccia di vita.

 Trova una panchina libera, all’ombra di un grande olmo. Un libro giace al suo fianco, sottile, la copertina in brossura sui toni dell’acquamarina, apparentemente dimenticato. Lei lo prende, lo apre, nonostante nella borsa di cuoio avesse con sé un altro romanzo che era intenzionata a leggere. Lo sfoglia con cura, e un ramo di mimosa le scivola in grembo, imbrattandole la gonna di polvere dorata – è la speranza, la fantasia, che le intinge le vesti di filigrana d’oro.

 Usa una bandella della coperta per segnare la pagina da cui era sfuggita la frasca. Esce il suo libro dalla tracolla, schiude la facciata dove c’è il suo segnalibro. Un petalo di rosa essiccata, in passato di un rosa acceso, ma che col tempo ha perso gran parte del suo colore. Delicatamente, tiene in mano entrambi, quasi ponderando un pensiero nascosto e lontano, che però si sta facendo spazio nella sua mente e, come la corsa di una bambina, giunge a una conclusione avventata.

 Decide di portare con sé il libro dimenticato. Lo infila nella borsa, di fretta, è una ladra, una ladra di storie. Invece lascia il suo sulla panchina, il suo libro profumato di fiori, carezzato come la tastiera di un pianoforte, la mano che ne percorre il dorso allo stesso modo del musicista, con cautela e passione.

 Qualcosa le dice che lo troverà. Qualcuno, presto.

 

 Pomeriggio. L’aria è cambiata.

 Frizzante, animata, ha lo stesso sapore di mele e cannella di una lettura incompiuta. Si trascina in raffiche violente che cessano all’improvviso, la calma dell’occhio del ciclone – ti guardano, gli angeli, dall’alto delle nuvole, il respiro sospeso. Poi il soffio riprende, e ancora sconquassa gli alberi nei vortici di fogliame, ti getta addosso le memorie delle stagioni.

 L’uomo tossisce. Alza gli occhi al cielo, e s’accorge che grumi scuri di nubi minacciano pioggia, a breve. Ha con sé un ombrello, nella tasca del paltò. Affretta il passo verso la sua panchina, implorando a mente che uno scherzo del destino abbia fatto in modo di preservare il suo libro. Magari sotto il ventre di una gatta, che vi si è seduta sopra, e che l’ha protetto dalle ingiurie del mondo. Oppure in un cerchio di folletti che l’hanno reso invisibile, fino al suo sperato arrivo.

 Forse la mano di una giovane ne ha lisciato il risvolto, il guanto lilla ad avvolgere dita lunghe e affusolate.

 Un libro c’è. Un romanzo in cartonato blu, la copertina tolta a darne un aspetto anonimo. Lui sfoglia le prime pagine per trovare l’occhiello, e sotto, inaspettatamente, trova una scritta a matita. Vergata con premura, imprigiona il suo sguardo più del titolo dell’opera: “Grazie!”

 Le lettere sono affinate, curve, le vocali che sembrano parti di cerchi, il punto esclamativo un fiore con cinque petali, e una striscia cinerina per gambo. Sembra la scrittura di una donna.

 Comincia a leggere, come è sua consuetudine, le spalle abbandonate sullo schienale freddo della panchina. Un giorno qualunque, un giorno d’ottobre che si ripete uguale, identico. Cambia il profumo della carta, ora dolciastro, cambia la data sul calendario. Ma il giorno è sempre lo stesso.

 Dopo un po’, un petalo di rosa s’interpone alle pagine. È secco, delicato, pare potersi rompere al minimo tocco. Fra le venature, ci sono strati quasi trasparenti, appena rosati, fra le dita fruscia come lo scampolo di una tenda di seta.

 Qualcuno, d’un tratto, interrompe il flusso di gente e d’ombre che lo attorniano di solito, e prende posto accanto a lui. È una ragazza, i capelli impregnati d’autunno, cinnamomo spruzzato di rame, che ricci le si attaccano al viso piacevolmente ambrato. Lei li discosta con un gesto lento della mano, e gli sorride.

 Apre la borsa nera, e tira fuori un libro. Il suo libro. Fa per restituirglielo.

 Lui la blocca, con un cenno tenero, il viso giovane passato da un bagliore di gioia che rimanda il sorriso. Uno scambio equo, la mia storia per la tua, il tuo segno di primavera per il mio, una reminiscenza alla volta. Lo stesso viale, gli stessi passi, che si sono incontrati in momenti diversi, sbiaditi sulla stessa ghiaia e le stesse foglie, forse più scure, forse più rovinate dal vento – lo stesso – l’aria – la stessa. I tempi, diversi, ma è il giorno che è uguale, e le coincidenze cambiano, viaggiano, la confusione rammenta… e il cuore, ricorda.

 Comincia a piovere. I due si avvicinano, lui che la tiene al sicuro sotto il suo ombrello blu acciaio.

 Piove cauto. Poche gocce alla volta, che s’uniscono fra le fronde dell’olmo, e poi ricadono in sorsi e flussi, campanelle che precipitano e risuonano, scontrandosi. Il mondo si trasforma in una macchia indistinta, flebile, dalle forme mutate, grondante di monotonia. O forse è la vista che s’offusca, e non riesce a vedere oltre, oltre questo loro piccolo universo, oltre la vita che ora si spande in un’isola di conforto.

 Piove lieve. Il volto di lei affonda nel suo giubbotto, si poggia sulla spalla ad assaporare quel vago sentore di pino. Le lacrime si riversano dal cielo, non hanno fretta, sono gradevolmente amene, pure, una doccia fresca che lava via il male.

 Piove lieto. Gli occhi di lui, cinerei, percorrono il suo volto, con calma, le labbra posate sulla sua chioma ondulata. Forse serve un po’ di tempo, un silenzio in più. Un giorno, i loro passi si confonderanno, uniti nello stesso destino. Ma, in fondo, oggi è un giorno qualunque. Solo un giorno qualunque.

   
 
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